Apartheid: quello che subiscono i palestinesi
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Una cosa è certa: se i media internazionali si interessassero dei bambini palestinesi (o di quelli del Donbass) tanto quanto si interessano (giustamente) di quelli ucraini, probabilmente non ci troveremmo a scrivere, quasi 74 anni dopo la Nakba e 11 mesi dopo l’ennesimo conflitto armato, che il popolo palestinese subisce una vera e propria Apartheid da parte di Israele – come denunciato, nero su bianco, da Amnesty International il 1° febbraio scorso con un corposo Rapporto di 278 pagine. Un documento talmente scomodo che l’iniziativa organizzata per presentarlo, presso l’Università La Sapienza, è stata osteggiata dallo stesso Ateneo. La condizione per proseguire con l’evento già preventivato sarebbe stata quella di invitare rappresentanti dell’Unione Giovanile Ebrei d’Italia perché gli stessi esercitassero un presunto diritto di replica. Non si comprende, però, perché imporre un contraddittorio a fronte della denuncia di una Organizzazione Non Governativa super partes.
Nel documento, in ogni caso, si legge di: “massicce requisizioni di terre e proprietà, uccisioni illegali, trasferimenti forzati, drastiche limitazioni al movimento e diniego di nazionalità e cittadinanza”. Se vi si aggiungono i dati riguardanti la breve guerra che è deflagrata tra il 6 e il 21 maggio dell’anno scorso, e che ha causato (secondo fonti palestinesi) 256 vittime – tra le quali molti civili e 66 minori; e la distruzione (fonte Onu per gli affari umanitari) di 258 edifici e il danneggiamento di 53 scuole, 11 cliniche e 6 ospedali nella sola Striscia di Gaza, si potrà capire come – sebbene a bassa tensione – il conflitto continui e non potrà avere esito positivo a meno che la si finisca con la politica dei ‘due pesi e due misure’.
“Cosa, precisamente, è sbagliato nel Rapporto sull’Apartheid?”
Questa è la domanda che ha posto il giornalista israeliano Gideon Levy sulle colonne di Haaretz. E ha aggiunto: “La verità è che leggere il Rapporto è disperante. C’è tutto ciò che sapevamo, ma condensato. Eppure in Israele non si sono sentiti né disperazione né rimorso. La maggior parte dei media l’ha emarginato e offuscato, e il coro dell’hasbara (la propaganda) l’ha respinto”.
In effetti, come accade ormai in tutta Europa dall’inizio del conflitto in Ucraina (e in Italia ben prima, quando si decise di zittire ogni voce critica rispetto alla narrativa mainstream sulla pandemia, censurando perfino emittenti quali ByoBlu), i media e le autorità politiche israeliani di fronte alle accuse circostanziate di Amnesty International, hanno utilizzato la tattica del muro di gomma e di infangare la controparte.
Il Ministro degli Esteri, Yair Lapid, ha infatti dichiarato che le accuse della Ong sono frutto di “falsità, parzialità e antisemitismo” e che la stessa “nega il diritto di Israele a esistere come nazione del popolo ebraico”. Dichiarazione dimentica del fatto che, ad esempio, il direttore d’orchestra Daniel Barenboim, nel 2018, proprio contro l’approvazione da parte della Knesset della norma che qualifica Israele come “Stato nazionale del popolo ebraico”, aveva affermato di “vergognarsi di essere israeliano” e che, a causa di tale decisione politica “gli arabi in Israele diventa[va]no cittadini di seconda classe”. Fu Barenboim a osservare acutamente che: “Questa [era] una forma molto chiara di Apartheid”. Ma ciò che quattro anni fa suscitava scandalo in chi si riconosceva in valori di democrazia ed eguaglianza, è oggi rivendicato come fatto incontrovertibile, mentre il continuo spostamento nei parametri della narrazione – unito alla memoria corta dell’Occidente e a un’informazione sempre più univoca – rende disarmati coloro che ancora vogliono esercitare il diritto di critica.
Tre paragoni non troppo azzardati: la Germania del ʻ38, gli Usa di confine, l’Italia del 2022
Ma come vivono i palestinesi la loro quotidianità nei territori occupati da Israele? Ad esempio, non possano stipulare contratti di locazione sull’80% dei terreni di Stato israeliani, mentre in 35 villaggi beduini non ‘riconosciuti’ da Israele, i circa 68.000 abitanti non possono ricevere forniture né di corrente elettrica né di acqua. Se gli israeliani ricordano ancora oggi (giustamente) la Notte dei cristalli e le devastazioni operate dai nazisti alle loro proprietà (abitazioni, negozi e sinagoghe), dovrebbero essere i primi a comprendere la gravità dello spossessamento operato da loro stessi nei confronti dei palestinesi: “dal 1948 Israele ha demolito centinaia di migliaia di case e di altre strutture palestinesi in tutte le aree sotto la sua giurisdizione e sotto il suo effettivo controllo” e inoltre: “tra il 1967 e il 2017 circa il 38% delle terre palestinesi di Gerusalemme Est è stato espropriato”. Con la medesima arroganza dei tedeschi al seguito dei nazisti, sempre a Gerusalemme Est: “I quartieri palestinesi sono spesso presi di mira da organizzazioni di coloni che, col pieno appoggio del governo israeliano, agiscono per sfollare le famiglie palestinesi e annettere le loro case”.
Il mondo cosiddetto libero si indigna da anni per l’allungamento del Muro ‘della vergogna’ che separa gli Stati Uniti dal Messico, e che a gennaio del 2021 raggiungeva la lunghezza di 727 km (su 3.169 km totali di confine) – edificato sia dai repubblicani sia dai democratici e che, proprio per le sue dimensioni, è un simbolo di divisione altamente inefficace: basti pensare che ogni giorno mezzo milione di messicani attraversa il confine per lavoro o altro, in maniera perfettamente legale, per capire come stupefacenti e guadagni del narcotraffico hanno modi ben più sicuri per viaggiare. Eppure quasi mai si discute di un altro Muro, lungo quasi parimenti (700 chilometri), e che Israele sta ancora ampliando, grazie al quale ha “isolato le comunità palestinesi che, per entrare e uscire dalle loro abitazioni, devono ottenere più permessi speciali. A Gaza oltre due milioni di palestinesi vivono in una crisi umanitaria creata dal blocco israeliano”.
E sempre il mondo libero continua a rivendicare come unica possibilità di opporsi a un regime – indipendentemente dal fatto che sia democratico e pacifico o dispotico e violento – quella di manifestare il proprio dissenso. Ma Amnesty puntualizza a proposito: “Nel 2018 i palestinesi di Gaza avviarono proteste settimanali lungo il confine con Israele per affermare il diritto al ritorno dei rifugiati e chiedere la fine del blocco. Ancora prima che le proteste avessero inizio, alti funzionari israeliani avvisarono che contro i palestinesi che si fossero avvicinati al confine sarebbe stato aperto il fuoco. Alla fine del 2019, le forze israeliane avevano ucciso 214 civili palestinesi, tra cui 46 minorenni”. Proprio alla luce di queste reiterate uccisioni illegali, Amnesty ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu l’embargo totale sulle armi verso Israele – domanda che corrisponde in pieno a quell’articolo 11 della Costituzione italiana quando recita che il nostro Paese ripudia la guerra anche: “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e però, in questo mondo dove ormai dilagano propaganda e retorica, questo non ci ha fermati dall’inviare armi a uno dei contendenti nel conflitto tra Ucraina e Russia – dimentichi ormai della più basilare tra le regole della non-violenza.
I conflitti a bassa intensità non hanno happy ending
Il 18 febbraio scorso, il Comitato delle Nazioni Unite per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD) avrebbe finalmente deciso di creare una Commissione “per indagare sugli atti di discriminazione razziale compiuti da Israele contro il popolo palestinese”.
Tenendo purtroppo conto della non consequenzialità tra le risoluzioni dell’Onu ed eventuali reali miglioramenti nella condizione della popolazione palestinese o un effettivo riconoscimento dello Stato di Palestina, ci pare di trovarci di fronte all’ennesima espressione di buona volontà priva di ricadute pratiche e politiche. E del resto, dopo la caduta del Muro di Berlino, non abbiamo visto sbocciare un mondo di pace, bensì moltiplicarsi i conflitti che lasciano strascichi decennali e che, nella bassa intensità, non trovano più quel minimo di riflesso mediatico per farci accorgere che i bambini continuano a morire – in Palestina come in Siria, in Mali, Yemen o Somalia.
venerdì, 1° aprile 2022
In copertina: Foto di Kevin Snyman da Pixabay.