Il Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Gli statunitensi hanno sempre amato i nomignoli affettuosi e il deliberato ossimoro per nominare bombe, missili, operazioni di guerra e invasioni. Pensiamo a Igloo White, che rimanda alle casette di ghiaccio degli eschimesi ma serviva a direzionare gli attacchi aerei contro i vietnamiti, quando percorrevano il sentiero di Ho Chi Min verso il Laos. Oppure all’esotico Gothic Serpent, coniato per la cattura di Aidid in Somalia, uno dei tasselli dell’operazione Restore Hope (‘ridare speranza’ con una guerra è affaire squisitamente statunitense), che culminò con la battaglia di Mogadiscio e la disfatta documentata dallo storico Mark Bowden nel libro Black Hawk Down: a story of modern war. Ma il meglio era già stato assaggiato con il piccolo Little Boy, che esplodeva alle 8.17 del 6 agosto 1945 su Hiroshima (il 9 sarebbe toccato a quel ‘vecchio grassone’ di Fat Man su Nagasaki).
E adesso immaginiamo. Immaginiamo che sia un altro lunedì. All of us don’t like Mondays, cantavano i Boomtown Rats… e bisogna alzarsi. Fa già caldo alle 8.00, il cielo è lattiginoso, la cappa afosa soffoca e, se si apre la finestra, il poco umidore notturno nascosto tra gli angoli oscuri di casa si dissolve, risucchiato dall’esterno. Immaginiamo di dover uscire per forza, per andare al lavoro o a un appuntamento col dentista che avevamo rimandato e già rimpiangiamo che il dente non sia marcito del tutto e che la doccia – quei pochi minuti d’illusione di benessere – non riuscisse a sputare un’acqua meno brodosa. Immaginiamo di stare preparando la colazione e che i nostri figli non si decidano tra una fetta di torta gelato avanzata dalla sera prima e il latte con i cereali che gli rifiliamo tutti i giorni – e non abbiamo più la forza per imporci. Immaginiamo di prendere l’auto e di accorgerci che l’aria condizionata si è scaricata e la brezza che entra dal finestrino ci fa l’effetto del phon, mentre le persone ci sfilano davanti a passo lento, quasi fossero ombre del deserto che, sull’asfalto bollente, già si sciolgono in un orizzonte al rallentatore.
Little Boy, quel giocattolo che sta volando sulle nostre teste, non esplode a terra, ma a 580 metri d’altezza. Poi arriva l’onda d’urto a 3.000 metri al secondo, 7 tonnellate al metro quadrato, come se finissimo con l’auto a tutta velocità contro un muro di mattoni e l’impatto ci togliesse l’aria e la vita. E poi la luce… accecante, come un flash sparato negli occhi, e le fiamme dell’inferno che radono al suolo 60mila edifici, falcidiando 80.000 esseri umani (amici, nemici o sconosciuti cosa conta?), e che disseminano la morte lenta di altri 200.000 nei giorni, mesi e anni seguenti. Uccisi dalle radiazioni: invisibili, inodori, silenziose ma inestirpabili – che penetrano nel suolo, rendono le acque imbevibili, uccidono piante e animali, modificano il Dna delle madri e rendono i maschi padri mancati, o generano bambini con malattie genetiche e forme di cancro che li ammazzano ben prima che diventino adulti. E a terra resta solamente un’enorme cicatrice dove prima c’era una città – la vostra, la nostra città.
Dal Piano pandemico al nuovo Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari
L’Italia è un Paese di ignoranti. Non conosciamo la storia e tanto meno la scienza. Non abbiamo nemmeno memoria: Černobyl’ e Fukushima Dai-ichi si palesano alle nostre menti come nomi esotici di luoghi ed eventi che non ci sono mai appartenuti. Nessuno rammenta i 7.600 militari italiani che si sono ammalati di cancro (e 400 sono già morti), semplicemente perché sono stati inviati (senza nemmeno tute di protezione) in aree dove la Nato aveva usato i proiettili all’uranio impoverito, durante i bombardamenti del 1999 in ex Jugoslavia.
Solo questa può essere la spiegazione del perché nessuno inorridisca quando – dopo il ‘fumoso’ Piano pandemico – gli organi di stampa iniziano a strombazzare di un Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari nel caso di ‘incidenti’ in centrali nucleari (a seguito dell’allarme, vero o presunto, per Černobyl’ e mentre il Presidente degli States, Joe Biden, apre alla possibilità di utilizzo delle armi nucleari in “circostanze estreme”).
Di fronte alle 5.500 testate statunitensi e alle 4.500 russe (oltre a quelle francesi, britanniche, cinesi, indiane, pakistane, eccetera), che possono colpire a migliaia di chilometri di distanza; di fronte alla minaccia che ogni missile balistico possa essere armato con più testate nucleari contemporaneamente; l’idea che un qualche ‘scudo’ possa salvarci appare ridicolo.
Ma nella bozza del nuovo Piano – che sarebbe stato già firmato dallo stesso Draghi – risulterebbero tre passi ‘fondamentali’ che ci salverebbero – ne siamo quasi certi – da una nuova Černobyl’ (che si trova a quasi 2.400 km di distanza) ma non da una Hiroshima su scala intercontinentale.
Il primo passo sarebbe (per chi risiede a meno di 200 km di distanza dall’impianto, e qui sorge il primo dubbio sulla pubblicità mediatica, dato che l’Ucraina ne dista sempre 2.400): “restare nelle abitazioni con porte e finestre chiuse e i sistemi di ventilazione e condizionamento spenti, per brevi periodi di tempo. Con un limite massimo ragionevolmente posto a due giorni”. Sia mai tre… e che dobbiamo accontentarci delle penne lisce!
Poi la ‘road map’ del Governo – ancora più ‘fantasiosa’ di quella per l’uscita dal green pass – prevederebbe una “iodoprofilassi, con possibile monitoraggio della contaminazione personale” (immaginiamo con la medesima efficienza dei tamponi rapidi e della distribuzione, negli ospedali, dei monoclonali), e come gran finale “della fase di transizione… la bonifica dei territori e la gestione di possibili materiali contaminati”. Una vera passeggiata.
Tenendo conto che aggiornare un Piano che prevede, essenzialmente, misure entro i 200 km per ciò che si svolge a 2.400 km appare alquanto futile (sebbene le centrali francesi, ad esempio, siano molto più vicine), ci si chiede se la pubblicizzazione dello stesso non sia un modo per tranquillizzarci di fronte ad altro – tipo le minacce di una guerra agita con armi nucleari.
Siamo certi che quando il fall out atomico ricadrebbe su fiumi e campagne e le radiazioni ci mangerebbero come un cancro o un parassita le carni, la nostra Sanità – che non è stata nemmeno capace di far fronte a qualche terapia intensiva in più o di distribuire mascherine decenti ai medici – sarebbe in grado di soccorrerci? E il nostro territorio, incapace di assicurarci l’autosufficienza alimentare; o le nostre acque che gli italiani già adesso evitano (e, per snobismo o in qualche caso necessità, sostituiscono con montagne di acqua firmata, in bottiglie di plastica); o la nostra dipendenza energetica non ci impedirebbero anche solo di sopravvivere oltre la settimana?
Ma il meglio lo partorirà la nostra debole spina dorsale – che ci ha mandati in tilt di fronte a coprifuochi a base di take away e serial online. Siamo certi, fin d’ora, che sarà questa l’ʻarma’ che ci salverà dalle ‘menti’ del Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari.
Il titolo è tratto da Hiroshima mon Amour, di Marguerite Duras
venerdì, 1° aprile 2022
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.