Pier Paolo Pasolini. L’ingenuità filosofica nella confusione di ‘tempo mitico’ e ‘tempo storico’
di Alessandro Alfieri
“Viviamo in cuore alla mistificazione e all’ipocrisia. Se fossi un profeta, farei ben tristi profezie”: così Pasolini, interprete prezioso della trasformazione epocale dell’Italia del boom economico, guardava con inquietudine al futuro. Gli eventi degli ultimi decenni hanno confermato le sue intuizioni; tuttavia, il presente lavoro vuole criticare una prospettiva teorica che è a fondamento dell’opera di Pasolini, evidenziandone quella che ritengo sia un’‘ingenuità filosofica’. Si tratta della confusione di ‘tempo mitico’ e ‘tempo storico’, oppure, detto in altri termini, della ‘mitizzazione’ di un passato effettivamente esperito dal popolo italiano prima di quello che lui stesso chiamò ‘genocidio culturale’, ovvero ‘un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza’. Si tratta del rimpianto per l’Italia pre-industriale, l’Italia rurale ancora lontana dal “fascismo mediatico” imposto tanto dalla televisione quanto dalle dinamiche del mercato neo-capitalistico, volte a “livellare” tutti i componenti della comunità per una più efficace strategia commerciale.
In molti sono stati d’accordo ad accusarlo per questa mitizzazione del passato rurale e contadino dell’Italia, alla quale guardò sospirando come ad un’ ‘arcadia’ lontana. Lui stesso rispose a tal proposito a due illustri personaggi, Maurizio Ferrara e Italo Calvino, al quale erano rivolte le seguenti parole:
Maurizio dice che io rimpiango un’‘età dell’oro’, tu dici che rimpiango l’ʻItalietta’: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio. […] l’ʻItalietta’ è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? […] È questo illimitato mondo contadino prefazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a pochi anni fa, che io rimpiango. Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita.
La sua opera non è solo la dichiarazione della nostalgia per il passato, ma ne è l’emanazione formale, l’emersione significante di questo sentimento. Senza di esso, tutta la produzione di Pasolini non avrebbe alcun senso. La sua visione ‘apocalittica’ della modernità ha a che vedere con questa nostalgia, che coinvolge in sé anche la ‘malinconia’. Senza addentrarsi nella complessa questione filologica nonché psicoanalitica che tale termine porta con sé, mi basterà ricordare una delle definizioni più frequentemente citate ed efficaci, ovvero la malinconia come “ricordo di qualcosa che non si è realmente vissuto”. Si tratta del passato come ‘paradiso perduto’, tema che dopotutto taglia trasversalmente tutta la narrativa del Novecento; la malinconia avrebbe sì a che fare col passato, ma un passato compreso attraverso il filtro del presente, che lo ammanta di un’aura particolare rendendolo infinitamente migliore di quanto sia realmente stato. La memoria distorce il passato in base alle esigenze del presente, che, data una nostra connotazione antropologica, si fonda sempre e comunque sul ‘rimpianto’, in quanto noi uomini siamo da sempre ‘macchine desideranti’, creature perennemente manchevoli di qualcosa e perciò eternamente insoddisfatte.
I romanzi romani: la transizione dall’autenticità alla mercificazione
La maggior parte della produzione letteraria di Pasolini è ambientata (e realizzata) nel corso della transizione tra due fasi storiche. Lo sguardo di Pasolini di Ragazzi di vita, e quello di Una vita violenta, scruta con infinita pena gli ambienti e i luoghi di una Roma ormai prossima alla trasformazione radicale dettata dall’urbanizzazione:
Paradigma di linguaggi della sofferenza e della memoria, di eventi sociali in atto eppure già tramontati, di corpi e di luoghi attratti dalla tragicità della propria estinzione. […] epicizzazione dei valori culturali e simbolici della povertà contemporanea: nelle sequenze sceniche di Ragazze di vita e negli atti di osservazione dei dispositivi eterni, immutabili e affettivi dell’immaginario e della convivenza.
Facendo questo, Pasolini simpatizza con i suoi personaggi, continuando a parlare quel linguaggio prossimo alla dipartita.
Questi testi ‘romaneschi’ danno cittadinanza artistica, e anche pathos lirico, a un mondo miserevole di periferie degradate, a un paesaggio d’edifici fatiscenti, di greti sporchi e abbandonati, di prati derelitti, dove possono sopravvivere le tracce di un’umanità ancora in parte (dolorosamente) indenne dalle convenzioni e mode imposte dagli stereotipi della civiltà industriale. […] Nel vagheggiamento di questo mondo-rifugio, scomparso o sommerso, si saldano insieme due obiettivi distinti e complementari: sul piano letterario, la ricerca d’una parola non artefatta, incontaminata, istintiva; sul piano politico, la denuncia del conformismo borghese e dell’automatismo tecnologico, in nome di valori naturali, biologici o spirituali miticamente riscoperti nell’arcaica civiltà contadina o negli ‘accattoni’ del sottoproletariato metropolitano o nei popoli del Terzo mondo.
Quando si troverà dinanzi al processo compiuto dall’industrializzazione, cercherà infatti rifugio (intellettuale e spirituale) nel viaggio nelle terre del Terzo mondo, dove sono presenti popoli ancora autenticamente legati ai loro ambienti e alle loro radici. In quest’ordine di problemi è illuminante un romanzo come Petrolio, opera pubblicata postuma, che ha fatto parlare di ‘linguaggio post-moderno’ o ‘anti-narrativo’; in Petrolio, tutto è travolto da un vortice narrativo e allucinante, nel quale sono le sue stesse convinzioni a confondersi e a sovrapporsi senza possibilità di ordine logico e razionale: “sconfinamento negli archetipi narrativi del viaggio e delle seduzioni dell’esotismo, atroce fantasmatizzazione dei misfatti del potere e del fascismo, recupero dell’epopea terzomondista, del mito degli Argonauti, dell’insieme delle narrazioni simboliche della civiltà contadina preconsumistica”.
Pasolini mette in severa discussione se stesso ed alcune sue convinzioni; non è un caso che, in Petrolio, troviamo pagine di grande intensità teorica decisamente non in linea col passato, o comunque in grado di complicarne le questioni. Per esempio, nelle seguenti righe, Pasolini mette in dubbio la stessa possibilità di immedesimarsi pienamente nell’altro:
Nella vita dei padri c’è un mistero. Non è una grande osservazione. Ma per questo vorrei aggiungervi qualche variante. Il mistero della vita dei padri è nella loro esistenza. Ci sono delle cose – anche le più astratte o spirituali – che si vivono solo attraverso il corpo. Vissute attraverso un altro corpo non sono più le stesse. Ciò che è stato vissuto dal corpo dei padri, non può più essere vissuto dal nostro. Noi cerchiamo di ricostruirlo, di immaginarlo e di interpretarlo: cioè ne scriviamo la storia. Ma la storia ci appassiona tanto (certo più di ogni altra scienza) perché ciò che c’è di più importante in essa ci sfugge irrimediabilmente. Così non possiamo vivere corporalmente i problemi dei ragazzi; il nostro corpo è diverso dal loro, e la realtà vissuta dai loro corpi ci è negata. La ricostruiamo, la immaginiamo, la interpretiamo, ma non la viviamo. C’è quindi un mistero anche nella vita dei figli: e c’è di conseguenze una continuità nel mistero (un corpo che vive la realtà): continuità che si interrompe con noi.
E cos’è questo mistero, se non la consapevolezza che il passato, e perciò la storia, mantiene sempre uno scarto dalla comprensibilità piena ed esauriente? Non è forse lo stesso poeta, qui, ad ammettere che la storia è sempre una costruzione nella quale “ciò che c’è di più importante ci sfugge essendo sempre una nostra produzione, influenzata dalle nostre esigenze e dal nostro vissuto?”
Pasolini e Adorno, intuizioni comuni e divergenze
L’Italia rurale e paleo-industriale, in una manciata di anni, è stata fagocitata e travolta dalle nuove logiche imposte dalla ‘società dello spettacolo’ e dal ‘nuovo fascismo’ della tecnocrazia, della massificazione del consumo e dell’omologazione culturale: “momento di transito verso l’era dell’intrattenimento meccanizzato di massa, di affermazione delle estetiche e dei modi linguistici dei sistemi massmediali, rogo simbolico e definitivo delle tradizioni preconsumistiche e delle modalità esistenziali acquisite, prima spettacolarizzazione tardotelevisiva della totalità dell’esperienza vissuta”.
In fondo, Pasolini fece sua una riflessione che alcuni decenni addietro era stato uno dei principi della teoria sociale della Scuola di Francoforte. Era Theodor W. Adorno a parlare di ‘omologazione’ e a far emergere le sotterranee affinità tra il nazismo e il capitalismo, fautore della trionfante ‘industria culturale’. Il ‘paradiso perduto’ rimpianto da Pasolini è lo spazio e la dimensione del mito. Il mito è storicamente il prodotto culturale e sociale dell’immaginazione collettiva; lo stesso Pasolini è cosciente di come il mito sia una necessità antropologica persino nella demistificante e consumistica società odierna (tanto che il problema sta in una sostituzione di ‘miti’, che è passata dai miti territoriali legati al folklore locale, al ‘mito nazionale’ del Duce, per arrivare ai miti imposti dal mercato attraverso la pubblicità e la televisione). Il problema sorge quando Pasolini ritiene di poter datare cronologicamente questo paradiso, rinunciando di ammettere che in quanto idealizzazione della coscienza, quel passato mitico, appunto, non c’è mai stato.
Per queste ragioni, Adorno accusava il mito di essere responsabile del proponimento perpetuo del ‘sempre-uguale’ e della logica dell’identità. Sottraendosi alle leggi del tempo e della storia, il mito legittima e convalida lo stato vigente; per questo, in Dialettica dell’Illuminismo, Adorno e Horkheimer rintracciavano la logica del dominio ben prima dell’industrializzazione capitalistico-americana e ben oltre il nazismo e i totalitarismi novecenteschi, partendo fin dall’epica omerica, attraversando l’illuminismo, arrivando fino al trionfo dell’industria e della società massificata. In Adorno, contrariamente a Pasolini, il mito viene riconosciuto come strumento di dominio; questo ci è utile per riflettere su come, anche in quel passato rimpianto dal nostro poeta, non fossero assenti i principi dello sfruttamento delle classi più agiate nei confronti di quelle lavoratrici: i braccianti lavoravano per dei feudatari, che come sapeva bene Marx, anche se non coscientemente, godevano del mantenimento dell’ignoranza della classe lavorativa. Pasolini rivolgeva il suo struggimento a quel passato in maniera lirica, parlando di ‘scomparsa delle lucciole’: “i ‘valori’, nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi”.
Per Pasolini, i valori, o miti, del passato hanno smarrito la loro efficacia, e a essi si è sostituita una nuova logica fondata sul consumo e sullo smarrimento esistenziale: a dei miti ‘positivi’ sono subentrati dei miti ‘negativi’. Per Adorno, la deriva della modernità consumistica non fa che sfruttare la medesima logica del dominio che ha guidato l’intero decorso storico-sociale dell’Occidente: tale logica muta aspetto, mantenendo però invariato il suo stesso concetto.
L’autocoscienza dell’intellettuale e il rimpianto per il ‘paradiso perduto’
Pasolini più volte ribadisce, nei suoi testi teorici, la necessità di una ‘semiologia della realtà’, in quanto la realtà sarebbe, per lui, strutturata esattamente come un linguaggio. Per questo, la realtà stessa può venire intesa come ‘poesia’, perché la sua composizione è già di per se stessa espressione poetica. Secondo questa visione, è ovvio che la poesia debba spogliarsi e privarsi di qualsivoglia orpello o soluzione stilistica per recuperare il suo autentico ‘cuore poetico’. Questa epoché si riflette nel metodo pasoliniano di adozione dei linguaggi delle classi sottoproletarie, delle persone semplici, dei loro dialetti e perfino del loro analfabetismo. Il ritorno alla semplicità ancestrale delle popolazioni italiane attraverso il loro linguaggio, equivale d’altronde alla volontà fenomenologica di risalire all’origine primitiva di tutto, che non può non essere che il ‘corpo’ e la ‘vita’. Il ritorno a questa immediatezza del corpo è al contempo anche un’accusa al progresso, quel progresso che è degenerato nella tecnocrazia contemporanea responsabile sia dell’eliminazione delle tradizioni e delle culture locali legate ai territori, sia dell’uniformità del linguaggio tecnico e specialistico.
Emilio Garroni criticava proprio Pasolini e la sua retorica di una ‘semiologia della realtà’, sostenendo che, visto che “la realtà può essere descritta, conosciuta, agita, espressa come si vuole”, essa non può essere assunta come linguaggio definito, né ancora meno come linguaggio poetico. La realtà ‘è’, si limita ad essere, così come la vita; siamo poi noi, attraverso la nostra pratica ‘critica’ o ‘artistica’, a caricarle di un significato particolare. L’ingenua convinzione pasoliniana di poter cogliere la realtà nella sua ‘purezza poetica’ è complementare alla convinzione della superiore nobiltà e bellezza del passato. Infatti, se ritenere la realtà ‘poetica’ comporta un’attività ermeneutica (dato che non è la realtà ad essere poetica, ma siamo noi a ritenerla tale), così glorificare o rimpiangere una data circostanza storica (o una data fase della propria vita privata) implica sempre che si abbia un distacco rispetto ad essa, e al memoria si nutre proprio di tale distacco; la distanza di cui parlo è al contempo lo spazio dell’autocoscienza, della metariflessività, che d’altronde è un prodotto di quella borghesia intellettuale alla quale Pasolini appartiene.
Il genio di Pasolini tentò di districare tale impasse attraverso la teorizzazione del ‘discorso libero indiretto’, ovvero la tecnica e lo stile di scrittura risultanti dall’immersione dell’autore nell’universo narrativo dei personaggi, non solo esteriormente e accidentalmente, ma adottandone il linguaggio stesso. Ovviamente anche questa tecnica, così come il giudizio positivo e malinconico nei confronti di quella realtà, è possibile solo per intero di quella metariflessività che concede all’autore di distaccarsi rispetto a ciò di cui sta narrando:
Insomma il discorso libero indiretto in una pagina scritta implica un’incursione verso le lingue basse, la koinè fortemente dialettizzata e i dialetti: a fare carico di materiali sublinguistici. […] Nel caso che un autore sia costretto, per rivivere i pensieri del suo personaggio, a rivivere le sue parole, vuol dire che le parole dell’autore e quelle del personaggio non sono le stesse: il personaggio vive dunque in un altro mondo linguistico, ossia psicologico, ossia culturale, ossia storico. Egli appartiene a un’altra classe sociale. E l’autore dunque conosce il mondo di quella classe sociale solo attraverso il personaggio e la sua lingua.
Quando pensiamo al nostro passato vissuto in prima persona, si dice spesso che “non ci accorgevamo della nostra fortuna”; ma le cose non stanno realmente così. È alla luce degli eventi che proviamo malinconia e nostalgia per un’esperienza passata, spesso ritenendola migliore di quanto sia realmente stata. La stessa cosa vale per la storia, e nello specifico vale per Pasolini, il suo errore è dello stesso tipo: i contadini dell’età paleoindustriale non avevano una coscienza talmente sviluppata da approdare alla metariflessività, e perciò all’autocoscienza della propria condizione; d’altronde, se l’avessero avuta, non si sarebbero ritenuti molto fortunati e soddisfatti del proprio stile di vita e della propria condizione, ma sarebbero approdati alla marxiana ‘coscienza di classe’. Ma in fondo, l’Italia rurale, provinciale e contadina mitizzata da Pasolini, non era stata raccontata da Giovanni Verga che ne mise in evidenza le storture, la drammaticità, la miseria? O ancora, pensiamo alle parole di Pasolini a proposito di Carosello, allegoria esemplare dell’avvento della società dei consumi e del passaggio all’era industriale: “è in ‘Carosello’, onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani ‘devono’ vivere”. Non è forse vero che oggi, al contrario, guardiamo Carosello caricandolo di un significato inverso, scrutando in esso quell’aura magica di un passato scomparso che anche noi, ingenuamente, assaliti dalla malinconia, proiettiamo in una ‘idealità’ rispetto ai mali del presente?
Le provincie rurali dell’Italia pre-consumistica sono un ‘paradiso’ solo attraverso gli occhi di Pasolini, che le interpreta e le legge attraverso l’analisi del suo pensiero. Il paradiso in questa maniera viene collocato cronologicamente e geograficamente nella storia, piuttosto che restare un’idea limite e astratta; questo paradiso però, come il paradiso dei monoteismi abramitici, non può essere esperito, ma solo atteso, rimpianto, anelato. Insomma, il paradiso assume un senso (perciò può essere raccontato, ambito, sognato, glorificato) solo grazie all’ʻassenza’. Assenza perché ancora ‘da-venire’ o perché ‘già-stato’, e perciò il giudizio positivo è relativo alla ‘perdita’ di qualcosa che è diverso da come era quando lo si è vissuto.
Questo riflette anche la posizione più volte messa in rilievo da Pasolini riguardo alla ‘morte’: la morte, la fine, è la condizione specifica per poter dare significato ai fatti e agli enti, nonché alle persone. Tutto resta insensato fino alla sua fine; è la fine, dunque la morte, che offre allo sguardo la possibilità di comprendere e definire qualcosa. Pasolini si riferiva alle persone ed a se stesso, ma il discorso vale anche a proposito della storia e delle fasi di cui si compone. Il passato malinconico di Pasolini è tale, e perciò rimpianto e mitizzato, perché ‘concluso’; se ancora fossimo nella fase di pre-modernizzazione, non proveremmo lo stesso sentimento, non godremmo di un ‘paradiso in terra’ giovandoci delle nostre condizioni, ma auspicheremmo al cambiamento e al progresso. È l’uscita dal paradiso a permetterci di guardare il paradiso per ambire ad esso, e perciò è stato il progresso tecnologico a concedere la possibilità che il passato venisse mitizzato. Il giudizio positivo e il rimpianto rivolti a un ‘passato mitico’ storicamente determinato è reso possibile solo per merito di ciò che ha determinato la ‘perdita’ di quell’epoca, perdita che fa tutt’uno col distacco concesso alla riflessione e alla coscienza critica degli intellettuali.
Dopotutto, la storia (come il tempo) si sviluppa seguendo un’unica direzione, è anelare al passato come ‘paradiso perduto’ rimpiangendolo, auspicando un ritorno ad esso, è una vistosa ingenuità, talmente vistosa che risulta ancora più ingenuo crederlo pensando a un gigante come Pasolini.
Note:
1. P.P. Pasolini, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, Editori riuniti, Roma 1977, p. 201.
2. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2009, p. 23.
3. Ivi, p. 53.
4. A. Miconi, Pier Paolo Pasolini. LA poesia, il corpo, il linguaggio, Costa&Nolan, Milano 1998, pp. 83, 91.
5. G. Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 444-445.
6. A. Miconi, op. cit., p. 103.
7. P. P. Petrolio, Petrolio, Mondadori, Milano 2009, p. 278.
8. A. Miconi, op. cit., p. 13.
9. Esauriente questo scambio di battute tra l’autore e Jean Duflot: “Jean Duflot: “Dando la preferenza al ritorno dei miti piuttosto che all’impegno nell’attualità politica, non volta le spalle ad ogni forma di realismo?” […] Pasolini risponde: “il mio parere preciso, su questo punto, è che è realista solo chi crede nel mito, e viceversa. Il “mitico” non è altro che l’altra faccia del realismo”. In G. Ziagana, Pasolini tra enigma e profezia, Marsilio, Venezia 1989, p. 186.
10. P. P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 130.
11. P. P. Pasolini, Empirismo eretico,Garzanti, Milano 2007, p. 135.
12. E. Garroni, Progetto di semiotica, Laterza, Bari 1972, p. 66. “La realtà, in quanto è il presupposto materiale di ogni possibile codice, non è un codice; né, tanto meno, è un messaggio immediatamente riferibile ad un codice oggettivo, presente – per così dire – nella realtà stessa. L’affermazione dello scrittore e regista italiano, a rigore, non ha senso” (ibid.).
13. P. P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., pp. 10, 90.
14. P. P. Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 59.
SPECIALE – Sabato, 5 marzo 2022
In copertina: Blossom Season, Golden Age. Foto di Vinson Tan ( 楊 祖 武 ) da Pixabay.