La lingua come strumento elitario e borghese
di Simona Maria Frigerio
Ripubblichiamo, in occasione dei cento anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, alcune considerazioni di linguistica che ci furono suggerite rileggendo le acute osservazioni fatte da PPP, nel 1964, su Rinascita.
Il 2021 sarà l’anno delle celebrazioni per i 700 anni dalla morte del poeta fiorentino, considerato da molti studiosi e critici il ‘padre della lingua italiana’ (e chissà chi sarà la madre?) ma, aldilà del campanilismo da capoluogo toscano e dell’indubbio valore poetico del suo capolavoro, la nostra lingua deve così tanto a Dante?
Partiamo da un semplice fatto. L’analfabetismo, in Italia (complice anche la Chiesa cattolica che metteva molti libri all’Indice, proibendoli, e comunque non favoriva la diffusione della lettura, attraverso la Bibbia, a differenza del mondo protestante), ha continuato a essere endemico almeno fino alla Seconda guerra mondiale e, quindi, ben pochi sapevano leggere e ancor meno possedevano libri (ivi compresa la Commedia). L’Unione nazionale lotta all’analfabetismo (fondata nel 1947) deve la sua nascita alla volontà di fare i conti con quel 59,2% di adulti che, in quegli anni, non erano nemmeno in possesso della licenza elementare (e per leggere e comprendere un poema forse non basta una laurea).
Prima ancora, secondo De Mauro, gli analfabeti – nel 1861 – erano il 68% e molti, anche se non analfabeti, “erano lontani in genere da un possesso reale della capacità di leggere e scrivere”. Dato che a quei tempi pochissimi – tra gli 11 e i 18 anni – continuavano a studiare, si stima che gli italografi fossero, al momento dell’Unità d’Italia, meno dell’1%. Il cosiddetto italiano esisteva quindi solo come lingua letteraria padroneggiata da pochi e fino al 1840 circa, della famose triade Boccaccio, Petrarca, Dante, solamente i primi due erano considerati la norma del volgare letterario – come da caposaldo, Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1470/1547) – mentre Dante dovrà attendere il Romanticismo per affermarsi nell’Olimpo dell’autoralità.
Fermandoci qui, riassumeremo che le due tendenze che si contrapposero per secoli, prettamente a livello letterario, erano quella purista (bembiana) che mirava alla conservazione – alquanto retorica – del fiorentino ‘puro’, ossia trecentesco, dei primi due poeti succitati, e quella antipurista che non solamente si apriva ai dialetti ma anche all’uso dei termini propri della contemporaneità.
Pasolini e le Nuove questioni linguistiche
Il problema dell’italiano (ma qui ci piace ricordare una frase del personaggio del professore interpretato da Gian Maria Volonté in Una storia semplice: “l’italiano non è l’italiano, è il ragionare”) è che la lingua è espressione, sempre, di un’egemonia culturale – che, ovviamente, sarà legata a quella economico-finanziaria. Ci vorrà il Novecento per spostare il discorso su tali tematiche e Pier Paolo Pasolini, che faceva discendere le sue convinzioni critiche eretiche da Marx e Gramsci. Noi faremo alcune considerazioni partendo proprio dal suo scritto – datato 1964 e pubblicato su Rinascita.
Se Pasolini critica, dapprima, l’uso di un italiano borghese a fine (contenutistico) antiborghese, proprio di scrittori come Moravia e Calvino, la parte più consistente del suo discorso si concentra sull’italiano, che passa dalla pagina letteraria a quello parlato a livello nazionale, definendolo ‘tecnologico’ e imputandone la nascita nella culla dell’industrializzazione dell’Italia settentrionale nell’epoca del boom economico.
Da un interessante e approfondito scritto di Stefano Rosatti, che consigliamo caldamente (http://millimala.hi.is/wp-content/uploads/2016/01/Pasolini-e-il-dibattito-sulla-lingua.-Una-%E2%80%9Cquestione%E2%80%9D-ancora-attuale-A-proposito-di-Oronzo-Parlange%CC%81li-a-cura-di-La-nuova-questione-della-lingua.pdf) apprendiamo anche qualcosa in più, ossia che Tullio De Mauro aveva lui stesso scritto, l’anno precedente, che: “Gli elementi lessicali introdotti e diffusi dall’industrializzazione sono […] in gran parte costituiti da basi lessicali di lingue diverse dall’italiano e con procedimenti di composizione nominale e di suffissazione e prefissazione altresì estranei alla tradizione linguistica del paese, estranei cioè non solo all’italiano ma anche al latino classico” – riconoscendo, inoltre, che l’italiano standard è a base eminentemente settentrionale (ovvero di quell’asse Milano/Torino preconizzata dallo stesso Pasolini). E per tecnicismi, non vanno intesi solamente termini provenienti dalle professioni, bensì – soprattutto oggi – un uso anche simbolico e metaforico di termini e strutture mutuato da mezzi di comunicazione di massa come la pubblicità – o gli attuali social.
Riassumendo, quindi, per Pasolini su una base parlata “frammentaria e quindi non nazionale, si proietta la normatività della lingua scritta – usata a scuola e a livello della cultura – nata come lingua letteraria, e dunque artificiale, e dunque pseudo-nazionale”.
In quegli anni 60, del resto, la televisione e i mass media in generale (anche con trasmissioni di divulgazione e didattica targate Rai), oltre alla leva obbligatoria, tentavano di sviluppare un amalgama sempre più uniformemente comprensibile sebbene decisamente impoverito. Mentre a livello di narrazione, dopo l’omologazione ‘fiorentineggiante’ di Alessandro Manzoni, che per ripulire la storia di una coppia analfabeta del Seicento, proveniente dal Lecchese, usava: “Un’acqua come l’Arno e lavandaie come Cioni e Niccolini” (e, quindi, un fiorentino da intellettuali); anche altri scrittori (contestati appunto da Pasolini) avevano proseguito su quella strada di appiattimento/omologazione elitaria e borghese; mentre pochi – tra i quali lo stesso Pasolini, Gadda o Fenoglio – tentavano sperimentazioni più ardite recuperando, non solamente in vena espressionistica, la ricchezza delle forme dialettali o degli idiomi stranieri.
La retorica dantesca e ItsArt
Mentre sfavilla la retorica delle commemorazioni fa specie che il Ministro Franceschini decida di chiamare la cosiddetta piattaforma della cultura italiana con un termine britannico… e nemmeno troppo originale (ItsArt appunto).
Ma torniamo al sommo. In che misura Dante ha contribuito a creare l’humus che avrebbe generato l’italiano standard ma, soprattutto, quanto è adatto alle esigenze espressive e comunicative attuali?
“Tremaci quando alcuna anima mondasentesi, sì che surga o che si movaper salir su; e tal grido seconda Della mondizia sol voler fa prova, che, tutto libero a mutar convento ,l’alma sorprende, e di voler le giova”.
(Purgatorio XXI, 58/63)
Ora sfido qualsiasi fiorentino, o italiano, non laureato in lettere a raccapezzarsi. La verità è che senza la parafrasi puntuale che si può trovare in qualsiasi edizione della Divina Commedia, Dante è criptico. Questo, ovviamente, non vuol dire che non vada letto, appreso, che non ci si possa innamorare di alcuni suoi personaggi (quelli dell’Inferno, in particolare, hanno colpito l’immaginazione anche popolare), non se ne debbano mandare a memoria passaggi di particolare bellezza o non si debba rammentare, a 700 anni dalla morte, uno dei maggiori poeti di tutti i tempi e di livello mondiale. Ma una cosa è la sua indubbia valenza di poeta e un’altra l’eredità linguistica o, meglio, un’altra aspirare a una purezza trecentesca che rasenta il ridicolo – anche perché il mondo descritto e vissuto da Dante ha ben poco a che fare con il nostro, e lo sviluppo diacronico delle lingue non è una chimera così come la ricchezza linguistica può risiedere nell’accettazione di nuovi termini e forme e non solamente nel recupero di neologismi ormai vetusti.
Del resto come Tullio De Mauro puntualizza in Storia linguistica dell’Italia unita, l’unificazione linguistica nel nostro Paese non è tanto il frutto della scuola dell’obbligo quanto di stimoli diversi provenienti soprattutto dalla vita sociale (quali l’emigrazione e il servizio militare obbligatorio) e dai mezzi di comunicazione di massa (dalla diffusione della stampa in avanti) e l’esito di tale processo (Claudio Marazzini riprendendo De Mauro in La lingua italiana) non è “un elegante toscano letterario, ma un ‘italiano regionale’ che porta in sé i tratti ereditari dei dialetti d’origine dei parlanti”.
Superare i campanilismi per creare ricchezza linguistica
A prescindere dall’importanza che ebbe la Scuola Siciliana già negli anni Trenta del XIII° secolo nella creazione poetica in lingua volgare e, quindi, quale spinta allo sviluppo di un italiano scritto, pensiamo a quanto sia bella la nostra lingua quando non ci si fermi all’uso fiorentino di un termine, o a quanti aggettivi possano descrivere il medesimo (s)oggetto o di quale ricchezza si possa godere attingendo a più fonti. La pluralità linguistica, il mischiare alto e basso, l’inventare neologismi, sono del resto tutte caratteristiche che Dante apprezzava e applicò egli stesso nella sua Commedia.
Pensare di ancorare l’italiano a un testo del Trecento fruibile solamente se acculturati è un’operazione elitaria e borghese, espressione ancora una volta di un’egemonia economica (e/o accademica) che poco si sposa con le necessità storiche e sociali a cui si deve rifare un sano sviluppo linguistico.
Ma facciamo alcuni esempi pratici di ciò che abbiamo fin qui adombrato. Il verbo di origine latina parare, ad esempio, che in Toscana e Umbria può significare badare agli animali: “parare il gregge”; in vari dialetti meridionali è sinonimo di apparecchiare, nel senso di agghindarsi – quante giovani si sono sentite rimbrottare dalla madre: “Ma come ti sei parata/apparecchiata oggi?”
Pensiamo a quella che per i cultori dell’italiano è una ‘bestialità’, ossia usare l’articolo determinativo davanti ai nomi propri di persona. Sebbene sia considerato un errore, in realtà è solo un regionalismo, proprio dell’uso settentrionale e soprattutto lombardo (ma anche, al femminile, di alcune zone della Toscana), utilizzato anche da grandi autori per connotare affettivamente il personaggio di cui si sta parlando – La Gilda del Mac Mahon di Testori ne è un esempio, dove quel la racconta di un mondo, quello della prostituzione milanese, con una nota di affetto che ci fa immediatamente compartecipare le disavventure della figura femminile al centro dei suoi racconti.
Pensiamo alla locuzione, tipicamente toscana a dritto, ossia: “vada avanti a dritto” che, nel resto d’Italia, è “vada avanti dritto/diritto”; o a bellino, utilizzato soprattutto per designare i pupazzi dei bambini ma che, per la Treccani, è un vitigno di uva nera da tavola. O ancora, pensiamo alle locuzioni tipiche toscane e punto note nel resto d’Italia. Ad esempio: “Che tu fai?” (provate a dirlo a Milano e vi rideranno dietro), oppure a frasi come “il vino gli è buono assai” o, ancora, “a me mi garba”, “Te tu vai…” e l’uso dell’un al posto di non.
Per non parlare dell’affinità del toscano “si va a…” con il francese “on va à…”, al posto dell’italiano standard: “andiamo a…”. E sempre per le affinità toscano/francesi, si ricordi un altro uso dell’impersonale: “s’è mangiato a…” vicino al “on a mangé au…” ma differente dall’uso del personale tipico dell’italiano standard “abbiamo mangiato al…”.
E così via. L’elenco potrebbe essere infinito e confermerebbe solo l’assunto già esposto da De Mauro: l’italiano corrente non è “un elegante toscano letterario, ma un ‘italiano regionale’ che porta in sé i tratti ereditari dei dialetti d’origine dei parlanti”.
Da Chaucer a ItsArt
Forse queste conclusioni non sembrerebbero eretiche in un Paese meno pregno di retorica. Pensiamo, ad esempio, a Rant: An Oral Biography of Buster Casey, un romanzo di Chuck Palahniuk pubblicato nel 2007. Facendo questo paragone sappiamo già che molti chiederanno di metterci al rogo ma, in fondo, fu anche la condanna per Giordano Bruno e per lo stesso Dante.
Sebbene non sia il libro più apprezzato dalla critica in lingua inglese, per i cultori dell’autore statunitense è sicuramente una summa del suo genio. Il racconto corale/orale gli permette non solamente di incarnare nelle tante voci modi di dire o di esprimersi, accenti, particolarismi linguistici propri di una condizione sociale, di un mestiere o di un’appartenenza etnica o culturale ma anche di ricostruire il sostrato psicologico della società statunitense post 2000. Forse proprio per questo, per quel J’accuse contro un’America che corre verso l’autodistruzione (quel Crash che rimanda inevitabilmente al capolavoro di J. G. Ballard/Cronenberg), edonistica e sempre alla ricerca dei famosi 15 minuti di celebrità, ma votata all’annientamento perché cauterizzata contro la morte, ecco che Rant non è piaciuto.
Eppure – come la Commedia dantesca – gioca con la lingua, crea personaggi, ci accompagna in un viaggio alla scoperta di un anti-dio, il Casey del titolo, attraverso i racconti e le esperienze di un mondo vicino, eppure ai confini con l’aldilà.
Ogni epoca partorisce non una bensì più opere che, in ogni lingua, portano a confrontarci con i nostri tempi oscuri, modellando la lingua con libertà estrema perché la creazione stilistica è propria dell’estro artistico. Da The Canterbury Tales a Orlando, da Ulysses fino a Rant. Dalla Commedia a Il partigiano Johnny, da Macbetto a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. L’inglese – britannico e, soprattutto, statunitense – accetta e fa suo il cambiamento. Solo l’italiano stenta ancora a riconoscere che la nostra lingua non è più quella del Trecento né di una sola regione italiana. Anche se, aldilà della retorica, politici e creativi non riescono nemmeno a inventare il nome di una piattaforma utilizzando la nostra mirabile lingua – o semplicemente a rendersi conto che la piattaforma della cultura c’è già, si chiama Rai5, la paghiamo tutti noi con l’abbonamento, e trasmette anche in diretta streaming su RaiPlay.
Ma tornando all’oggetto di questo pezzo assolutamente inutile, forse se non si sa più – piaccia o meno all’Accademia della Crusca – cosa significhi il verbo trasumanare (ossia “elevarsi oltre i limiti della natura umana per attingere la natura divina”) il motivo non è l’ignoranza verso il poeta fiorentino bensì che la nostra società, laica e secolarista, non vi si riconosce oltre.
SPECIALE – sabato, 5 marzo 2022 (in occasione dei 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini), prima pubblicazione venerdì, 22 gennaio 2021
In copertina: Statua di Dante Alighieri. Foto di Rhodan59 da Pixabay.