Un’intervista ad Antonio Bocola
di Simona Maria Frigerio
Avevamo applaudito nel 2002 Fame chimica, un film che per noi milanesi ritraeva con precisione a affetto un quartiere delle nostre periferie. Spiccavano una giovane Valeria Solarino e un altrettanto bravo Marco Foschi. La mano dei registi aveva saputo regalare uno spaccato corale di un tempo/luogo precisi grazie a una coralità attorale e umana rare. Mano lieve, senza forzature, senza falsi moralismi, senza quel retrogusto rancido di già visto o scopiazzato da altri registi (da Spike Lee a Gus Van Sunt) che sanno ritrarre ciò che vivono a fior di pelle.
Abbiamo anche condiviso – come con Giacomo Verde – l’esperienza di Genova e del G8 del 2001, senza sapere di essere lì fianco a fianco (https://www.inthenet.eu/2020/07/17/noi-credevamo/ e https://www.inthenet.eu/2020/07/24/noi-credevamo-seconda-parte/).
E in questi giorni, ritroviamo i registi Antonio Bocola e Paolo Vari, mentre stiamo lavorando alla realizzazione della mostra dedicata a Giacomo Verde. Sono loro ad aver realizzato un interessante docu-film con voci teatrali off – da Leo De Berardinis a Danio Manfredini passando per Cesare Ronconi – che raccontano la loro visione artistica e il loro rapporto sia con la ‘scatola’ teatro sia con coloro che, di solito, siedono aldilà della quarta parete, gli spettatori.
Tra le voci, anche quella di Giacomo Verde, e allora ci è parso più che mai interessante, arricchire il nostro Diario di #LiberareArtedaArtistiSp coinvolgendo Antonio Bocola, attraverso qualche domanda.
Potrei credere solo a un Dio che sapesse danzare è stato montato con materiale di repertorio o avete fatto voi le riprese in momenti diversi?
Antonio Bocola: «Escludendo una clip di repertorio, relativa alla Compagnia della Fortezza di Volterra, il materiale è tutto originale, girato da me e Paolo. Un’estate di molti anni fa, all’amico e socio di sempre Paolo Vari e a me, grazie a un allegato al Manifesto intitolato Le vie dei Festival, venne l’idea di mettere in piedi un documentario on the road; un viaggio attraverso l’Italia per documentare eventi e festival, senza un’idea ben precisa. Abbiamo composto un itinerario che ci sembrava nelle nostre corde. Eravamo interessati ad alcuni aspetti di libertà del fare arte, del fare teatro, del fare musica e alle modalità per uscire ‘al di fuori’. Volevamo conoscere cosa esistesse oltre il mainstream».
Il filo conduttore, ossia la scatola/teatro/mente dell’attore è stata pensata fin dall’inizio o, successivamente, per dare coerenza alle immagini?
A. B.: «Successivamente, grazie alla collaborazione di amici e professionisti, quali Simona Giacomelli, Filippo Casaccia, Francesco Scarpelli, Sabina Uberti Bona e Cristina Proserpio – lo stesso gruppo che ha poi dato vita, insieme a noi, al progetto Fame Chimica. Abbiamo elaborato e fatto sedimentare il nostro girato. Ne è scaturita una struttura narrativa e una scrittura, attorno a un’idea di messa in scena. Abbiamo ricreato, in un garage abbandonato, un set virtuale per mezzo di video-proiezioni (era il 1989), dove abbiamo filmato dei quadri di commento e unione delle varie tappe emotive del nostro viaggio».
Dal docu-film traspare un sostrato effervescente di un certo periodo teatrale italiano. In quali anni sono state effettuate le interviste e come avete scelto a chi dare voce?
A. B.: «Gli incontri sono stati la nostra guida. Sul libriccino del Manifesto, abbiamo seguito ciò che conoscevamo già e ci piaceva e scelto ciò che non conoscevamo ma di cui avevamo avuto notizia, per sentito dire. Alcune proposte non le conoscevamo affatto e siamo andati alla cieca. Ci interessavano la sperimentazione, la contestazione, l’uscire fuori dagli schemi, la ricerca del linguaggio e dei nuovi media. Ci interessavano le emozioni, la narrazione e le alternative alla messa in scena classica. E la politica. Tornando agli incontri, giunti a Volterra per un Festival di teatro dedicato ad Antonio Neiwiller [attore, regista teatrale e drammaturgo napoletano scomparso nel 1993, n.d.g.], facemmo la conoscenza di un gigante: Leo De Berardinis. Un incontro molto denso, che sfociò in una lunga intervista. Le sue parole possenti sul senso dell’attore e del fare teatro mi rimbombano dentro ancora oggi. Determinanti poi furono gli incontri con Cesare Ronconi, Danio Manfredini, Armando Punzo, Renato Carpentieri e infine Giacomo Verde».
Dario Marconcini, che è stato uno dei primi a sperimentare il teatro di strada, in un’intervista ci ha detto che “noi che siamo stati quelli che uscimmo dai teatri, poi siamo rientrati nelle istituzioni”. Cosa ne pensa?
A. B.: «L’unica cosa che posso laicamente dire è che il teatro, per avere un minimo di ossigeno, si è dovuto necessariamente contaminare con la politica dei palazzi. Ma è stato un matrimonio combinato mal riuscito… Il nostro film non parla di loro».
Giacomo Verde, nel suo docu-film, rivendica che ogni forma d’arte è rivolta a un gruppo che, come l’artista, in quella forma (e in quei temi) si rispecchia. Anche lei, nel suo lavoro, pensa di avere un ‘pubblico’ di riferimento?
A. B.: «Allora era ragionevole, dal punto di vista storico e anche da quello di Giacomo – che ho conosciuto bene – di rivolgersi alla propria tribù. Era il nostro ambito di riferimento. Il luogo in cui succedevano le cose. Il luogo della sperimentazione. Degli amori e delle lotte idealistiche. Poi vennero Genova e il G8. Ho fresco il ricordo di un pomeriggio di guerriglia, dove tra i fumogeni incontrai Giacomo con la telecamera. Siamo stati per un po’ back to back, ognuno con la propria telecamera in mano. Poi, è crollato tutto. È stato un processo lento, che ha tolto forza ai movimenti e motivazioni ai singoli. Chi aveva fibra per fare arte o per avere qualcosa da dire l’ha fatto, non per un pubblico di riferimento, ma per ritrovare se stesso».
Fare il film-maker, oggi, è ancora possibile?
A. B.: «Fare il film-maker oggi è un lavoro come un altro, se pensiamo alla quantità di video che richiede il mercato della comunicazione. Poi ci sono gli autori. L’autore è colui che si prende la responsabilità e la cura di raccontare una storia. In Italia, purtroppo, l’autore è anche regista, produttore, fonico e, spesso, anche la realizzazione di questi progetti è auto-prodotta. Raramente, autori di talento ottengono di essere ascoltati degli stakeholder trovando le risorse per i loro progetti. Gli autori/registi, a meno che non abbiano un forte aspetto identitario, non interessano. Pensiamo a Mainetti [Gabriele, nel 2021 ha diretto anche Freaks out, n.d.g.]: il suo primo film, Lo chiamavano Jeeg Robot, sulla carta non convinceva nessuno e ha dovuto attendere anni per poterlo produrre, pagandolo di tasca propria. Questo è il sistema. Per fare il film-maker che lavora, dovresti diventare uno shooter, ossia un professionista che viene chiamato per girare film e serie. In genere, questi shooter, sono vecchi aiuto registi che fanno l’upgrade, oppure rampolli di dinastie cinematografiche che perpetuano la tradizione. Partendo dal presupposto che chi fa il regista, il film-maker, l’autore, in Italia non è visto come un vero lavoratore, ma nel migliore dei casi, un privilegiato o peggio un hobbista; e che per i nerd appassionati della tecnica cinematografica, la pubblicità è un’ottima palestra nonché fonte di guadagno, potrebbe sembrare una via percorribile, ma vi avviso: il passaggio al cinema o alle serie non è comunque scontato. Una buona idea è quella di scrivere. Se non avete l’ambizione di prendervi la briga di dirigere subito un film o una serie (tanto non ve la faranno fare mai), potete pensare di scriverla e venderla. Se avrete l’idea dell’anno e qualcuno la comprerà, ci saranno buone possibilità che qualcuno vi affidi il lavoro di Creative Producer. Ovvero, dovrete scrivere la ‘bibbia’ di una serie per farla dirigere a un regista di vostra scelta. Dopo un paio di stagioni, potrete prendervi il lusso di dirigere voi stessi una stagione, quasi per gioco. Non a caso sul mio profilo LinkedIn si legge: “scriptwriter, director, creative producer”… Oppure si può iniziare lavorando come attore. Magari si ottiene una bella parte in una serie – e si è lì, sempre a ronzare attorno al regista, la macchina da presa e il produttore. E magari, all’ottava stagione, si è assunti come registi!».
Potrei credere solo a un Dio che sapesse danzare
Scritto e diretto da ANTONIO BOCOLA e PAOLO VARI
con la collaborazione di SIMONA GIACOMELLI, FRANCESCO SCARPELLI e SABINA UBERTI BONA
Testi di SIMONA GIACOMELLI e FRANCESCO SCARPELLI
Fotografia fiction SIMONE PERA
Fotografia documentario ANTONIO BOCOLA
Scene LUCA BERTOLO
Edit on line PAULO GIOLLI
Edit non lineare ANTONIO MANGANO
Direttore di produzione SABINA UBERTI BONA
Produzione doc CHIARA FERRÈ
Assistente scene RAPHAEL GRASSI HIDALGO
Assistente operatore PIERPAOLO CASTAGNEDI e MARCO FRANCO
Capo macchinista DANILO MARCODINI
Macchinisti MANFREDI PERRONE, SABINA BOLOGNA e FABIO PROSERPIO
Capo elettricista DAVIDE MOLINARI
Elettricista ALBERTO CASSANI
Fotografo FILIPPO CASACCIA
Edizione ALINA MARAZZI
Ass. produzione MARCO DE FiLIPPI, BARBARA VARI, RAFFAELE GRICINELLA e ANDREA X
Catering CLAUDIA BOERI ed ELISA PERLA
Con JOSEPH SCICLUNA, LEO DE BERARDINIS, DANIO MANFREDINI, CESARE RONCONI, RENATO CARPENTIERI, RICCARDO CAPOROSSI, MASSIMO LANZETTI, CARLO INFANTE, ANTONIO VIGANÒ, GILBERTO GIUNTINI, ARMANDO PUNZO, ROBERTO CORONA, MARCO BALIANI, GIACOMO VERDE, MICHELE SAMBIN, TEATRO DELLA FORTEZZA, TEATRO DELLA VALDOCA, RANDAGI
Comparse PETER VARI, MATTEO GREGORIETTI, BILLY GAROFANO, LANDI LUSSI, MIUSSI UBERTI BONA, MARCELLA UBERTI BONA, PIETRO e MARTA VIOLANTE, DAVIDE ROMIERI, GIULIANA CIANCIO, CAMILLA e FEDERICA PULITI, NICOLA PEDONE, GIOVANNA STABILINI ed ERSILIA D’ANTONIO
Produzione METAMORPHOSI
venerdì, 25 febbraio 2022
In copertina: Antonio Bocola (immagine tratta dal profilo FB).