“Occorrerebbe un’associazione dei consumatori, per il comparto teatrale, che denunci quando i fondi pubblici sono spesi male”
di Simona Maria Frigerio
Avevamo applaudito Lino Musella negli ‘scomodi’ panni (era il tempo in cui infuriava la polemica del #MeToo) di Jan Fabre al Fabbrichino di Prato, nel 2019 [1], e poi, nuovamente, nella veste di regista di Troia City, la verità sul caso Aléxandros – in scena a Kilowatt Festival edizione 2020 [2].
Ora lo ritroviamo sul palcoscenico del Teatro Era talmente calato nei panni di Eduardo da non aver nemmeno bisogno di presentarsi: Tavola tavola, chiodo chiodo è un atto d’amore verso l’uomo e l’artista e, dato che – come disse Pasolini nell’ultima intervista che rilasciò nel 1975 – “Non c’è nulla che non sia politico”, anche verso l’uomo di teatro che si confrontava con i politici (ieri, come oggi, potenti ma non attenti).
La prima domanda non può, quindi, prescindere proprio dall’incipit, in cui Lino Musella, insieme Eduardo e Luca Cupiello, sembra invitare il pubblico di oggi, imbavagliato dalla mascherina, a salire sul palco per ricostruire insieme un nuovo teatro.
Lino Musella: «Il tentativo di ricostruire il San Ferdinando di Napoli mi serve per raccontare la vicenda di Eduardo ma anche quale metafora. Un nuovo teatro, però, non va inteso come un ‘nuovo linguaggio’ – dato che questo genere di ricerca non mi appartiene in quanto, al contrario, mi interessa (e non è un gioco di parole) un ‘linguaggio nuovo’, nel senso di radicato nel presente; mentre, per fortuna, alcune regole sono le stesse da millenni. Di conseguenza, un nuovo teatro va inteso nell’accezione di compartecipato – di un contatto rinnovato tra attore e spettatore. È un invito al pubblico a voler entrare in quello spettacolo come si può entrare dentro a un teatro in costruzione. Non da spettatori passivi ma, al contrario, attivi e curiosi, come se dovessero fare attenzione a ‘dove mettono i piedi’ e, quindi, occorre che partecipino in modo più interattivo».
Il teatro degli anni Settanta uscì dai teatri per vivere tra la gente: nelle fabbriche, nelle manifestazioni, nelle strade. Poi, come ha detto Dario Marconcini, anche quell’avanguardia rientrò nelle istituzioni. Cosa occorrerebbe oggi al teatro per tornare a essere specchio del presente?
L. M.: «Negli anni Settanta la riflessione di un certo teatro fu trans-sociale. Il teatro partecipato, popolare era quello che attraversava tutti i ceti. Oggi, personalmente, il mio obiettivo rispetto a un teatro popolare è che sia trans-generazionale. Negli anni Settanta le differenze di classe erano più nette; al contrario oggi i borghesi cercano di sembrare ‘fricchettoni’, mentre coloro che provengono da una classe medio-bassa tentano di sembrare borghesi. È molto difficile delimitare, almeno apparentemente, i ceti sociali. Questo perché il proletariato italiano, a parte alcune zone del Paese, è costituito da migranti e non credo siamo pronti ad affrontare tale discorso: il teatro del futuro potrà avere in platea tutte le etnie che compongono l’Italia; a me basterebbe che il teatro di oggi fosse trans-generazionale parlando sia al quindicenne sia all’ottantenne. Questo spettacolo, fortunatamente, ci è riuscito: è stato visto da studenti liceali romani, da ‘sciure’ milanesi e dall’ottantenne napoletano che, dopo lo spettacolo, mi ha portato perfino un dono dietro le quinte. Questo, per me, è popolare».
Crede veramente che dopo sessant’anni e passa da quella lettera – che lei cita nello spettacolo – in cui Eduardo denunciava il teatro asfittico degli Stabili e chiedeva alla politica di ridare il teatro a chi lo fa, si possa ancora cambiare qualcosa?
L. M.: «La lettera di Eduardo era indirizzata all’allora Ministro Tupini [3]. Faccio però una piccola premessa, prima di risponderle. Questo spettacolo ha debuttato l’anno scorso e ha fatto solo quattro repliche prima della chiusura dei teatri a causa della pandemia. Quando l’ho ripreso, quest’anno, temevo che fosse un lavoro troppo intestino, ossia che riguardasse eccessivamente dei dettagli e delle sofferenze propri della mia categoria e che, quindi, a parte i passaggi che definirei belli perché parlano di vita e di teatro in senso più lato, il pubblico non potesse riconoscervisi. La lettera a Tupini, nello specifico, mi faceva dubitare. Pensavo che uno spettatore normale si sarebbe sentito estraneo al discorso. Al contrario, sono stati gli spettatori a insegnarmi che quella era una paura infondata. Mi ricordo una signora, a Milano, che mi ha fermato per strada dicendomi di essere venuta a vedere lo spettacolo per ben tre volte e di averci portato anche degli amici. A quel punto le ho chiesto se facesse l’attrice oppure se lavorasse in teatro, ma la signora mi ha risposto che era un’insegnante in pensione. E allora le ho chiesto perché abbia apprezzato quella lunga lettera a Tupini e lei mi ha dato una risposta che mi ha fatto capire tante cose, mi ha detto: “perché io sono una contribuente”. Tornando alla sua domanda, lo scarto si avverte quando si affronta il discorso della spesa pubblica. Per quanto i teatranti possano lamentarsi, i politici non li ascolteranno perché se ce n’è uno che si lamenta, ce ne sono tanti altri che si diranno contenti. La differenza vera, la fa il pubblico. Occorrerebbe un’associazione dei consumatori, per il comparto teatrale, che denunci quando i fondi pubblici sono spesi male. Vero è che gli italiani si lamentano dei soldi pubblici spesi male in quasi tutti i settori, ma in teatro siamo anche chiamati, in qualche modo, a dare un giudizio su ciò che vediamo. Quindi, se gli spettatori fossero coscienti che i teatri sono gestiti con fondi ricavati dalle tasse e che gli spettacoli sono messi in scena con i medesimi fondi – ovviamente non stiamo riferendoci alle Compagnie private – quando gli spettacoli non valessero la pena, dovrebbero farlo presente, attivando un meccanismo più virtuoso. Forse c’è un po’ di disillusione, di sconforto dietro a questa risposta, quasi l’ammissione che noi – che il teatro lo facciamo – a parte fare spettacoli, non abbiamo alcun potere. Possiamo sostenere una lettera come quella di Eduardo a Tupini e urlarla sulla scena, esprimere durante le interviste perfino qualche insulto nei confronti di chi gestisce quei fondi, ma non cambia nulla. Ecco: si dovrebbe almeno tornare a fischiare quando uno spettacolo non convince!».
A Napoli che teatro si respira? Ma soprattutto, chi fa teatro in Italia meridionale o nei piccoli centri, quante opportunità ha di arrivare a Milano o nelle grandi piazze del nord?
L. M.: «Sicuramente i giovani al sud hanno più difficoltà economiche, spesso devono sostenere i loro progetti con minime risorse e, soprattutto, con maggiori energie. Però credo che, in questo momento – rischiando anche di essere un po’ campanilista – Napoli sia la città in cui si respira l’aria migliore, perfino rispetto ad altre piazze come Milano o Roma. Questo non toglie il fatto che, per una Compagnia napoletana, arrivare a Milano non sia comunque difficile. Però, il fermento culturale è davvero vivacissimo e non solamente in ambito teatrale. Questa è l’unica città in cui si conferiscono dei premi insieme importanti e popolari. Ad esempio, il premio Poesia a Napoli: è raro che si parli, oggi come oggi, in modo così concreto di poesia. E poi, pur non essendo il mio campo, penso alle gallerie d’arte napoletane – come la Fondazione Morra. Anche il quel settore vi è una grande attenzione».
Adesso ci fermiamo e, come sempre, ci spostiamo su https://teatro.persinsala.it/ritratti-dautore-lino-musella/63708/ per la seconda parte dell’intervista, più incentrata sullo spettacolo dal quale siamo partiti per questo incontro – Tavola Tavola, chiodo chiodo [4] – e sulla sua costruzione.
[1] https://teatro.persinsala.it/i-dialoghi-del-cuscino-jan-fabre/54671/
[2] https://www.inthenet.eu/2020/07/25/kilowatt-25-luglio-2020/
[3] Umberto Tupini è stato Ministro del Turismo e Spettacolo nel Governo Segni II (1959/60) e in quello Tambroni (1960)
[4] https://www.inthenet.eu/2021/12/31/tavola-tavola-chiodo-chiodo/
venerdì, 28 gennaio 2022
In copertina: Lino Musella durante una scena dello spettacolo, foto di Mario Spada (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa della Fondazione Teatro della Toscana)