Seconde note su La parte maledetta di Teatro Akropolis e prime note su Oscillazioni di Roberta Nicolai
di Enrico Piergiacomi
La redazione di InTheNet, in occasione della proiezione di Carlo Sini firmato da Teatro Akropolis, presso l’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, in occasione della Biennale Cinema, ripropone l’approfondimento del collega Enrico Piergiacomi.
Nella nostra fretta di costruire distinzioni concettuali che ci aiutino a decifrare il fenomeno artistico, tendiamo a ricorrere alla polarità di forma e azione. Con il primo termine della dicotomia, si fa di solito riferimento al tratto dell’opera d’arte che è descrivibile razionalmente e linguisticamente – per esempio, alla sua partitura scritta, ai suoi personaggi, alle figure che lo attraversano. La parola ‘azione’ indicherebbe, invece, qualcosa persino di molto piccolo, come un gesto o un ritmo, che non può essere afferrato con la ragione / il linguaggio, bensì contemplato nell’atto stesso del suo accadere, al massimo rievocato nella memoria e raccontato a chi non c’era attraverso espressioni allusive. Questa dicotomia permetterebbe, a sua volta, di creare una tassonomia delle varie arti. La pittura e la poesia (qui da intendere come espressione mediante versi messi scritti) sarebbero più inclinate sul piano della forma, il teatro più sbilanciato in direzione dell’azione.
La dicotomia è tuttavia a ben guardare troppo rigida. È infatti molto difficile capire dove finisce la forma e inizia l’azione (o viceversa), tanto che la stessa tassonomia delle arti sembra più un modo per sfuggire a un’indagine impervia. I quadri o i versi del poeta ‘agiscono’, dunque eccedono dal loro supporto formale, quando vengono letti o guardati. Ne è prova che diversi fruitori ricavano dalla stessa opera una sollecitazione o persino un senso differente. Per converso, nemmeno l’azione teatrale più estemporanea esiste indipendentemente da una forma pre-esistente. È impossibile agire senza un contorno formale, per la stessa ragione per cui vige l’impossibilità di attivare un movimento senza un corpo, di plasmare un corpo senza una materia e di sedimentare una materia senza uno spazio anteriore.
Il presente intervento parte dall’edizione 2021 del festival Testimonianze ricerca azioni di Teatro Akropolis per approfondire un concetto che funge quasi da tramite tra la forma e l’azione, quasi una sottile lineetta che consente all’una di riverberarsi sull’altra. Mi riferisco al concetto di “postura”, più precisamente – stante il focus sul teatro – di ‘postura performativa’. Il concetto ha costituito indirettamente il concetto cardine di due azioni artistiche del festival: una è il cortometraggio Carlo Sini di Teatro Akropolis, terza tappa dell’ampio progetto La parte maledetta (su cui ho già avuto modo di pronunciarmi in Il Pickwick – Prime note su “La parte maledetta” di Teatro Akropolis), l’altra il progetto Oscillazioni di Roberta Nicolai. Prima di soffermarci su questi due interventi, è però opportuno spiegare meglio cosa si intende con ‘postura’, o precipitare da una parola che pare semplice in labirinto.
La forma agente, o l’azione formale
Prendiamo un corpo umano, ovvero questa forma qui che riconosciamo più o meno come propria di ciascun uomo o ciascuna donna che abbiamo visto in passato, osserviamo al presente e percepiremo in futuro. Benché possa certo variare per dimensione, peso, colore e via dicendo, esso costituisce il tratto che permane come stabile in tutti gli individui che noi appunto definiamo ‘umani’, non canini o felini o simili. Se dovessimo vedere un uomo e una donna mutili di una parte, avremmo la chiara percezione che manca loro qualcosa che ci aspetteremmo dalla loro forma. Persino se deformassimo il loro aspetto esteriore nella posa più grottesca, riconosceremmo comunque che ci sono due esseri umani in cui un suo tratto è stato accentuati in modo singolare. Se d’altro canto la deformazione dovesse estendersi fino al punto da distruggere completamente la forma normale, dovremmo dire che è avvenuta una metamorfosi e che l’uomo o la donna non c’è più. Al posto di questo apparato formale qui, ne è subentrato uno nuovo. La Mirra umana diventa la pianta di mirra e conserva l’eco della sua precedente esistenza solamente nel nome.
Ora prendiamo tanti corpi umani diversi mentre agiscono nello spazio, magari filmati al naturale, ossia quando compiono azioni in modo spontaneo e libero (= senza seguire un tracciato / progetto formale). Vedremo agenti che attuano movimenti disordinati, o comunque una successione di moti indeterminati che non sono sempre coerentemente legati da un nesso di causa-effetto, di ragione e spiegazione. Da questa forma finita qui, scaturisce un infinito che cercheremmo invano di misurare con strumenti teorici e pratici di qualsiasi tipo. Astrattamente parlando, dunque, un corpo umano è un luogo neutro in cui ordine e caos si compenetrano. Se lo contempliamo nella sua forma fissa e comune a più individui, possiamo dire luminosamente chi è. Se lo frammentiamo in singoli soggetti che agiscono in ambienti e contesti differenti, lo percepiamo avvolto dall’oscurità dell’enigma.
Come si diceva nell’introduzione, tuttavia, a fare da ponte tra queste due dimensioni in apparenza incomunicabili interviene proprio il concetto di ‘postura’. Prendiamo infatti tanti di questi soggetti in azione. Nel caos del loro fascio di sensazioni e movimenti, riconosceremmo – oltre alla forma che è loro comune – un altro tratto stabile: l’atteggiamento fisico o la disposizione caratteriale che ciascuno di loro assume in questo flusso. Qualcuno avrà una postura incurvata, altri una rigida, altri una tendente alla chiusura, altri una invadente, e così via. Le azioni che i soggetti compiono sono a loro volta connotate da questo loro atteggiamento o disposizione. Il loro infinito è racchiuso in un insieme che lo delimita e a noi osservatori diventa un po’ chiaro il suo andamento complessivo.
Vediamo insomma nella postura una realtà a mezzo. Essa non è granitica come la forma, visto che ogni soggetto ha la sua e dato che col tempo può cambiare in parte o del tutto. Tutti i corpi umani sono appunto ‘umani’, ma non tutti i corpi umani sono rigidi, invadenti, e così via. D’altro canto, la postura non è nemmeno indecifrabile e libera come le azioni che nascono, si sviluppano, terminano senza una logica che le collega. Essa è anzi quel tratto somatico che fa sì che i vari movimenti siano riconducibili a uno specifico individuo: ciò che conferisce in loro un senso e un significato che quelli non hanno. Per esprimerci in termini dialettici, dunque, la postura è la forma che si estrinseca nell’azione (quindi, una forma agente) e qualcosa che concentra l’azione in una modalità della forma (pertanto, un’agire formale). Essa è intermedio che spiega come l’ordine si dispieghi nel caos dello spazio-tempo.
A partire da tale sottile lineetta che concilia le due polarità, per converso, diventa possibile isolare i diversi atteggiamenti che uno stesso tipo di soggetto può assumere nel suo agire. Potremmo ad esempio descrivere i modi in cui si estrinseca l’attività di un ricercatore distinguendo una sua ‘postura euristica’, se la sua ricerca mira alla scoperta, o di una sua ‘postura sintetica’, se il suo progetto è sistematizzare un sapere già acquisito, o di una sua ‘postura scettica’, se le sue azioni e argomentazioni intendono problematizzare le credenze condivise. Resta ora da indagare cosa si potrebbe invece intendere con ‘postura performativa’, ossia l’atteggiamento o la disposizione specifico/a che l’essere umano che è anche un artista di teatro articola nell’esperienza concreta.
La postura vorticosa (Carlo Sini di Teatro Akropolis)
A condurci a una maggiore comprensione della postura performativa è sorprendentemente non un teatrante, ma il filosofo Carlo Sini, a cui come si accennava all’inizio è dedicato l’omonimo cortometraggio di Teatro Akropolis. Socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei e professore emerito dell’Università di Milano, dove ha ricoperto dal 1976 la cattedra di «Filosofia teoretica», egli è attualmente anche il direttore scientifico di Mechrí, un «Laboratorio di filosofia e cultura» che propone percorsi formativi transdisciplinari. La parte centrale del cortometraggio Carlo Sini sintetizza con estrema chiarezza gli intenti di tale atelier, che comprende l’indagine sulle radici comuni sia alla filosofia che al teatro, dunque su quel «vero dramma» che non si dispiega semplicemente sul piano logico e sulla scena concreta, ma accade nella vita intera.
L’argomento di Sini parte da una definizione di che cosa sia il filosofo, o per meglio dire della sua postura. Riprendendo alcuni spunti soprattutto da due scritti di Nietzsche (il giovanile La filosofia nell’epoca tragica dei greci e la parte conclusiva del Così parlò Zarathustra), egli propone che chi fa filosofia è un «uccello della tempesta»: l’individuo che conduce una ricerca solitaria e gettandosi con agio nel turbinio di un pensiero che critica tutto ciò che è presente o momentaneo, ambendo al suo posto alla realizzazione di una visione del mondo più vasta dell’ordinario. Proprio perché volge la mente a una simile vastità, il filosofo è allora insofferente verso tutto ciò che può limitare la sua esperienza, a cominciare dalla scrittura logico-razionale. Quest’ultima attività è paradossale e a ben vedere contraddittoria. Se da un lato la scrittura aiuta a conservare e promuovere il sapere, visto che consente di fermare in una memoria grafico-collettiva i risultati di esperienze conoscitive trascorse, dall’altro essa è anche – come già sosteneva Platone col mito di Theuth del Fedro e nella settima lettera – un nemico potenziale della conoscenza, perché appunto fissa in un supporto finito soltanto i risultati di un percorso che è ormai concluso. La filosofia ha pertanto un procedere in larga parte non-scritto. Tenta di raggiungere, nell’indagine condotta ‘qui e ora’ con uno o più interlocutori vivi e attivi, un avanzamento verso un ignoto ancora da decifrare – verso un mondo pieno di zone opache e inesplorate, ancora vergini.
Ma il filosofo è anche colui che disprezza la scena consueta. Si tratta in realtà di un punto a cui Sini accenna nel cortometraggio solo di sfuggita, precisamente laddove dice che la «sapienza del teatro» di cui va in cerca non va confusa con una manifestazione storica concreta, poniamo un certo modo di allestire sul palco un evento performativo con specifici testi, costumi, stili. Tale concezione cade, infatti, in una contraddizione simile a quella della scrittura logico-razionale: ardisce a porre come definitivo quello che è solo un esperimento tra gli innumerevoli possibili. Potremmo allora supporre che il filosofo, secondo Sini, in un certo senso cerca il teatro, o il «vero dramma», ma è critico dello spettacolo, ossia la tentazione di condensare in un rigido apparato il vasto processo performativo che prosegue ininterrottamente in noi e attorno a noi. Questo strano uccello della tempesta si stancherebbe presto di sedere di fronte a una delle tante platee dei nostri tempi.
Ma cosa viene proposto in sostituzione della scrittura e della scena ordinarie? Proseguendo la linea concettuale che si prova maldestramente ad abbozzare in queste poverissime righe, quale è la pars construens della postura filosofica che, nella sua pars destruens, gode nel distruggere gli scritti e gli spettacoli di cui ci si suole accontentare? Sini qui introduce, recuperando e trasformando alcuni spunti tratti dalla filosofia del linguaggio del semiologo Charles Sanders Peirce, l’idea del «foglio-mondo», a cui ha dedicato numerosi scritti (cfr. almeno Teoria e pratica del foglio-mondo, Roma-Bari, Laterza, 2003). In sintesi, tale ipotesi vuole che ogni segno scritto e ogni gesto performato non siano il banale significante di qualcosa che esiste in sé, come vuole il realismo ingenuo che prevede che il nome o l’azione siano una copia fedele e trasparente delle cose che nominiamo o con cui interagiamo. Ogni traccia eccede sempre il referente e rinvia all’intero più vasto che sia la contiene, sia l’ha originata, in modo simile al foglio di una mappa, dove il singolo oggetto non ha appunto significato autonomo, ma acquista il suo senso nella relazione con gli altri oggetti rappresentati nel supporto. Il foglio-mondo è dunque la scrittura che allude all’origine. È un tipo di espressione che tenta con mezzi finiti di esprimere il fondo indeterminato dell’universo.
Ora, il filosofo predilige esattamente il tipo di scrittura del foglio-mondo, che è dinamica e in fieri, mai lineare. Egli sa che attraverso una simile mappa si possono articolare infiniti modi di orientarsi nell’universo che è imperfettamente simboleggiato. Come se non bastasse, il filosofo ritiene che lo stesso foglio-mondo sia un tentativo temporaneo: una scrittura che va aggiornata costantemente, ogni volta che facciamo esperienza di qualcosa che mette in questione la fedeltà della mappatura di partenza e ci costringe a rivedere il nostro stesso orientamento, oltre che ripensare l’origine delle nostre idee e del linguaggio che abbiamo ereditato. Infine, e cosa più importante, una simile opera scritta esige un lettore altrettanto filosofico, dunque capace di inventare ogni volta il cammino e la bussola del proprio destino. Il filosofo scrive pertanto come se fosse al centro di un «vortice» (= la tempesta di cui parlava Nietzsche), attorno a cui persone, cose, esperienze mutano perennemente di fisionomia a causa del moto centrifugo ed eccedente.
Da ciò segue che la filosofia ha una matrice performativa. Infatti, caratteristica della performatività è proprio l’essere un sistema vitale dinamico. Ogni gesto risuona e muta di senso nella sua tessitura con le azioni degli altri performer, nonché dei corpi di chi assiste e che sono a loro volta scrittori della composizione che viene svolta nel vortice dell’immediatezza. Attori e spettatori sono del resto complementari. Il gesto dei primi è decifrato dai secondi, e i secondi condizionano con l’ascolto / la concentrazione l’accadimento scenico. Inoltre, anche il teatro rinvia a un’origine, anzi in un certo senso rimanda alle origini di tutte le origini. Attingendo stavolta alle parole di Antonio Attisani, Sini precisa che il dramma dispiega «un coro di voci lontane che attraversano il corpo storico da cui sono evocate» (Io è un teatro. Un manifesto al passato, in Id., L’arte e il sapere dell’attore. Idee e figure, seconda edizione riveduta e corretta, Accademia University Press, Torino 2016, p. 7). Nella ripetizione propria del rito teatrale e nel ritmo dell’accadimento scenico, si riesce a rappresentare ciò che nella vita si dà occasionalmente e in modo aritmico o caotico, quindi ogni minimo evento che ha portato ad essere quel che siamo e il linguaggio che presumiamo di parlare, ma da cui invece ‘siamo parlati’. Noi sappiamo pochissimo della genesi delle parole e delle idee che compongono il nostro universo mentale. Creare le condizioni per uscire da tale tetra inconsapevolezza costituisce un’ambizione che è insieme filosofica e performativa.
Il «vero dramma» è pertanto una modalità molto peculiare di foglio-mondo, o – che è lo stesso – una filosofia che dà espressione drammatica alla mappatura che si espande nel vortice incessante della lingua e del pensiero. Allo stesso tempo, si tratta di un tentativo di scrittura che si espone, in negativo, alla delusione. La relazione che si instaura nella dimensione performativa è, infatti, al contempo «erotica e tragica». Erotica, dato che i corpi di attori e spettatori entrano in risonanza, in un legame profondo di intesa della mente e dei sensi. Ma anche tragica, giacché l’esperimento di scrittura della realtà non giunge mai a una conclusione e si è apparentemente incapaci di riuscire a capire fino in fondo il mistero dell’origine, quindi del nostro fondamento. Per questa ragione, con il nitore proprio di chi condensa in una frase densa la fatica di ricerche di una vita, Sini conclude che noi esseri umani siamo «eroticamente allacciati e strutturalmente intrecciati». In positivo, d’altro canto, potremmo dire che avventurarsi nel foglio-mondo del teatro consente al filosofo di uscire sia pure in parte dalla solitudine del suo cammino. La tempesta viene attraversata insieme ad altri corpi, il disorientamento diviene un tormento dolcemente condiviso. Il piacere della ricerca è inseparabile dalla frustrazione dello schianto in un inevitabile fallimento.
Possiamo così concludere perché Sini aiuta a capire meglio che cosa è una postura performativa. Essa non è semplice ‘forma’, poiché anzi il dramma (e la filosofia che cerca di esprimerla) disegna una mappa il cui orlo si dipana di continuo. Non è però nemmeno mera azione disordinata, se è forse plausibile sostenere che ogni singolo segno o gesto scritto/performato “qui e ora” trova il suo senso profondo cogliendo l’intero che lo origina, lo culla, lo contiene. La postura performativa può allora consistere nella capacità di avere una visione sinottica della realtà e dei collegamenti che tutti i singoli enti/oggetti instaurano tra loro, in un andamento dinamico e, per riprendere l’immagine del «vortice» di Sini, dalla natura vorticosa. La scena diventa così un microcosmo che permette di intravedere il macrocosmo in espansione: una rappresentazione in vitreo di un universo che non si può osservare direttamente in tutta la sua crescente grandezza.
Il travaso delle immagini (Oscillazioni di Roberta Nicolai)
Questa postura performativa che il cortometraggio Carlo Sini riconosce nella creazione artistica trova, a mio avviso, la sua declinazione organizzativa in Oscillazioni di Roberta Nicolai. Il progetto avrebbe dovuto in realtà debuttare nell’edizione 2020 del festival Testimonianze ricerca azioni. L’esplosione della seconda ondata di Covid-19 ha obbligato un rinvio di Oscillazioni, le cui idee però ora giungono incredibilmente quasi come un affinamento di quelle che Sini ha elaborato l’anno seguente. A volte ciò che è anteriore segue quel che gli è cronologicamente posteriore.
Nicolai espone il suo progetto in un denso intervento pubblicato in C. Tafuri, D. Beronio (a cura di), Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni. Volume undicesimo, AkropolisLibri, Genova 2020, pp. 99-107. Ciò che risulta particolarmente interessante – e che entra in risonanza/integrazione con Carlo Sini di Teatro Akropolis – è la quinta parte, in cui si teorizza il tipo di sguardo che si auspica venga assunto da chi a vario titolo partecipa a Oscillazioni. Nicolai (pp. 104-105) fa riferimento al principio stabilito dal sociologo Niklas Luhmann: nessun sistema (piccolo o grande) può esser visto dal di fuori, perché solo i membri che sono all’interno possono osservare le operazioni e i criteri che ne regolano il funzionamento. Non può esistere quindi uno sguardo che trascende l’insieme e ne coglie i segreti senza parteciparvi. È semmai un complesso reticolo di «osservazioni reciproche» che consente ai membri di un sistema di capire come questo è strutturato (cfr. e.g. Introduzione alla teoria dei sistemi, a cura di D. Baecker, Pensa Multimedia, Lecce 2018). A partire da tale premessa, Nicolai trae l’intelligente conclusione che la «postura» performativa si genera se si alimenta questo stesso gioco di sguardi, che da un lato è adottato dagli artisti coinvolti in Oscillazioni, dall’altro è richiesto anche agli spettatori che andranno ad assistere alla restituzione provvisoria di questo lavoro collettivo. Questi ultimi sono invitati così a non applicare la logica del giudizio, del consenso e del dissenso, attuando al suo posto un’immersione senza pregiudizi nella dinamica creativa. In caso contrario, si situeranno fuori dal sistema e non lo comprenderanno. Potremmo paragonare la scena a una mente-alveare, in cui solo chi ascolta ogni piccolo singolo movimento dei suoi membri avanza nella comprensione del brulicante intero.
Ogni anno Oscillazioni coinvolge un gruppo di artisti. Il festival Testimonianze ricerca azioni del 2020 e spostata al 2021 ne ha interpellati tre. Anzitutto, c’è lo stesso Teatro Akropolis con Ludi: un «patchwork» di immagini di pellicole cinematografiche che hanno ispirato il lavoro di Pragma. Studio sul mito di Demetra, ma che non è stato alla fine assorbito dalla creazione definitiva. Il gioco (ludus) che è presentato al pubblico è l’esperimento di trasformare lo scarto di un’opera in un’opera indipendente: un morto che vive della sua esclusione da un progetto passato. Segue OtherOtherness di Paola Bianchi, in cui la danzatrice Barbara Carulli ricrea le immagini che Bianchi aveva già usato nell’assolo O_N. Queste vengono ora tradotte da un altro performer con una complicazione ulteriore. Se O_N aveva previsto il passaggio dal visivo al visivo (= dalla foto di un corpo alla traduzione in danza di questo corpo), OtherOtherness agisce dal visivo all’uditivo, il quale trapassa di nuovo nel visivo. Carulli realizza infatti il movimento danzante che le è descritto a parole da Bianchi. Avviene lo sdoppiamento del doppio (di qui il titolo OtherOthenress), il cui esito è una sinestesia: il visibile è colto dagli occhi dopo esser stato filtrato dall’udito. Infine, abbiamo il Diario performativo di Alessandra Cristiani, in cui il lavoro della performer di portare alla luce le risorse nascoste e sfuggenti del corpo traducendo in danza le posture per molti versi impossibili di tre artisti figurativi (Egon Schiele, Francis Bacon, Auguste Rodin) è fotografato in parallelo da Alberto Canu e Samantha Marenzi. Ne deriva il transfert di immagini pittoriche in altre immagini, i.e. la creazione dell’immagine di un’immagine, in cui la corporeità è vista da diverse angolature e ne è così esaltato il mistero. Diventa poi arduo capire se il “diario” o la documentazione dell’evento artistico che viene dispiegata dalla fotografia di Canu/Marenzi sia ‘performativo’ nel senso che annota sul momento il farsi e disfarsi della performance dal vivo, o che lo sia perché entra a tutti gli effetti a far parte del lavoro. Secondo quanto è auspicato da Oscillazioni, pare che sia più plausibile la seconda ipotesi, dunque che scompaia la distinzione tra il “dentro” dello spettacolo e il “fuori” dello spettatore. Il diario diventa un prolungamento o l’ombra della performance e insieme un altro strumento per indagare che cosa possa essere un corpo.
Ciascuno di questi lavori è rappresentato quasi simultaneamente, con una minima pausa nel passare dall’uno all’altro. La scelta è motivata dalla logica di creare appunto questo gioco di osservazione reciproca tra le proposte degli artisti, le quali entrano a far parte di un unico processo creativo. Si ha così la genesi di una ‘meta-performance’. Ogni lavoro è indipendente e si distingue per una serie di fattori ben riconoscibili (tempi di creazione, temi di ispirazione, intenti estetici, ecc.), ma al tempo stesso ciascuno di essi è anche intrecciato agli altri. La performance è una e trina: si presenta come una sostanza solida che si estrinseca in tre personalità artistiche.
Non è perciò strano constatare che, malgrado la diversa genesi e i differenti scopi che li animano, i tre lavori siano permeabili proprio per un aspetto centrale. Essi trovano il loro filo conduttore nella riflessione condivisa, ma non decisa di comune accordo, che un’immagine può avere molte destinazioni, dunque che può moltiplicarsi su supporti diversissimi senza perdere il suo potere di fascinazione. Non importa che sopravviva in quanto scarto di un’opera (Ludi), come risultante di una visione mediata dall’udito (OtherOtherness), da eco di un disegno o quadro che resuscita in una fotografia (Diario performativo): l’immagine permane dopo ogni travaso e sembra anzi esser quasi immortale. I corpi dei performer cambiano e invecchiano, i progetti artistici vengono sostituiti da nuovi. Ma l’immagine che guida sia gli uni che gli altri è come un liquido che mantiene, dopo ogni travaso, il suo volume e la sua consistenza.
Per tornare dunque un’ultima volta al concetto di postura performativa, possiamo supporre che un merito di Oscillazioni è proprio l’aver evidenziato come ogni performance viva dell’incrocio con altri lavori, dunque – come voleva Sini – che il suo significato venga colto quando ci si dispone a far rifrangere tanti elementi in un unico sistema. Ne è prova, nella triade che abbiamo considerato, che il concetto che le immagini possono avere una vita che si rinnova perennemente, o forse persino l’immortalità, è potuto emergere dal gioco di incastri di tali tentativi estetici, non dalla loro singola struttura. Pensieri complessi subentrano da sistemi complessi.
Conclusioni
Sia la ricerca di Teatro Akropolis e di Roberta Nicolai ci mostrano come la postura performativa sia un magma in fieri. Si tratta di un’approssimazione sulla materia complessa che è il nostro mondo, che procede per chiarimenti progressivi e cercando con sforzi titanici di restituire, a partire da pochi dettagli, un intero che la mente non riesce a comprendere e i sensi non possono contenere. Questo spiega perché si è voluto chiamare questo intervento, senza falsa umiltà, come l’articolazione di alcune semplici ‘note’. Se la conoscenza e la rappresentazione del mondo sono solo in piccola parte accessibili, l’intelligenza umana – inclusa quella di chi scrive – risulta costituzionalmente incapace di annotare qualcosa che vada oltre la superficie.
Sussiste, quindi, una marcata disomogeneità tra dramma e realtà. L’uno cerca di misurare l’altra, tenta di rispecchiarne la dinamica attraverso la creazione e l’organizzazione artistica, ma rimane pur sempre uno specchio che rifrange solo una minuscola parte del suo andamento. Anni di ulteriore studio ininterrotto, esclusivo e crudele potrebbero certo permettere di affinare la prospettiva, di dare una visione più precisa delle forze cosmiche che sono in campo. Non possono tuttavia consentire, un giorno, che il grande si compenetri col piccolo.
L’assunzione della postura performativa implica, pertanto, anche la percezione della propria eroica trascuratezza. Sebbene non possano sapere nulla, filosofi e artisti si comportano come se potessero conoscere tutto, di contemplare l’universo nel guscio di mandorla che è il loro intelletto.
venerdì, 21 gennaio 2022
In copertina: La Locandina di Ludi (gentilmente fornita da Teatro Akropolis).
Nel pezzo: La Locandina di La parte maledetta (gentilmente fornita da Teatro Akropolis);
Diario Performativo. Alessandra Cristiani e Samantha Marenzi. Foto di Lorenzo Crovetto (gentilmente fornita da Teatro Akropolis);
Diario Performativo, Alessandra Cristiani. Foto di Margherita Mase (gentilmente fornita da Roberta Nicolai);
OtherOtherNess di Paola Bianchi. Foto di Margherita Mase (gentilmente fornita da Paola Bianchi).