Dopo alcuni anni di ritorno al neo-liberismo, arriva una sterzata verso il centro sinistra per la politica latino-americana
di Luciano Uggè
Tutto è iniziato il 1° luglio 2018, con la vittoria in Messico del partito di Andrés Manuel López Obrador – normalmente indicato come Amlo, leader del Movimento di rigenerazione nazionale (MORENA) di ispirazione populista di sinistra – dopo 71 anni di governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) – in cui i due termini dicotomici di rivoluzionario e istituzionale hanno, in realtà, significato una gestione del potere clientelista e, spesso, connivente con i narcos.
L’evento sembrava aprire nuovamente le porte ai partiti di sinistra (o centro-sinistra), come spesso succede in questo continente che pare risvegliarsi o addormentarsi in toto. Con un consenso intorno al 53% dei voti espressi, Amlo si è insediato al potere ai primi di dicembre dello stesso anno, ereditando una situazione difficilissima – ove il Covid potrebbe essere considerato il male minore a fronte di problemi legati all’emigrazione (e alla gestione del fenomeno da parte della criminalità organizzata, che assolda esponenti delle forze dell’ordine per coprire le proprie tracce), l’uccisione di giornalisti e attivisti dei diritti umani e la dilagante corruzione.
Anche l’amministrazione Biden (che, aldilà delle speranze di qualche anima bella, è solo l’ennesimo Presidente al servizio delle lobby e, in particolare, sembrerebbe di quelle farmaceutiche), nella figura della Vicepresidente Kamala Harris, dopo le promesse iniziali di modificare la gestione statunitense dei richiedenti asilo, ha fatto dietro-front adottando la politica dell’‘aiutiamoli ma a casa loro’ – un po’ di soldi in cambio di maggiori controlli per fermare le migrazioni. A questo fenomeno si aggiunge quello non meno grave dei desaparecidos, che persiste nonostante l’impegno del governo centrale di contrastarlo – anche con la creazione della Guardia Nazionale, una forza di polizia che dipende dal potere civile e andrebbe a sostituire i militari che hanno svolto questa funzione – stranamente con poco successo – finora.
Dal punto di vista economico, Amlo si sta impegnando a ridurre la povertà anche con l’istituzione del salario minimo e, nel mondo del lavoro, a dare maggiore forza ai lavoratori nel momento in cui vogliano far valere i propri diritti, a rafforzare il settore statale dell’energia e, in politica estera, a favorire la soluzione pacifica delle controversie negli altri Paesi – non intervenendo direttamente e/o militarmente.
Dal Messico all’Argentina
Da allora l’America Latina ha preso a cambiare colore: non per il Covid, ma grazie alle elezioni presidenziali che si sono succedute, dando nella maggior parte dei casi un esito positivo per i partiti o le alleanze di sinistra, anche se con risultati alterni per quanto riguarda l’elezione dei parlamentari. Tra i Paesi che sono andati alle urne nei mesi successivi, l’Argentina con le elezioni primarie dell’11 agosto, e le successive per l’elezione del Presidente il 27 ottobre 2019.
Già risultato maggioritario nella prima tornata con il 49,5% dei voti contro il 32,9% di Mauricio Macri, lberto Fernández e la vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner, con il 48,2% dei voti, sono stati rispettivamente eletti Presidente e Vicepresidente.
Si è così avviata una nuova era politica che, però, ha dovuto farsi carico del pesante indebitamento finanziario con il Fondo Monetario Internazionale – ben 44 miliardi di dollari da restituire secondo un’ipotesi di accordo del Governo in carica, contestata però anche dalla sinistra, in tre anni con rate di 19,2 miliardi il primo anno, 19,27 il secondo e 4,856 miliardi l’ultimo. Sul fronte dei diritti civili, dopo il matrimonio igualitario (ossia tra persone dello stesso sesso), sancito nel 2010 (e per il quale l’allora Presidente Cristina Fernández de Kirchner fu osteggiata da Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco), l’Argentina, a fine 2020, ha approvato anche l’interruzione volontaria di gravidanza – legale e gratuita.
Riguardo alla pandemia da coronavirus, il Paese – dopo infruttuose trattative con Big Pharma – si è rivolto con buoni risultati alla Russia, privilegiando lo Sputnik V, affiancato dal vaccino cinese. Il 1° gennaio 2022, il 72% della popolazione era completamente vaccinata (e i dati di uno studio pre-print sull’efficacia del vaccino russo sull’immunizzazione e la gravità della malattia anche nel caso di Omicron, a differenza di Pfizer e Moderna, sembrerebbero buoni: https://it.sputniknews.com/20211222/vaccini-centro-gamaleya-pubblicati-i-dati-sullefficacia-di-sputnik-light-contro-omicron-14296059.html).
In campo internazionale il Paese ha sciolto i legami con gli Us per aderire a politiche di non intervento e contro i blocchi illegali imposti da Unione Europea e Stati Uniti, alleandosi con altri Stati governati da partiti di sinistra. La politica interna ha visto gli aiuti economici non sufficienti a frenare il processo inflattivo, la svalutazione monetaria e, in parte, l’aumento della disoccupazione – anche perché le politiche neoliberiste del precedente Governo, gonfiate dall’indebitamento verso il FMI, pesano gravemente sulle scelte attuali.
L’Uruguay all black
Nello stesso giorno, il 27 ottobre e, successivamente, il 19 novembre 2019 si è votato anche in Uruguay. Al primo turno il Fronte Ampio ha ottenuto il 40,4% dei voti contro il 29,7% del maggior partito di opposizione del candidato, Luis Alberto Lacalle Pou – che ha poi sconfitto Daniel Martinez del Fronte Ampio, che si è fermato al 49,2% dei voti. Questa vittoria è stata possibile grazie all’alleanza tra il Partito Nazionale e il Partito Colorado di estrema destra. Una vittoria non scontata in quanto, dal 2004, con l’arrivo al potere del Fronte Ampio, il Paese aveva goduto di una fase di crescita molto sostenuta con la riduzione del tasso di povertà dal 40% a meno del 10%, la garanzia della copertura sanitaria e l’introduzione di leggi sui diritti civili, quali il matrimonio fra persone dello stesso sesso e la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza – che è ancora severamente punita come reato in molti Paesi del Centro e Sud America. Il Paese ha però scelto un’alleanza fortemente di destra.
Il ritorno alla democrazia in Bolivia
L’anno successivo la Bolivia ha superato, con le elezioni del 14 ottobre 2020, la situazione ereditata con il Colpo di Stato e ha deciso di tornare alla democrazia. Precisiamo che il Colpo di Stato successivo alle elezioni per il quarto mandato consecutivo – da alcuni ritenuto incostituzionale – di Evo Morales (che aveva comunque vinto), permetteva a Jeanine Áñez, con l’appoggio dei militari e l’avallo di alcune potenze occidentali quali l’Unione Europea e gli Stati Uniti, di proclamarsi Presidente.
A tale presa di potere illegale a livello di diritto internazionale (ma si sa che Usa e Ue non brillano certo in fatto di rispetto delle democrazie che non sono favorevoli ai loro interessi), si sono succedute manifestazioni che hanno chiesto il ripristino della legalità e che sono state soffocate nel sangue – con esecuzioni sommarie, come denunciato dal Consiglio Interamericano dei Diritti Umani. Evo Morales, che aveva reso la Bolivia uno Stato indipendente da oligarchie e monopoli e aveva riconosciuto i diritti degli indigeni, era addirittura costretto ad abbandonare il Paese. La Bolivia, durante i suoi tre mandati, era cresciuta economicamente a un ritmo del 4% annuo triplicando il valore del PIL e dimezzando la povertà.
Alle elezioni tenutesi dopo le continue proteste di piazza, il partito dell’ex Presidente allora in esilio, il Movimento per il Socialismo – guidato dall’economista Luis Arce – conquistava la maggioranza assoluta con il 55,1% dei voti contro il 28,8% ottenuto dal maggior partito di opposizione, Comunità Cittadina, con a capo Carlos Mesa. Il nuovo Governo, oltre a continuare la politica degli anni precedenti, si è impegnato a perseguire gli autori e istigatori dei massacri del periodo del golpe incriminando la stessa Jeanine Áñez per i reati di violazione dei doveri e decisioni contrarie alla Costituzione e alle leggi, e di complicità per alcuni massacri compiuti, durante il suo mandato, dalle forze dell’ordine. Il popolo boliviano, chiamato dal presidente Luis Arce a vigilare sul rispetto della democrazia, visti i tentativi della destra di creare situazioni che permettano un nuovo intervento golpista dell’esercito, ha permesso alla Bolivia di ritornare nel novero delle nazioni democratiche.
In Ecuador prevale la continuità col Presidente che ha consegnato Assange
Il 2021 è stato un anno di rivolgimenti in America Latina, non sempre favorevoli alla sinistra – come in Ecuador dove, alle elezioni del 7 febbraio e 11 aprile, il candidato Guillermo Lasso che con il partito Alleanza CREO – PSC, al primo turno aveva ottenuto il 19,7% dei voti contro il partito Unione per la Speranza (FCS-CD) che raggiungeva il 32,7% delle preferenze, vinceva però al ballottaggio con il 52,3% dei voti concedendo al candidato della sinistra solo il 47,6% dei consensi. Determinante, al secondo turno, l’astensione del partito Pachakutik di Yaku Pérez, difensore dei diritti degli indigeni e dei diritti umani (della serie che le sinistre non solamente in Italia faticano a collaborare). In ogni caso, il nuovo Presidente sembra intenzionato a continuare la politica dell’ultimo periodo del precedente Lenín Moreno, eletto con i voti della sinistra ma poi spostatosi su posizioni più moderate. Moreno è stato anche responsabile dell’arresto, in Gran Bretagna, del giornalista Julian Assange – allora rifugiato nella sede diplomatica londinese dell’Ecuador – perseguitato da oltre un decennio dagli Stati Uniti per aver svelato i crimini di guerra compiuti dagli stessi in Afghanistan e Iraq (che dovrebbe essere, al contrario, la ragion d’essere del giornalismo in Paesi cosiddetti democratici).
Tira una bella aria in Perù
Sempre l’11 aprile 2021 si sono tenute, in Perù, le elezioni per eleggere i suoi 130 deputati; mentre il 6 giugno per il ballottaggio presidenziale tra Pedro Castillo di Perù Libero (18,9% dei voti al primo turno), di sinistra, e Keiko Fujimori (la figlia dell’ex Presidente Fujimori, condannato per corruzione e per 25 omicidi compiuti dai paramilitari legati ai servizi segreti durante il suo Governo), di Forza Popolare, che si era fermata al 13,4%. Al ballottaggio, sebbene di stretta misura, ha vinto il primo con il 50,13% contro il 49,87% ottenuto dalla Fujimori – dopo successive verifiche delle schede elettorali. Una presidenza osteggiata dalla destra in tutti i modi, compreso il tentativo di destituzione per ‘incapacità morale’ – che non ha però ottenuto i voti necessari, 46 invece dei 52 indispensabili per procedere.
Pur dovendo mediare con la sua composita maggioranza rispetto alle promesse elettorali, il Presidente sta mantenendo una posizione di dialogo con i Paesi confinanti e ha rotto con la politica precedente allineata a quella degli Stati Uniti. All’interno si propone di cambiare radicalmente l’atteggiamento verso le imprese estrattive, modificando i compensi che queste devono versare al Paese – pena una possibile nazionalizzazione delle stesse. I maggiori profitti dovrebbero servire per migliorare le condizioni della fascia più povera della popolazione e, in particolare, di quella indigena. Un cambiamento che la destra ha osteggiato promuovendo scioperi (come ai tempi del Cile di Allende) ma che la sinistra ha finora sedato. Tra le riforme proposte anche quella agraria e l’aumento del salario minimo.
Nicaragua e Honduras e il ravvicinamento alla Cina
Il 7 novembre si sono svolte le elezioni in Nicaragua che, come pronosticato – viste le difficoltà per alcuni tra i rivali di parteciparvi – hanno sancito il successo del Fronte Sandinista di Liberazione con il 75,87% dei voti (lasciando al Partito Liberale Costituzionalista il 14,33% e al Cammino Cristiano Nicaraguense il 3,26%, entrambi sostenitori di Walter Guillermo). Riconfermato Presidente Daniel Ortega, al comando del Paese dal 2006, con la moglie Rosario Murillo come Vicepresidente (scelte che sanno di oligarchia più che di democrazia). Di recente il Nicaragua ha deciso di rompere le relazioni con Taiwan: era uno dei 15 Paesi che lo riconoscevano, così da riavvicinarsi alla Cina – che ha avuto persino il cattivo gusto di occupare l’ex ambasciata di Taiwan a Managua. Segnale, anche in questo caso, di un allontanamento dalle politiche statunitensi nell’area – ma non certo rispettoso dell’autodeterminazione del popolo taiwanese.
Il 28 Novembre 2021 è toccato all’Honduras andare alle elezioni. Risultata eletta, al primo turno, Xiomara Castro del raggruppamento Libre (PINU – PSH) con il 51,12% dei voti espressi (entrerà in carica il 27 gennaio di quest’anno). Al secondo posto, Nasry Asfura del Partito Nazionale dell’Honduras con il 36,93% delle preferenze. La vincitrice è la moglie dell’ex Presidente Manuel Zelaya, rovesciato con un Colpo di Stato nel 2009. Si propone di porre fine alle pesanti repressioni che il popolo honduregno ha patito in questi ultimi anni. Per quanto riguarda la politica estera, le promesse di ravvicinamento alla Cina (essendo l’Honduras un altro tra i 14 Paesi dell’Onu, oltre allo Stato del Vaticano, che riconoscono Taiwan) sembra si siano in parte affievolite sotto la pressione degli Us. Molto dipenderà dai rapporti tra i Paesi della regione viste le piccole dimensioni degli Stati dell’America Centrale – Messico a parte.
In Cile vincono i giovani dimostranti
Last but not least, il 21 novembre si è svolto il primo turno delle elezioni in Cile. Elezioni che arrivavano dopo anni di manifestazioni, soprattutto giovanili, contro il Governo in carica. Va ricordato che le dimostrazioni contro Sebastián Piñera hanno provocato migliaia di arresti e migliaia di ferimenti anche gravi (comprese centinaia di lesioni agli occhi) tra i dimostranti, a causa dei pallini di piombo sparati ad altezza d’uomo dai carabineros – e almeno 18 morti.
Al primo turno il raggruppamento di sinistra, rappresentato da Gabriel Boric – figura di spicco del movimento studentesco già nel 2011 – ha ottenuto il 25,83% dei consensi; mentre il Partito Repubblicano e il Fronte Social Cristiano, di estrema destra (come spesso i partiti di ispirazione cristiana dopo l’affossamento della Teologia della Liberazione), di José Antonio Kast, hanno raggiunto il 27,91%. Questi due raggruppamenti sono andati al ballottaggio il 19 dicembre scorso e Gabriel Boric ha vinto con il 55,87% dei consensi lasciando a Kast il 44,13%. Una scelta netta che dovrà porre fine a una politica neoliberista – quella dei Chicago Boys per intenderci – che ha fatto della repressione dei diritti sociali e dello sfruttamento economico la propria dottrina guida.
Ci si auspica che il Cile promuoverà una politica estera basata sul diritto dei popoli ad autodeterminarsi – senza pressioni esterne (in primis, statunitensi). E all’interno, si vada verso il ripristino delle regole democratiche e del welfare distrutto per arricchire le imprese private. Nel frattempo, Boric ha promesso anche la fine della società patriarcale che ancora connota molti Paesi dell’America Latina, e ha affermato (cancellando perfino il ricordo di Pinochet e degli anni bui della dittatura): «Non possiamo più avere un Presidente in guerra con il suo popolo».
Nel complesso, un Sud America che potrà decidere del proprio futuro come continente soprattutto dopo le elezioni, quest’anno, negli ultimi due grandi Paesi che mancano all’appello – il Brasile e la Colombia. Il primo che vede nuovamente candidato delle sinistre, Lula da Silva, e il secondo che meriterà un approfondimento a sé visti i continui massacri e le uccisioni dei leader della società civile, attuati con l’avallo dell’onnipresente ‘zio Sam’.
venerdì, 7 gennaio 2022
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.
Nel pezzo: Video by Guy Augeri, https://www.instagram.com/guyaugeri/?utm_medium=copy_link, augeriguy3@gmail.com
In chiusura pezzo: Victor Jara (vittima della repressione del golpista, Augusto Pinochet), El Derecho de Vivir en Paz.