Il racconto di Natale
di Simona Maria Frigerio
Le luci punzecchiano l’orizzonte notturno: lavagna nera sulla quale tracciano fluorescenti linee luminose. È tempo di aratura e non vi è tempo per altro. I contadini, vestiti di stanchezza, attendono che le macchine abbiano finito. Io, nello scorcio di finestra, attendo che lui non torni. Mi volgo verso la tavola e guardo con disgusto le verdure cotte rapprendersi, infreddolite, nei piatti. I bambini, di sopra, dormono già. Loro sono gli unici che riescono ancora a mangiarle. Loro, famelici, che rubano morsi di pane mentre lo portano a casa, e la frutta del contadino, pensando che io non sappia, che non mi accorga; loro sono gli unici che divorano tutto quello che trovano, come se non esistesse altro che il cibo, tutto il cibo che possono mangiare e anche quello non basterebbe loro.
Raccolgo i piatti stringendomi nella camicia da notte. Vorrei piangere ma non posso. Vorrei scappare ma non posso. Vorrei non averlo mai conosciuto ma che cosa sarebbe cambiato?, avrei incontrato un altro e non vi è altra strada che questa, altro modo di vivere che questo: ho fatto solo quello che mi si chiedeva, che era già scritto, inevitabile come il venire al mondo.
Mi rigiro tra le lenzuola ruvide che sembrano scricchiolare a ogni movimento. Mio fratello dorme da un pezzo, con l’espressione infastidita dai miei movimenti: la sua espressione naturale. Lui non capisce e dorme, madido tra le lenzuola che lo cingono d’assedio. Io lo immagino morto, esangue e silente, per sempre immobile.
A volte vorrei che non ci fossero, né lui né mia sorella. Nessuno. Vorrei quel letto tutto per me. La sento muoversi lentamente in cucina attendendolo. Me la immagino con la gota premuta contro il vetro della finestra che cerca di scorgere aldilà del buio il suo ritorno. Sento che è irrequieta. Se lui non arriverà presto vorrà dire che è passato dall’osteria e allora quando ritornerà sarà sbronzo e pesante e cattivo. O magari solo troppo addormentato e stanco per reggersi in piedi e trascinarsi fino al letto e allora crollerà davanti alla porta d’ingresso, con la testa riversa sul gradino e le gambe abbandonate nel cortile. Oppure barcollerà fino alla cucina e si addormenterà con la faccia sul tavolo e le braccia penzoloni e lei dovrà cercare di svegliarlo e portarlo di sopra ma sarà tutto inutile perché lui è così grande e pesante e lei desisterà e forse griderà, lo insulterà piangendo, solamente un poco, dentro di sé, per poi essere felice pensando che questa notte dormirà sola.
Lei si alza dal tavolo furente. Mi guarda con un’aria dolorosa. Vorrei scappare ma non riesco a muovermi. Balbetto qualcosa: che non è stata colpa mia, che la prossima volta il compito andrà meglio. Mi volto di lato e scorgo con la coda dell’occhio mio fratello che sorride uscendo dalla cucina con un pezzo di pane che ha intinto di nascosto nella bottiglia del burro. Anche il suo compito non è andato bene eppure mia madre non lo rimprovera, forse non lo vede nemmeno. Lei vede solo me. Mi si avvicina lentamente: sono pronto a ricevere uno schiaffo. Ma lei mi abbraccia e mi sorride scuotendo il capo. I suoi occhi sono così tristi che vorrei consolarla, ma non so come fare. La sua tristezza è troppo grande per un compito andato male. Mi divincolo e rubo anch’io un dito di burro, ma non riesco ad afferrare il pane. Mi sento in colpa. Mentre corro in cortile e poi lungo il canale nei prati seminati a maggese, sento i suoi occhi inseguirmi, i suoi occhi un po’ gonfi sotto le palpebre pesanti: i miei occhi.
Lo osservo salire controcorrente, più veloce del fiume. Dalla riva la ragazza dagli occhi neri non vede altri che lui e lo incita, sbracciandosi e ripetendo il suo nome. Molti della compagnia tengono per lui. E mio fratello manco li vede. Lei non glielo permette. Io lo osservo e intravedo il corpo di nostro padre che sta crescendo in lui. Un giorno anche nostra madre sarà costretta a vederlo e allora sarà diverso: smetterà di amarlo. Mia sorella corre lungo la riva e batte le mani. Le sue gambe cicciottelle faticano a farsi strada in mezzo all’erba alta. Per un attimo si volta a guardarmi per chiedere aiuto, poi scuote il capo e riprende la corsa. Ogni tanto incespica e io me la figuro cadere e iniziare a frignare perché si è fatta male. Ma lei continua a correre e, a un certo punto, non la vedo più. Anche la ragazza dagli occhi neri lo sta seguendo lungo la riva. I suoi occhi lo abbracciano, accarezzando ogni movimento. Sento il desiderio che lei prova stuzzicarmi il palato e scendere in gola, dove si blocca, incapace di esplodere o di essere inghiottito e dimenticato. Finalmente risale a riva. Ha vinto. Come sempre. Non sorride. Non lo fa mai. Abbassa lo sguardo e si sdraia nell’erba. Loro lo cingono d’assedio ma lui non li ascolta. Si nasconde gli occhi con l’ombra delle dita. Poi si volta su un fianco e si addormenta. La ragazza dagli occhi neri lo copre con la camicia che aveva abbandonato a riva e che lei ha raccolto e portato fin lì. Mia sorella torna indietro e mi si avvicina: «Hai visto che ha vinto lui?», poi si gira in tutta fretta e scappa via ridendo. Le sue gambe sono troppo grassocce, penso soddisfatto: non sarà mai bella.
Mentre aro li vedo giocare a calcio, i miei figli, nel cortile della cascina. Lui sta crescendo e tra breve le sue spalle saranno più robuste delle mie. Allora non potrò più picchiarlo. Mi sposto sul seggiolino per scorgerli meglio. A volte, quando lo guardo, provo una tale rabbia che mi vergogno di me. E a misura che la vergogna cresce, aumenta il desiderio di sfuggirlo. Qualcosa nel suo sguardo obliquo m’infastidisce. Non è mai irrispettoso. È intelligente, anche se non lo fa vedere, sento che pensa più degli altri. Tuttavia, la sua ostilità è un avvertimento silenzioso. Non lo ammetterebbe mai, nemmeno con se stesso, eppure in quel corpo, il mio, la sua mente è altrove, persa in lei. È lei, tra di noi, quella che ha vinto.
*°*°*
Nella stanza in penombra non comprendo. È il vuoto che si apre tra mia madre e me. Non mancanza, bensì assenza: costante, prolungata, eterna perché non misurabile, quantificabile, riconducibile a questi pochi secondi, attimi forse, che ci separeranno per sempre. E io avrei voluto allungare la mano per trattenerla un istante ancora, solo uno, perché adesso mi sembra che questo istante sia eterno, come il mio dolore, ovattato in superficie, lancinante dentro, nella coscienza che non potrò più trattenerla, che non l’ho fatto e non avrò mai la possibilità di ritentare… per sempre.
Quando spalanco la finestra, il mattino, per cambiare aria alla camera, mentre mio fratello corre veloce in bagno battendosi la schiena con il palmo delle mani, mi rivedo in te. Anche quando spolvero svogliatamente le stanze sapendo che lui tornerà a sera e controllerà, col dito inumidito di saliva, mi rivedo in te. Ma quando, in un tempo imprecisato e vuoto, come oggi, col cielo triste dei giorni non decisi, mi soffermo senz’altro da fare che contemplare la mia immagine imprecisa di bambino-grande, incredulo di fronte a quel volto che stento a riconoscere come mio e pure consapevole che per gli altri io sono quell’immagine; ebbene, nel fissare lo specchio, non mi capisco più. Mi lascio scivolare lungo il cassettone e con la guancia appoggiata alla mano, mi ciondolo aspettandoti, sapendo che non tornerai e pure convinto che, chiudendo gli occhi e strizzandoli forte, se lo desidererò abbastanza, entrerai da quella porta e mi prenderai per mano e usciremo insieme ad aspettare il sole…
Siamo tutti stirati di fresco: papà mio fratello e io, in fila, con le braccia dietro la schiena e il sorriso della domenica a messa. Aspettiamo. Mia sorella, oggi, dopo quasi cinque anni trascorsi con gli zii, tornerà da noi. Il sole primaverile ci sorride inumidendoci la fronte e le spalle, coperte dalle giacche pesanti. Mio fratello sbadiglia indifferenza. Io mi guardo intorno infastidito dal colletto e dai polsini troppo stretti. L’autobus tarda ad arrivare. Mio padre resta immobile. Lo guardo di sottecchi e mi sento stranamente orgoglioso. Poi mi mordo il labbro perché, per un attimo, l’ho tradita, e torno a fissare la strada vuota.
Gli anni trascorrono lungo il Po: lenti come il fiume quando l’acqua è profonda, all’inizio, e poi, via via che ci si avvicina alla foce, rapidi e tumultuosi, con improvvise isole di pace e melma e fango che trascinano sul fondo, fino all’ineluttabile fine. A volte, seduta sulla riva del fiume ripenso ai miei anni trascorsi in cascina, a quei nostri genitori estranei ai quali ci sentivamo legati, all’infanzia passata cercando di leggere i tratti del tuo volto da adulto, mentre io, bambina, t’inseguivo, innamorata, sulle grassocce gambe infantili…
*°*°*
E venne il tempo del tradimento del padre. Noi, fratelli, lo vedemmo arrivare con la nuova sposa sottobraccio. Non erano più giovani, nessuno dei due, ma si capiva che si conoscevano da anni e che da anni lui la teneva sottobraccio. Lui venne verso di me e me la presentò, come se non sapessi chi era. La benedizione era già stata impartita, non mi trattenni oltre e li lasciai in casa soli.
Mio fratello fu l’unico a gioirne, finalmente un’altra donna si sarebbe sdraiata al fianco del padre, avrebbe infilato le pantofole e rassettato la casa. Le fotografie di lei sarebbero scomparse, come la sua piccola croce d’argento che aveva lasciato sul cassettone della camera da letto, prima di andarsene. Lei, che l’aveva odiata da viva, adesso entrava da padrona e io la lasciavo fare, vigliacco. Le permettevo di occupare i suoi spazi, riempire l’armadio e i ricordi dei suoi abiti, del suo odore, di nuovi ricordi, che preferivo ignorare.
Stai per partire per militare e io non riesco ad accettarlo. Sento che è un addio espresso con parole di circostanza. Vorrei abbracciarti ma non è d’uso tra di noi. Tieni la solita andatura e l’uniforme senza spavalderia. Siamo simili, sai? Vorrei dirtelo, ma so che non ti farebbe piacere. Di tutti i miei figli, tu sei quello che maggiormente mi somiglia e pure ti sento lontano. Un figlio perso nel momento stesso in cui mi sono ribellato; un istante, sufficiente a tua madre per decidere. Tu sei diventato solo suo: la sua scelta di fronte a Dio e a me, solamente sua. Per quel Dio che non esiste e per me che invece sono, tu resti un estraneo e io non posso nemmeno allungare un braccio e accarezzarti la spalla. Chini il capo per il bacio paterno e avverto le tue narici fiutare l’alcool, ma io non bevo più. Da anni ho smesso. Se tu mi conoscessi, lo sapresti. Ma tu ignori e resti impigliato nei ricordi di ragazzo. E io, nella mia materialità, nemmeno esisto di fronte alla tua mente…
Mi annodo la cravatta davanti allo specchio della camera da letto. Gli altri mi ricordano che è il giorno del mio matrimonio e devo affrettarmi. La parola mi suona estranea. Ho trascorso la notte girovagando come sempre, perso nelle riunioni politiche. Sono gli anni Settanta: crediamo di poter cambiare il mondo e io mi guardo allo specchio e devo concentrarmi per capire ciò che sto facendo. La mente scivola sul pensiero abbozzato. Non provo nulla. Per un attimo mi viene in mente lei. Mi chiedo, ridendo, se la mia ragazza le sarebbe piaciuta o se l’avrebbe fatta scappare come faceva con le bambine con le quali giocavo in cascina o facevo i compiti. Forse mi avrebbe rincorso per casa con lo strofinaccio brandito come un’arma urlando che sono troppo giovane e inesperto e che non so quello che faccio. Forse avrebbe ragione. Non so esattamente dove sto andando. Ma sembra tutto naturale, perfino dovuto, anche negli anni in cui pensiamo di poter cambiare il mondo: è tutto già scritto e io mi adeguo. Silenziosamente, come te.
*°*°*
Sono passati trent’anni. Alcuni sono morti o si sono sposati, altri hanno abbandonato il fiume e qualcuno ha cambiato casa o casacca, o moglie – come ho fatto io. A volte quando torno in cascina ti ricordo con le braccia stese fuori dalla finestra, irrorate di sole, tra le lenzuola fresche di bucato. A volte ti rivedo in sogno, sorridente mentre balli sulle assi di legno qualche sabato sera che la balera si fermava da noi. Altre volte, quando vesto mia figlia nei giorni di festa e lei salta sul letto alzando e abbassando le braccia felice di non andare a scuola, mi rivedo in te, quando m’infilavi la camicia bianca della domenica, col colletto inamidato che mi faceva il solletico, e nei suoi occhi intravedo pagliuzze verdi di un prato inondato di luce e finalmente so chi era il tuo desiderio, la tua giustificazione, il tuo domani.
A tua madre
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
venerdì, 24 dicembre 2021
In copertina: Foto di Hans Braxmeier da Pixabay.