Passiamo le feste natalizie a spasso nell’arte contemporanea
di Simona Maria Frigerio
Multidisciplinarietà, plurilinguismo, libertà di fruizione. Questi in breve i paradigmi di Atlas, il progetto espositivo della Torre della Fondazione Prada di Milano (nato dalla concomitanza di idee e vedute di Miuccia Prada e del critico d’arte recentemente scomparso, Germano Celant), dove è raccolta la collezione che accoglie opere realizzate tra il 1960 e il 2016.
Il consiglio è di iniziare dal nono piano, a cui si può accedere con l’ascensore panoramico (con musiche e recitativi di sottofondo), e da Carsten Höller con Gantebein Corridor e Upside Down Mushroom Room (entrambi del 2000), che trovano la loro maggiore ragion d’essere nell’esperienza complessiva – che unisce il labirinto immerso nel buio con la riscoperta della luce e del colore di una fantasia lisergica da ‘funghi’ allucinogeni o da Alice in Wonderland.
Nel successivo Blue Line di John Baldessari (1988), lo sfasamento percettivo si instaura nell’immagine registrata e proiettata, trasmessa dopo quasi un minuto dal passaggio del visitatore di fronte alla telecamera. Curiosamente (o forse ovviamente) le persone, più che dedicarsi all’osservazione della fotografia in mostra, si lasciano catturare dal gioco, ripassando più volte da una stanza all’altra per godere dei propri 15 minuti di celebrità.
La discesa inizia qui e si consiglia di effettuarla usando le scale, così da ammirare gli scorci metafisici di una Milano inaspettata, visibile dalle vetrate che scorrono lungo la parete esterna.
Perfetta la luce che ci accoglie all’ottavo piano dove è esposto Damien Hirst, con le sue teche che conservano la vita o, al contrario, la catturano/cristallizzano per studiarla. Se Tears for Everybody’s Looking at You, del 1997, ha in sé lo slancio vitalistico dell’acqua che scorre e i rimandi a Magritte e ai suoi omini sospesi con bombetta e ombrello; in A way of seeing, posteriore di tre anni, proviamo la sensazione di un’umanità che diventa essa stessa oggetto del nostro occhio indagatore, e che – seppure possiede la scienza – si trasforma in farfalla infilzata, in batterio sotto la lente del nostro microscopio.
Sulla parete di sinistra, ancora Damien Hirst, con The Last Judgment (2002), un enorme pannello ricoperto da mosche morte incollate su tela, che danno una duplice sensazione visiva ed emotiva. Da lontano sembra di trovarsi di fronte a una cascata di chicchi di caffè che invitano a un buon risveglio; da vicino, assale l’angoscia dello sterminio – che, in epoca di distruzione dell’habitat delle api, o pandemica, sembra quasi presago.
Prima di lasciare il piano, merita un colpo d’occhio la splendida vetrata che si affaccia su Milano e il suo skyline fortemente frammentato e irregolare.
Al quinto piano (il sesto e il settimo sono dedicati alla ristorazione e, al momento, chiusi – come pure lo è, purtroppo, la terrazza), troviamo le opere di due artisti quali Michael Heizer e Pino Pascali. Qui è soprattutto Confluence (alluminio, acqua e blu di metilene, 1967) di Pascali che dialoga con l’ambiente a doppia esposizione, i neon (intervento artificiale), il cielo (presenza naturale che, dall’esterno, si riflette attraverso gli ampi finestroni sulle superfici lucide stese a terra) ma anche con le opere appese di Heizer.
Scendendo al quarto piano, si nota nuovamente come l’architettura dialoghi con le opere. Ci accoglie lo spazio conchiuso – che rimanda inevitabilmente alle stanze di Louise Bourgeois o al ventre della balena o, ancora, alla conchiglia di madreperla – di Betye Saar, The Alpha & The Omega (2013), dove i vari assemblage restituiscono un’apnea serena sebbene suscitata da stimoli molto differenti tra loro (il lettino, ad esempio, può rimandare all’infanzia grazie ai palloncini ma, stranamente, anche al letto di contenzione psichiatrico per via delle sbarre). Mentre i messaggi fortemente politici di Goshka Macuga si godono con un rudimentale effetto 3D: “Democracy must be more than two wolves and a sheep voting on what to have for dinner”. Le figure mascherate e la fotografia composita di personaggi in posa, accostati come in un fotomontaggio, riescono a evidenziare, per contrasto, gli enunciati scritti trasmettendoli con una buona dose di ironia.
Al terzo piano, la Bel Air Trilogy di Walter De Maria (2000/2011). La prima, Triangle Rod, la seconda Square Rod e la terza Circle Rod, sono tre Chevrolet d’epoca (la Bel Air del ʻ55), in cui l’intervento artistico (non particolarmente originale) è l’inserimento di un palo sempre di forma diversa che attraversa ogni vettura infrangendone il parabrezza.
Al secondo piano, Jeff Koons con Tulips (1995/2004), dove l’acciaio inossidabile dipinto, ancora una volta, crea giochi di riflessi e coloristici, specchiandosi e rispecchiando l’ambiente che lo circonda – all’interno e all’esterno della Fondazione. Un flusso di energie che travalicano l’opera d’arte o l’intervento artistico e che rendono lo spazio della Fondazione in sé vibrante e giocosamente fruibile. Nel caso di Koons, la scelta materico-coloristica trova altresì corrispondenza nei lavori di Carla Accardi, fatti di trasparenze e plastiche colorate da anni 70.
A Fondazione Prada, poi, la permanente dialoga con mostre temporanee come avevamo già raccontato, quando visitammo Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori per Persinsala (https://artegrafica.persinsala.it/wes-anderson-e-juman-malouf-il-sarcofago-di-spitzmaus-e-altri-tesori/12108/).
Un viaggio che continua e che, con la riapertura dei musei, si spera continuerà.
Venerdì, 24 dicembre 2021
In copertina: Immagine del progetto ‘Atlas’ Torre – Fondazione Prada, Milano. Foto Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti. Courtesy Fondazione Prada. Carsten Höller, Upside Down Mushroom Room, 2000. Le immagini sono da intendersi esclusivamente per uso promozionale legato alla mostra e non con finalità commerciali. Non possono essere alterate in nessun modo senza preventiva autorizzazione del detentore dei diritti di copyright. Ogni riproduzione delle immagini deve essere accompagnata dalla didascalia completa e dal relativo copyright. Per qualsiasi informazione riguardante il loro utilizzo, contattare: press@fondazioneprada.org – T +39 02 56 66 26 34. (Foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Fondazione Prada).