10 anni fa: il 18 dicembre 2011 terminava l’invasione dell’Iraq da parte degli States
di Simona Maria Frigerio
Con questo articolo inauguriamo una sezione di InTheNet ‘per non dimenticare’. Vi inseriremo ricorrenze felici, come il centenario della nascita di un poeta quale Pier Paolo Pasolini (il 5 marzo 2022), ma anche la situazione attuale di conflitti non ancora risolti – e che si lasciano nel dimenticatoio perché non fanno più notizia, ma restano pur sempre ferite aperte che continuano a suppurare.
Il 20 marzo 2003, gli Stati Uniti – a capo di una coalizione di cui avrebbe fatto parte anche l’Italia per un certo periodo – invadevano l’Iraq per la seconda volta, adducendo la presenza di armi di distruzione di massa e un possibile accordo tra il governo iraqueno e al-Qāʿida. Entrambe queste accuse si sono poi dimostrate false o esagerate e manipolate dalla politica per convincere l’opinione pubblica ad appoggiare quella che fu, a tutti gli effetti, un’invasione di uno Stato sovrano.
La guerra, però, non fu il raid veloce e ‘indolore’ sul genere di Grenada. Sebbene già il 15 aprile 2003 la coalizione avesse conquistato tutte le principali città, gli States non si videro accolti col tappeto rosso. Considerati invasori, dopo aver suscitato una forte resistenza nella popolazione, si videro fronteggiati da gruppi armati sunniti e sciiti che diedero vita, prima, a una guerra di liberazione dalle truppe straniere e, poi, a una guerra civile (come accade frequentemente nei Paesi musulmani) tra fazioni religiose – che, a loro volta, erano e sono espressione di gruppi di potere.
In questo contesto gli statunitensi hanno espresso il meglio di sé con lo scandalo di Abu Ghraib. Forse in pochi se ne ricordano ma il governo, la Cia e i comandi militari statunitensi non hanno mai dovuto rispondere delle torture (che comprendevano anche stupri, scosse elettriche, waterboarding, privazione del sonno, umiliazioni e almeno un omicidio al quale è stato dato un nome e cognome, quello di Manadel al-Jamadi) commesse in quello che era stato il carcere dove Saddam Hussein deteneva i prigionieri politici fino al 2002 – quando li aveva fatti trasferire, mentre altri erano stati liberati a seguito di un’amnistia.
Nonostante le denunce di Amnesty International e Human Rights Watch, che accusarono i vertici militari statunitensi di sapere e, anzi, che le torture facessero parte di un piano più esteso – ricordiamo la pratica delle extraordinary rendition (ossia la cattura, deportazione e detenzione illegali – perpetrate, prima che dagli Stati Uniti durante la cosiddetta ‘guerra al terrore’, già da Israele nei confronti di ex nazisti e presunti terroristi) – tutto sommato gli States ne uscirono ‘puliti’.
Il Parlamento Europeo, nel 2007, si dimostrò come sempre teoricamente schierato ma praticamente inutile, quando approvò“a grande maggioranza la relazione della commissione d’inchiesta sui voli della Cia in Europa relativi alle extraordinary rendition” riconoscendole come“strumenti illegali utilizzati dagli Stati Uniti nella lotta al terrorismo”.
Solamente la Engility Holdings, società di contractor presente ad Abu Ghraib, è stata condannata a un risarcimento di 5,28 milioni di dollari nei confronti di 71 detenuti. I vertici militari, la Cia e il governo statunitense sono rimasti – penalmente e civilmente – impuniti.
Abu Ghraib nell’immaginario filmico: Essential Killing
A volte un film può risvegliare le coscienze perché l’arte ha questo potere quando rispecchia la realtà e con essa si confronta. Quando esce dalle pastoie dell’autoreferenzialità autorale, dalle carinerie per il pubblico che ama compiacersi con narrazioni edulcorate e divisioni manichee tra buon e cattivi – dove, ovviamente, l’Occidente è sempre lo sceriffo e tutti gli altri sono gli ‘indiani’.
Il regista polacco Jerzy Skolimowski nel 2010 gira Essential Killing con Vincent Gallo nel ruolo di un afghano che, prima, vaga tra i suoi altipiani brulli e, poi, catturato dai militari statunitensi, torturato e trasportato illegalmente in un Paese europeo letteralmente ghiacciato, cerca di salvarsi la vita fuggendo.
Non vi racconteremo la trama perché il film, a distanza di oltre dieci anni, mantiene tutta la sua veemente denuncia e potenza. Ma ciò che sconvolge, tuttora, guardandolo sono due fattori.
Il raffronto – di grande impatto visivo e psicologico – tra i terreni arsi dove si può muovere un afghano (ma pensiamo anche ai tanti migranti africani) e le vastità innevate europee. Il confronto serrato di un corpo contro una natura respingente e fredda (in ogni senso, reale e metaforico) ma anche nella quale si effonde, quasi misticamente, un’anima che cerca pace. E in secondo luogo, Skolimowski ha la capacità di calarci nella mente del protagonista, sebbene questi non pronunci mai una parola: sentiamo i suoi pensieri, la sua meraviglia di fronte a un mondo incomprensibile – che può essere incantato come la montagna innevata attraversata da un alce solitario, oppure crudele come quel respiro trattenuto mentre ci si nasconde in una grotta sperando che i militari non ci scoprano e il nostro respiro, implacabile, riempie l’aria e ci rivela. Un minimo rumore e noi dobbiamo uccidere. Uccidere per non essere uccisi.
Ovunque, però, resta possibile un’epifania. Ovunque un essere umano ci tenda la mano.
Julian Assange – rinchiudiamo la verità in carcere
Lo scandalo di Abu Ghraib scoppiò grazie alla stampa (sempre vituperata quando denuncia ma molto amata quando liscia il potente di turno). 60 minutes – celebre programma di inchieste della della CBS – mandò in onda un reportage nel quale si vedevano anche le foto postate dai militari statunitensi per gloriarsi delle torture che stavano infliggendo impunemente.
Assange è ancora detenuto perché ha osato, anche lui ,denunciare un’amministrazione che mente al suo popolo. Come può uno Stato definirsi democratico rivendicando il segreto militare? Nessun segreto può esistere laddove è il popolo a dover decidere perché solamente avendo in mano tutte le informazioni potrà farlo in coscienza.
Eppure gli statunitensi, dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 (ma anche prima…) avrebbero dovuto pretendere verità. Come la guerra in Iraq si reggeva sulla menzogna, così si è continuato a mentire agli statunitensi sull’Afghanistan. Julian Assange non ha fatto altro che rivelare una serie di crimini di guerra – dall’uccisione di civili operata dai militari statunitensi al doppio gioco del Pakistan (comprovato, se ce ne fosse stato bisogno, dal fatto che Osama Bin Laden si nascondeva vicino ad Abbottabad – in Pakistan, appunto).
Per non dimenticare, Collateral Murders:
Ma Julian Assange non è in carcere per colpa del potere politico – statunitense o inglese – bensì per colpa nostra, della società civile, che non vuole sapere, non vuole informarsi, preferisce crogiolarsi nella propria ignoranza o falsa saccenteria, abbandonarsi a guerre fasulle, a schieramenti manichei, trovando sempre un ‘nemico’ esterno per non guardarsi allo specchio e scoprire di essere noi il ‘nemico’. Ed è colpa di noi giornalisti, ai quali Assange dà fastidio perché ci dimostra cosa dovremmo essere – e non siamo.
venerdì, 17 dicembre 2021
In copertina: Nassiriya. Foto di Hussam Jaafar da Pixabay.