Un racconto al giorno…
di Simona Maria Frigerio
Le otto
«Questo non è il Paradiso, questo è il Paese dei Campanelli… dove i folletti mi parlano, e-io-vedo-l’inferno». Chiara smise di parlare e si alzò. Rimasi immobile a guardarla mentre si allontanava veloce verso la corsia. A volte, quando parla, io mi spavento.
Torno dietro al bancone del bar con un sorriso impiegatizio. Uno dei clienti esterni mi si avvicina circospetto. Ci sono giorni in cui mi chiedo perché vengano a bere il caffè qui dentro se hanno tanta paura… Chiara dice che li spinge una sorta di fascinazione meschina: è il morbido piacere di venire a contatto con la malattia nella consapevolezza di non poter essere contagiati, è la soddisfazione di sapersi sani appagata per un istante… Secondo me, sono i prezzi cosiddetti politici! Il tipo si guarda intorno e mi sorride con aria complice, c’è qualcosa di ebete nella sua faccia compiaciuta.
«Desidera?», gli chiedo professionale.
«Un caffè».
Lo vedo frugarsi in tasca preoccupato. Poi aggiunge, trafelato come dopo aver fatto una corsa: «Meglio un cappuccino. Ehm, lo sa fare un cappuccino, vero?»
«Sono al bar, io, non in corsia!», gli sventolo sotto il naso.
«Certo, certo…», si affretta a calmarmi, sorridendo spaventato. Forse teme che quelli che lo circondano abbiano sentito e, magari, uno di loro decida di saltargli alla gola prima che abbia terminato il cappuccino… Provo un attimo di intensa soddisfazione.
«Sa che era davvero buono?», bisbiglia condiscendente.
Mi sento superiore, gli porgo lo scontrino e torno al mio lavoro. “Dannazione!, non ho mica scelto io di lavorare nel bar di un ospedale psichiatrico. Sarebbe tutto più facile se gli esterni non sembrassero bambini in visita allo zoo!”
Mi volto di scatto: «E voi che volete?» Il tono è severo: non mi piacciono quei pazienti che ciondolano tutto il giorno intorno al bar guardando gli esterni e cercando di scroccare loro una sigaretta, oppure fingono indifferenza e poi, di soppiatto, afferrano una brioche dalla vetrina e scappano in giardino ridendo… Il furbo, come lo chiamo io, scuote la testa. Un altro, il vecchio, si stringe la vestaglia intorno alla gola con un gesto di stizzita formalità, si schiarisce la voce, alza il mento e si allontana con passo ciondolante, una mano nella tasca della vestaglia. Mi chiedo cosa nasconda. L’ultimo, il più giovane, la vittima, mi sorride teneramente in stile Cucciolo di Walt Disney, abbassa gli occhi fingendosi scioccato dalle mie accuse e intanto, di sottecchi, mira al pacchetto di sigarette dell’esterno appena entrato.
«Ciao Laura!»
«Ciao Marco!» Mi fa sempre piacere vederlo. Forse perché lui viene veramente per il succo d’arancia e la brioche.
«Siediti un po’ con me, stamattina… dai!»
Lo sguardo di Marco è più triste del solito.
Do un’occhiata attorno: il bar è abbastanza tranquillo. La vittima ciondola intorno al tavolo sorridendo. Io lo allontano con un gesto. Il furbo si è spostato in fondo alla sala nel tentativo di convincere una donna seduta di fronte alla finestra che sulla parete c’è una slot-machine e che è colpa mia se non ha le monetine per giocare e vincere. Credo stia cercando di estorcerle dei soldi per comprarsi le sigarette. In un altro momento correrei al tavolo per allontanarlo, ma la voce di Marco è talmente implorante, e l’esterna, una ragazza giovane con un basco pesantemente calato sugli occhi, non mi sembra affatto impressionata. Al contrario, si cala il berretto ancora di più sulla fronte e riprende a leggere come se niente fosse.
«Va bene!», sospiro. So già che mi toccherà sprecare la mia buona azione quotidiana con un esterno… ma a volte anche loro hanno dei problemi. Appoggio le mani sul tavolo e lentamente mi calo sulla sedia di legno. La sedia scricchiola dolcemente mentre mi appoggio allo schienale. Di riflesso, nei suoi occhialini da studente, vedo il mio sorriso allargarmi i lineamenti. Marco si passa le dita tra i capelli, poi abbassa la testa, si stringe il collo tra i polsi e sospira. Infine, alza di nuovo il capo e si mette a fissare, di fronte a sé, un punto imprecisato nel vuoto, un punto che vede solo lui. Io gli siedo alla sinistra e rimango in silenziosa attesa per qualche istante, cercando a mia volta di vedere quel punto, ma non ci riesco. Mi schiarisco la gola per attirare la sua attenzione. Marco sembra scuotersi finalmente, si gira dalla mia parte e sorride, un po’ ebete direi.
«Grazie di esserci.»
Scuoto il capo, un po’ compiaciuta un po’ perplessa, poi arrossisco imbarazzata. D’un tratto mi rendo conto di essermi concessa troppo e rientro nel ruolo: i malati hanno bisogno di me, non gli esterni: «Che c’è Marco?», la mia voce è distaccata.
«Ho deciso di andarmene.»
«E dove vorresti andare? »
«A Firenze. Mi hanno offerto un lavoro.»
«E tua madre?»
Marco mi guarda con aria interrogativa: «Pensavo che almeno tu…»
«No, non capisco.» Scuoto il capo violentemente e mi alzo: «Se hai preso una decisione, non hai certamente bisogno dei miei consigli e se invece stai cercando qualcuno a cui dare la colpa del tuo andare o del tuo restare hai sbagliato persona.»
Marco mi guarda sorpreso. Vedo la sua mente vagliare le frasi, sforzarsi di comprenderle, assimilandole lentamente come un vino pastoso tra i denti. Il suo sforzo è prodigioso. Alla fine annuisce e mi sorride: «Hai ragione. Comunque io parto». Marco torna a fissare quel punto nel vuoto che esiste solamente nella sua testa. Io cerco di vederlo, ma non ci riesco. Scuoto il capo una seconda volta e borbotto fra me. In fondo sto soffrendo per me stessa: Marco era un’altra abitudine piacevole della quale dovrò privarmi… Accidenti! Torno al bar e mi sforzo di non voltarmi più dalla sua parte. Lo sento, mentre gira le pagine del giornale senza leggerle e mi sembra di vederlo finire l’aranciata e passarsi delicatamente il tovagliolo sulle labbra troppo sottili. M’impongo di concentrarmi su altro, sul furbo, per esempio, che è tornato a importunare la ragazza col basco. Mi avvicino, appoggiando i pugni sui fianchi larghi: sento la carne morbida trattenersi nell’istante della decisione. Il furbo si volta dalla mia parte e capisce, senza bisogno di parole o gesti, e si allontana fingendo indifferenza. Mi volto un istante verso il tavolo di Marco: la vittima è riuscito a ottenere quello che voleva. Tiene in mano una sigaretta e un’altra gli pende, spenta, dal labbro inferiore. Sorride stralunato e mi guarda con aria di sfida. Noto che Marco sta alzando gli occhi nella mia direzione e mi giro di scatto.
«Grazie», la ragazza col basco sorride schietta gratitudine.
«Di nulla»: la mia voce mi sembra estranea, ha un suono metallico che non le riconosco. Mi sento addosso gli occhi di Marco e mi sforzo di continuare il discorso: «Cosa stai leggendo?»
«La Coscienza di Zeno.»
«Svevo? Vai ancora a scuola?»
Sorride: «Lo conosce?»
«Diciamo così… Ma non è che gli autori si conoscono, si leggono», preciso. Sono sempre stata sensibile alle parole. Poi mi rammento dove sono e perché ho deciso di conversare e continuo su una linea più conciliante: «L’ho studiato alle superiori. Io preferivo D’Annunzio, però!» e mi guardo intorno con aria di sfida.
«No, non vado più a scuola…»
I nostri discorsi seguono fili separati. Per un attimo ce ne accorgiamo e ci sorridiamo amichevolmente.
«Adesso è ora che vada.»
«Spero tornerai. Non è sempre così»: faccio cenno al furbo che, intanto, è rientrato nel bar insieme al vecchio.
La ragazza scuote il basco: «Non si preoccupi. Penso che tornerò: la brioche era buona e poi c’è una tale tranquillità qui…»
La guardo mentre si allontana, con la bella andatura sicura: vorrei passare la mia mano su quel giovane corpo e sentire il calore della sua pelle morbida e pastosa, seguirla là fuori e perdermi nel grigiore anonimo di Milano, con i polmoni che si riempiono di quel freddo novembre che sale al cervello come una fitta di vita. Ma la mia giornata è appena cominciata. Alzo le spalle e torno alla macchina dei caffè. Marco mi viene incontro con un sorriso: «Ecco i soldi».
«Grazie» e intanto cerco di non guardarlo.
«Grazie a te.»
Poi succede una cosa strana: Marco mi prende il mento tra le dita e mi avvicina al suo volto. Senza che me ne accorga, mi bacia, impercettibilmente, la guancia. Le ali di una fata svolazzano sulla peluria leggera della mia gota e il Paese dei Campanelli sorride. Poi lui esce e io mi guardo intorno imbarazzata: questo tipo di atteggiamenti non giova al mio ruolo. Non va bene che mi vedano così: come una donna.
Pomeriggio
Ogni tanto capita di soffermarmi a pensare al mio respiro. La mente si concentra e prende a seguire il ritmo monotono: inspiro-espiro-inspiro-espiro. Qualche volta lo trovo rilassante: estraniarmi dal bar e concentrarmi su me stessa. Ma più spesso mi chiedo che cosa farei se non riuscissi più a smettere di pensarci: eternamente ingabbiata in quel monotono-ritmico-succedersi. In quei momenti, quando la paura si affaccia alla mente e l’angoscia mi assale, mi sembra di impazzire. A volte succede quando sono a letto, da sola e al buio. In questi casi mi sforzo di addormentarmi, sperando nel sonno di dimenticare. A volte, però, sfuggire al suono del proprio respiro, all’ossessione del proprio corpo, sembra impossibile e allora, d’impulso, mi alzo a sedere e accendo la luce. La luce è tranquillizzante, nella luce sembra che il male scompaia, e torna il silenzio. Riapro gli occhi e mi alzo dalla sedia. Il furbo è entrato nello stanzone con l’aria di cercare qualcosa da fare o qualcuno con cui parlare. Se fosse un altro gli offrirei di aiutarmi a preparare gli aperitivi nelle brocche che mi serviranno tra poco, ma lo conosco troppo bene: già un paio di volte è scappato via con una bottiglia sottobraccio e in un’occasione ho rischiato di perdere il posto perché l’hanno trovato in giardino, ubriaco, mentre cercava di dirigere una sua orchestra immaginaria coi calzini al posto delle bacchette. A dire la verità io non l’ho visto, ma deve essere stata una scenetta divertente, con gli infermieri che lo rincorrevano e lui che sgattaiolava tra i cespugli fischiettando come il Pifferaio Magico.
«Cosa vuoi?», gli bofonchio dubbiosa.
«Niente… passavo di qua…» e ride, credendo di avere fatto una battuta spiritosa.
Mi rimetto dietro al bancone. La posizione mi rassicura: «E i tuoi amici dove sono finiti?», mi sento perfino in grado di fare un po’ di conversazione.
«Non so… Hai bisogno di aiuto?», sorride mellifluo.
«No», gli giro le spalle. Poi aggiungo per cortesia: «Grazie comunque.» Con la coda dell’occhio ho visto Chiara entrare nello stanzone. Si guarda intorno preoccupata: «Non è ancora arrivato nessuno?», esclama a voce alta.
«No, è troppo presto», faccio spallucce.
Chiara sospira sollievo e si siede vicino al bancone, su una sedia che tengo sempre libera per lei.
«Hai sentito della nuova?», mi chiede eccitata.
“Io mi faccio sempre i cavoli miei!”, le rispondo con una strizzata d’occhi. Lei mi rimprovera in silenzio: sono la sua valvola di sfogo, le devo almeno questo.
«No», grugnisco infastidita accettando il gioco.
«Sai cos’ha fatto?», domada retorica guardandosi intorno e atteggiando circospezione.
M’innervosisco: se non so nemmeno chi sia la nuova arrivata, come potrò mai sapere cos’ha fatto? Mi stringo nelle spalle e mi arrendo: ho capito le regole. «Dimmi…», le sorrido invitante.
«Si è spogliata nuda sul balcone di casa e ha cominciato a urlare contro il marito. Gliene ha dette di tutti i colori, finché i vicini non si sono infuriati e hanno chiamato la polizia – sai, era l’una di notte – e i poliziotti hanno fatto intervenire i pompieri, che sono dovuti salire a piedi fino al quarto piano e prenderla, caricarsela sulla barella e portarsela giù per tutti e quattro i piani.» Ride: «Ma l’hai vista? Peserà almeno duecento chili!» Non riesce quasi a parlare tra le risa: «E… e sai la cosa più buffa?». La domanda è ancora una volta retorica. Imperterrita continua: «Non ha voluto coprirsi nemmeno quando l’hanno fatta uscire dal palazzo e l’hanno caricata sull’ambulanza: urlava che lei era una donna bellissima e che si era buttata via per amore, ma che da ora in poi…», Chiara fa un gesto eloquente e mi guarda con aria complice, ma io non le do soddisfazione: «Tutto qui?»
Anna si alza di scatto: «Ma è possibile che tu debba essere sempre tanto professionale?» e l’ultima parola sulle sue labbra sembra un insulto. «Smettila con le tue arie da non-me-ne-frega-niente e fatti una bella risata ogni tanto!». Le sue mani si stringono intorno alla vita e le arricciano la gonna. Noto con disappunto le sue ginocchia troppo tornite. Continuo a fissarla con aria severa: la sua storia non mi ha divertita per niente. Credo che Chiara dovrebbe comportarsi un po’ meglio, essere più discreta o, almeno, fingere di provare un po’ di compassione. Scuoto il capo delusa. Chiara mi fa una smorfia con la bocca e se ne va via impettita, pronta a raccontare tutto daccapo alla prima che incontrerà in corsia. Me la vedo mentre ride nello stesso modo sguaiato, come se fosse quella la prima volta che ne parla e, in corsia, troverà certamente qualcuno disposto ad ascoltarla e a ridere con lei. Ora di stasera si sarà già scordata tutto e verrà a salutarmi alla chiusura del bar, come tutti i giorni, con lo stesso sguardo stanco. Non è successo niente.
Un’altra sera
Mi guardo intorno. Gli ultimi ritardatari si affollano intorno alle caraffe rimaste. Il furbo è andato a cenare con la vittima. Mi sento abulica, vorrei che se ne andassero via tutti. Vorrei aver finito anch’io, finalmente. La luce al neon si sta spegnendo. A intermittenza. È un flash – poi il buio. La testa comincia a farmi male. Un dolore sordo parte dalla nuca, mi circonda il capo e si serra sulla fronte. Sento una goccia di sudore colarmi lungo il seno. Lo stanzone è male illuminato e freddo, sempre più freddo. D’un tratto quel bagliore m’infastidisce, mi rendo conto che è un problema. La luce non mi ha mai dato fastidio, se rimango tranquilla passerà… ma ho paura, un senso opprimente di angoscia mi sale alla gola. Cerco di controllarmi. Mi ripeto che devo rimanere calma e che tutto andrà bene… Quando mi guardo intorno, noto che gli altri sono lontani, separati. Mi sento soffocare, il respiro si fa sempre più affannoso e, intanto, mentre la luce si spegne e si accende, il sudore aumenta – cerco di asciugarmi le ascelle sfregandole con le maniche della camicia. Un ronzio sordo si sovrappone alle voci, che si perdono nello stanzone semivuoto. Lentamente aumenta il mio senso di solitudine e il nulla si fa spazio – mi gira la testa, mi chiedo: “Perché sono qui, in piedi, a servire ascoltare fingere… per quale ragione ci sono?” Non vi è una ragione. Non ho risposte. Sento di non avere più risposte. L’angoscia mi è in gola, stringe, soffoca e intorno a me è silenzio. Solo la mia mente esiste. E la mia mente si domanda: “Perché penso? Perché me ne rimango qui, immobile, a lasciare che la luce mi rubi i pensieri? Perché non scappo via, urlando la mia disperazione al silenzio? Perché mi lascio intrappolare da quei corpi estranei che non mi appartengono e non capiscono e mi guardano chiedendo altra birra mentre ridono tra loro? Perché non posso afferrarli, strapparmi la pelle di dosso e sapere? Ma sapere cosa?” E intanto la testa martella: “Perché non spengono quella luce?” Ho paura. A volte temo d’impazzire. Ma cos’è impazzire? Cosa significa realmente? Perdere quest’equilibrio precario di finzione quotidiana e urlare… urlare il proprio dolore. Ma perché mi fa tanto male? Perché questa angoscia mi squarcia come carta bruciata? Una sigaretta mi apre un buco nello sterno e io ci guardo attraverso chiedendomi: “Perché?”
«Sta bene?»
La voce della ragazza col basco mi giunge attutita, lontana come se mi parlasse dall’estremità di un tubo.
Vorrei piangere, vorrei appoggiare il mio capo sulla sua spalla e stringerla e, sentendo il suo calore, addormentarmi tra le lacrime. Per un attimo un grido soffocato si fa largo tra le mie labbra, che restano mute.
«Vuole sedersi?», la ragazza passa dietro al bancone e mi prende per un braccio. Ha un’espressione preoccupata, ma non sembra avere paura. Pare piuttosto interessata, come se una mano lacerasse l’ovatta e mi afferrasse, cercando di trattenermi. Intuisco, sorpresa, che a lei importa, che mi sta lanciando una tavoletta di legno e spera che l’afferri. E io mi sforzo e mi dibatto in quel tentativo abortito di galleggiare nella consapevolezza. Ma lo spazio che ci separa è troppo profondo e la sua voce non riesce più a raggiungermi. È il buio. Per un attimo sembra sia calata la notte. Poi il Paese dei Campanelli s’illumina come un fuoco fatuo nel mio cervello e l’occhio inconscio la rivede, in fondo a un cono: piccola figurina sterile che urla e gesticola cercando di attirare l’attenzione. Ma io so cosa sta facendo: sta cercando di liberarsi di me. Vuole che arrivi qualcuno e che la sgravi di questo mio peso, di questo corpo ingombrante che la sta soffocando. Sento la sua carne molle cedere sotto i miei polpastrelli che delicatamente la stringono e poi si fanno tenaglie mentre il suo fiato, tiepido, mi riscalda il volto. Poi è di nuovo il vuoto. Il silenzio. Il buio.
«Come stai? Mi sa che ti sei affaticata troppo o hai avuto un brutto calo di pressione», Chiara mi sorride dall’alto: una luce abbagliante le circonda il capo. Mi sento sospesa a mezz’aria e, allo stesso tempo, con le spalle inchiodate al terreno. Non riesco a muovermi. La testa è talmente pesante che mi trascina all’indietro e io scivolo dolcemente nel sogno, mentre Chiara mi tiene la mano e con delicatezza mi accarezza la fronte. Adesso va tutto bene. Tutto è al suo posto.
«Mi piace starmene qui fuori quando scende la notte. Amo l’aria che mi fruga i polmoni e, finito il suo giro, scivola fuori come una nuvola calda», la mia voce risuona da lontananze ataviche.
Chiara sorride: «Anche a me.» Poi mi prende la mano tra le sue e me la sfrega energicamente: «Ma non è meglio d’estate?»
La osservo severa.
«Dai… scherzavo!» e mi sorride di nuovo. Vedo il suo corpo magrolino rabbrividire sotto il camice bianco e lei, che se ne accorge, si avvicina la mia mano al petto e intanto si stringe ancor più nel golfino di lana infeltrita.
Mi metto a sedere abbandonando le sue ginocchia. La testa si è schiarita del tutto. Le cingo le spalle con l’altro braccio e torniamo a guardare il giardino di notte. È bello sedere qui, sui gradini di marmo che lentamente si scaldano sotto i nostri corpi, mentre l’aria si fa più leggera e scompare come il freddo nella notte, e la notte nel buio precoce di novembre: «Sai che mi sento proprio bene?»
«Sono contenta» e annuisce, poi torna a fissare di fronte a sé un punto che io non vedo ma so che per lei esiste. Spesso spazi impensabili per me si aprono di fronte agli altri, ma io non riesco mai a vedere il pertugio per arrivarci: «Perché?»
Chiara si scuote dal suo torpore e si volta a guardarmi stupita. Poi, inaspettatamente, coglie la mia domanda sulla punta delle labbra, senza bisogno di spiegazioni e mi porge la risposta dalla punta delle dita che scivolano lungo la mia bocca semiaperta: «Dov’è il Paese dei Campanelli?»
La guardo incredula. A volte penso che sia lei ad avere bisogno di me e non viceversa. Scuoto il capo con aria di sufficienza. Lei mi sorride. Mi spazientisco e ritraggo la mano. Nascondo le dita sotto le ascelle e assumo un’aria corrucciata. Lei non mi prende mai sul serio. Nemmeno quando sto male, quando cerco di capire o le chiedo aiuto, silenziosamente, disperatamente, come adesso: la odio – con la ferocia egoistica di un bambino tradito. Chiara sospira e muove il capo in senso affermativo, come se leggesse nella mia mente. Un aereo sale all’orizzonte e noi lo seguiamo con lo sguardo mentre si allontana. Anche lei sta pensando che vorrebbe essere su quell’aereo e allontanarsi da qui, da Milano, da novembre, dalla nebbia che ti entra nelle ossa, e scivola tra le pieghe della mente fino a rendere opaco ogni tuo pensiero. Anche lei vorrebbe essere libera, libera da… chi? Mi avvicino e le accarezzo la piega accanto al labbro fino a sfiorare la piccola cicatrice che le taglia il mento in verticale. Tutte noi abbiamo le nostre cicatrici o non saremmo qui dentro… Chiara si riscuote allontanandosi, e ripete ancora una volta: «Sai dov’è il Paese dei Campanelli?» E, d’un tratto, nel vuoto della notte che ci allontana, nel silenzio che condividiamo, mi torna in mente la serata trascorsa: la musica, il ballo, la testa che mi girava mentre gli esterni suonavano strumenti a fiato e battevano le mani a tempo e anch’io batto le mani e giro su me stessa e rido, finalmente felice: perché, tra manicomio e inferno, adesso so.
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
venerdì, 10 dicembre 2021
In copertina: Foto di Analogicus da Pixabay.
Nel pezzo: Foto di Sbarbara da Pixabay.