Tanti dubbi e poche certezze
di Simona Maria Frigerio
Genova, venerdì 12 novembre. Serata mite, anche se si attende un peggioramento per il sabato. Sampierdarena mi accoglie con la sua mezcla etnica e il susseguirsi di ortofrutte che espongono praticamente sui marciapiedi, come in Oriente, cassette di pomodori rossi come le labbra di Biancaneve e mandarini piccoli come il pugno di un neonato, che sanno del Natale di una volta – quando se ne distribuivano le bucce sui caloriferi per profumare la casa.
Qui sorge la Sala Mercato, dove vent’anni fa la Compagnia del Teatro dell’Archivolto trasformava in palcoscenico un ex mercato comunale, aperto nel 1905 – e che oggi è uno tra i palcoscenici del Nazionale di Genova. L’ultima volta che ci venimmo era il 2019, per il debutto di The Global City di Instabili Vaganti – poi l’infoedemia del Covid azzerò cultura e arti per salvare la produzione di spazzatura industriale.
Nella piazzetta antistante, dedicata a Gustavo Modena – uno tra i maggiori riformatori del teatro italiano dell’Ottocento, mazziniano e rivoluzionario – con gli sparuti alberi spelacchiati, incontriamo Imre Thormann e Pierre Lassailly, appena arrivati dalla Provenza: The False David andrà in scena domani a Palazzo Ducale. Nel frattempo lo spazio di fronte alla Sala Mercato comincia a brulicare di vita – spettatori, critici e artisti che si ritrovano dopo due anni dall’ultima edizione del Festival dal vivo (organizzato da Teatro Akropolis). Non è solo il teatro a rianimarsi ma un intero quartiere, popolare e periferico, che la Genova ‘bene’, se non fosse per questi appuntamenti, probabilmente eviterebbe di frequentare. Uno di quei quartieri che, alla chiusura di negozi improbabili – come la boutique da sposa bianca di trine e paillette, e piccoli supermercati simili a magazzini aperti all’andirivieni del suq – asfissia e muore. Mi guardo intorno e scorgo gli ultimi passanti che si affrettano verso casa, circondata da voci provenienti da tutto il mondo che si fondono in un brusio indistinto disperso tra telefonini e chiacchiere scambiate sull’uscio o davanti alla saracinesca che si sta abbassando, qualche passante accompagna il cane per la passeggiata serale, la fila fuori dai parrucchieri (è venerdì sera e gli orientali hanno il culto dei capelli) si assottiglia, e i baretti germogliano tavolini di plastica sui marciapiedi, dove si parcheggiano vecchi col bicchiere di plastica traboccante di birra annacquata, mentre un gruppetto di ragazzi addenta arancini e kebab.
Alle 20.30 si accendono finalmente i riflettori su Paola Bianchi che presenta, in prima nazionale, O_N. La guardo muoversi su un cerchio/palco delimitato da un cono di luce. Suoni angoscianti accompagnano una serie di gesti nello spazio – sincopati e introversi. La frontalità dello spettatore, lo priva della visione del corpo in uno spazio orizzontale schiacciato a terra. Volontà o limite? Ma poi: siamo davvero ‘di fronte’ alla distruzione dell’immagine annunciata a inizio performance, oppure a un ripiegamento di un corpo che solo parzialmente può identificarsi con il proprio riflesso – a sua volta effigie o apparenza? Mentre il pensiero scivola in rivoli filosofici mi rendo conto di non provare nulla. Questa azione (iconoclasta?) non mi tocca empaticamente né risveglia sussulti rivoluzionari – magari contro un’immagine mainstream o patinata. Dov’è quel gesto significante che dovrebbe restituire un significato (Pina Bausch docet)? Non si raggiunge alcun climax, dato che dopo una decina di minuti il cono di luce si concentra sulla mano, mentre Bianchi pare mettere in scena l’ultimo tentativo del corpo di ribellarsi a un ripiegamento faticoso su se stesso. Al contrario, il corpo torna a sussultare. Perché? Troppe domande, poche certezze, nessuna emozione.
Mi assalgono le stesse considerazioni che susciterà, il sabato, il video con il testamento artistico di Masaki Iwana, che avevamo applaudito a Testimonianze Ricerca Azioni nel 2018, con Vie de Ladyboy Ivan Ilitch. Allora Luciano Uggè scriveva: “Masaki Iwana mette in scena la scoperta del proprio corpo: il maschile e il femminile si incontrano, così come l’avvenenza della gioventù e la devastazione della vecchiaia. Il vissuto è intensamente descritto, l’autoerotismo e la ricerca spasmodica della bellezza, gli amori che lasciano il posto allo smarrimento, l’incredulità di fronte al chiudersi del ciclo vitale, senza possibilità di ritorno”. Il video proiettato durante l’incontro intitolato Fondazioni e filiazioni. La trasmissione del butō tra le pratiche e gli studi (a cura di Samantha Marenzi) mostra frammenti di performance firmate da allievi di Iwana che paiono copie sbiadite delle forme del Maestro: crisalidi prive di farfalle; immagini come riflessi, vuote di consistenza corporea ed emozionale. Manca quella forte concettualizzazione che si esprime in gesti, movimenti e pause tanto precisi quanto pregni di senso. Manca l’interpretazione, che dovrebbe essere scoperta intima e sofferta (nel Metodo di Stanislavsij come nel butō di Iwana) di un performer che, prima di muovere un muscolo, fare un gesto o assumere un’espressione necessita di trovare in sé un equilibrio tra personificazione e revivescenza.
Ma torniamo a venerdì e alla Sala Mercato. In seconda serata, va in scena Città di Ebla con Semmelweis. A Orizzonti Verticali, nel 2020, avevamo già assistito a una restituzione scenica del medesimo testo, allora con Sergio Basile a interpretare Il Dottor Semmelweis – per chi non lo sapesse, uno tra i primi medici a connettere le morti premature (delle puerpere) con le infezioni (batteriche o virali). A pochi mesi dalle immagini di Barbara D’Urso che insegnava in tv a lavarsi le mani – appartenenti a quel cortocircuito della ragione che è stata l’infoedemia da coronavirus – quella performance, agita a San Gimignano, era ovviamente più impattante. Riviverla stasera, nonostante i tagli puntuali di un testo che scorre meglio rispetto a quello ascoltato nel reading di un anno fa, non è la stessa cosa. L’angoscia non scatta e, al contrario, ci si domanda perché Marco Foschi utilizzi il microfono; perché entri in una specie di cabina di regia posizionata in scena; perché ci siano due figure silenziose – che rimandano ambiguamente a guardie armate di un lager – ai lati della stessa; perché il performer prima legga il testo e, poi, continuando a usare la terza persona, paia volerlo interpretare in prima persona (mentre il dottore che precorse i tempi e, per questo, impazzì si approssima alla morte). Ancora dubbi.
Genova, sabato 13 novembre. La città pare sfregiata da un cielo plumbeo. La nebbia cela le colline butterate dalla miriade di finestre che scandiscono il ritmo dei palazzi abbarbicati come in un presepe laico – quasi in ritirata e fuga da quel porto dove sono attraccati tre grattacieli del mare pronti ad accogliere il turismo di massa dei croceristi.
Palazzo Ducale gronda acqua e l’umidità pare frugare, come dita invadenti, scale e saloni. Dopo la visita allo spazio recentemente inaugurato e dedicato a Lele Luzzati (di cui scriveremo il prossimo 10 dicembre) e aver assistito al convegno sul butō con Marenzi, Katja Centonzi e altri ospiti/relatori (di cui sopra), alle 18.30, nella Sala del Maggior Consiglio, Alessandra Cristiani performa Nucleo – da Francis Bacon (nel 2019, sempre a Testimonianze Ricerca Azioni, aveva presentato Corpus delicti, ispirato all’arte di Egon Schiele).
Ma riavvolgiamo il nastro, almeno fino al 2014, quando debutta Caro George di Antonio Latella con Giovanni Franzoni. Ricordo ancora il torrente emozionale di pensieri in libertà che mi travolse, lo srotolarsi pindarico di quel tappeto immaginifico e sonoro composto da Federico Bellini e, poi – quando la vita ammutolisce di fronte al suo rifiuto – Franzoni che “si siede sotto una lampadina ed è immediatamente riconoscibile l’Autoritratto (dal Trittico del ʻ73); si alza per spargere vino intorno al proprio spazio vitale, e la mente va a quelle figure geometriche nelle quali Bacon conchiude i suoi personaggi straziati e muti; si contorce nell’agonia prima della morte di George Dyer e rimanda inevitabilmente al Ritratto postumo di George Dyer (sempre nel Trittico del ʻ73), al pannello centrale di Tre studi per una Crocifissione (del ʻ62), e ai pannelli laterali di Tre studi di figure su letti del ʻ72 (e a molti altri). Tableaux vivants in grado di restituirci l’immaginario pittorico di Bacon, ma anche la storia visceralmente tragica di un uomo che perde l’amante e, contemporaneamente, la solitudine dell’amato costretto all’ombra e al silenzio” (dalla recensione che scrissi allora). Nessuna posa. Quelle figure non scaturivano dal calcolo ma da una profonda immedesimazione che si faceva carne: un’autentica transustanziazione laica.
Sono nuovamente a Palazzo Ducale. D’un tratto un tuono rompe il silenzio che fa da sottofondo muto alla prima parte dell’esibizione di Alessandra Cristiani. Colgo i rimandi ma mi accorgo di farlo freddamente – da storico delle arti. All’inizio, più che ai tormentati volti di Bacon, mi pare di trovarmi di fronte alla rossa Gilda che si sfila il guanto – ma senza alcuna ironia. Poi afferro Lying Figure N. 1 (1959) quando Cristiani si rovescia all’indietro sulla scalinata di marmo; il bicchiere di vino spillato (notorio l’alcolismo del Maestro); Oedipus and the Sphinx after Ingres (1983) che, al posto del piede, vede un ginocchio fasciato; e altre immagini – come lo studio per il Ritratto di Henrietta Moraes su fondo rosso (1964) in quell’esercizio su tavola di legno. E qui la mente si ferma per contemplare la parola: esercizio. Quello mnemonico da storico dell’arte, il mio; quello dell’atleta che si contorce a terra, di Cristiani. Fisso lo schermo enorme che fa da sfondo all’esibizione e ricordo l’insegnamento di Hitchcock: nessun oggetto inquadrato, in quanto significante, dovrebbe essere estraneo all’economia della narrazione – altrimenti è orpello. Un rimando alla tela bianca? Ma Bacon è il Maestro del colore. Più che altro, paravento dietro al quale Cristiani si spoglia. Errore semantico che spesso occorre in teatro: riempire la scena invece di svuotarla. Sovraccaricare di segni. Evoluzioni sulla balaustra (déjà-vu Schiele). “Perché a un certo punto Cristiani indossa uno slip nero?”, mi domando. In Oedipus il personaggio indossa una canotta bianca. Immagini esteriori sfilano tra dimostrazioni di prestanza atletica. Come per gli allievi di Masaki Iwana, ancora una volta l’immagine riflessa è vuota crisalide. La farfalla batte le ali altrove.
Pausa.
Silenzio (quello stesso che dovrebbe chiudere ogni performance di butō perché anche l’applauso è spettacolo).
Il pifferaio magico di una fiaba orientale ci invita a seguire la favola che sarà narrata: si fa silenzio nella Sala del Minor Consiglio.
Il chela, il santo, Padre Sergio di Tolstoj o l’everyman entra, aprendosi la via sbattendo contro il portale come mistico in chiesa, come neonato nell’utero. Il monaco buddhista ha sempre poco con sé, una ciotola e la corda che gli cinge i fianchi: è la rete del pescatore d’uomini/d’anime quella che lancia? Il rimando cristologico torna e mi rimanda all’immagine successiva, che si tramuta in quel Pasolini immolato sull’altare della verità, l’anti-eroe per eccellenza del comunismo bigotto italiano degli anni 70, colui che denunciava la dittatura dei giusti, prima di giacere lapidato nella fogna a cielo aperto di un’Italia putrida e marcescente. Scrivo queste parole ricordando l’emozione lancinante provata ieri sera di fronte a un uomo nudo che si concede al contatto, corpo a corpo, tra performer e spettatore – mentre, in sottofondo, sento la voce elaborata al computer di Trenitalia che conculca il comportamento corretto in questa nuova dittatura dei giusti e dei san(t)i.
Mi stacco dal qui e ora per riafferrare il bandolo della matassa, di quella vita che il mistico contempla e l’anti-eroe vorrebbe abbandonare dietro di sé – finalmente libero da doveri e fardelli. “Tu lascia solo impronte nella sabbia, che si cancellino con l’alta marea”, recitava un murale sull’isola di Tao anni fa. Ma si può essere liberi privandosi dell’altro da sé?
Mentre Thormann stringe il suo saio – come Linus con la sua copertina – provo quel tuffo al cuore che ho sentito quando un altro anti-eroe, il Che romantico – come tutti i rivoluzionari – reale, o sublimato empaticamente da Soderbergh, che non crede in dio bensì nell’uomo, e sa di poter perdere, ricorda che “chi non lotta, ha già perso”. Eppure Davide non sconfiggerà mai Golia. Il capitalismo che ti impone orari e regole, di svendere la tua vita in cambio dell’illusione della sicurezza, ti convince anche che appartenere e conformarti al sistema sia l’unico mondo possibile.
Per un attimo l’uomo s’illude di potersi far passero – ma il volo è breve. La ferinità intrinseca porta a sbranarci. Il primate non ha ancora scoperto il monolite di 2001: Odissea nello spazio – s’impone o soccombe. E allora occorre che Sisifo si carichi del peso del mondo, di questa umanità che sbatte come falena contro pareti che paiono non esserci, perché di vetro trasparente, ma che resistono a ogni sforzo, spegnendo l’ultimo battito d’ali. Il soffitto di Marilyn Loden sarà anche di cristallo ma non per questo riusciamo a infrangerlo.
Come rinunciare all’umanità senza rinunciare al proprio essere umani?
Il pifferaio che si allontana è quello di Hamelin (dei fratelli Grimm). E noi, come sorci, lo seguiamo verso il baratro. Provo la sensazione di avere trattenuto il fiato per 50 minuti e, adesso, tornando a respirare mi sento viva come non mi accadeva da secoli. Antonin Artaud teorizzava che il teatro, come la peste, si appelli “a forze che riportano con l’esempio lo spirito alla fonte dei suoi conflitti”. Il teatro è rivelazione perché spinge “gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia”. Imre Thormann realizza, in scena, in un dialogo serrato e puntuale con il pifferaio Pierre Lassailly, quelle teorie – trasformate in una narrazione che non ha bisogno di parole perché si inscrive e s’incide (senza nemmeno l’orpello del sangue finto) nei corpi – nel contatto empatico e rivoluzionario dei corpi che s’incontrano.
Perché il potere politico teme la piazza e il teatro? Perché uomini e donne che manifestano, che condividono un’esperienza estetica o ideale in uno spazio fisico reale, possono sovvertire lo status quo con la forza della bellezza. Thormann attua una rivoluzione silenziosa con la forza della dolcezza.
Il resto è silenzio.
Testimonianze Ricerca Azioni
XII edizione
ideazione e organizzazione Teatro Akropolis
Genova, varie location
venerdì 12 novembre 2021, ore 20.30
Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova
piazza Gustavo Modena, 3
Paola Bianchi presenta:
O_N
(25 minuti, prima nazionale)
a seguire:
Città di Ebla presenta:
Semmelweis
Creazione scenica liberamente ispirata a Il dottor Semmelweis di L. F.
Céline
con Marco Foschi
(50 minuti, prima assoluta)
sabato 13 novembre 2021, ore 16.00
Palazzo Ducale
piazza Matteotti, 1
Sala Liguria
Fondazioni e filiazioni. La trasmissione del butō tra le pratiche e gli studi
a cura di Samantha Marenzi
ore 18.30
Sala del Maggior Consiglio
Alessandra Cristiani in:
Nucleo – da Francis Bacon
(50 minuti, danza butō, prima assoluta)
ore 20.30
Sala del Minor Consiglio
Imre Thormann in:
The False David
clarinetto Pierre Lassailly
(50 minuti, danza butō, prima nazionale)
Venerdì, 3 dicembre 2021
In copertina: Imre Thormann in The False David. Foto di Piotr Nykowski gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di teatro Akropolis.