Memorie del sottosuolo da Fëdor Dostoevskij, di Marcido Marcidorjs & Famosa Mimosa con Paolo Oricco
di Anna Maria Monteverdi
Quest’anno sono i 200 anni dalla nascita di Fëdor Dostoevskij e nuove traduzioni e nuovi volumi ne celebrano il genio: in effetti mai autore è stato più vicino e affine alla nostra condizione contemporanea di isolati forzati in costante stato di esaltazione (dovuta ai social); in questo periodo, in cui i teatri hanno riaperto ma con un sentiment tranquillizzante, quasi soporifero per il pubblico, arriva sul palcoscenico del Teatro Gobetti di Torino Memorie del sottosuolo dei Marcido che, al contrario, mette in mostra le pulsioni distruttive di un personaggio – e forse un po’ anche le nostre – (ri)connettendoci con la forza vivificante del teatro. Con Paolo Oricco come straordinario unico interprete, complice la riscrittura tagliente di Isidori e la mirabile scenografia-affresco della Dal Cin, il teatro mostra le nostre aberrazioni più profonde.
Prima di parlare dello spettacolo vale la pena ricordare che l’autore russo scriveva sì dei romanzi giganteschi ma, come notava in un articolo lo studioso Damiano Rebecchini, docente di Letteratura russa all’Università degli Studi di Milano, nulla in confronto alla saga di Twilight tanto amata dai giovani; e, soprattutto, ha sempre obbligato il lettore al confronto con i suoi numerosi doppi molto prima di Freud, immergendolo in quella ʻpolifonia’ di voci di cui parla Bachtin nel saggio più famoso dedicato al grande scrittore russo. Dal punto di vista letterario Memorie del sottosuolo del 1864 è stato salutato come un’anticipazione dei capolavori della maturità (Delitto e castigo, I fratelli Karamazov) e viene paragonato a un grande affresco impressionista e opera emblematica di quello scandaglio dell’animo umano di cui fu indiscusso maestro anticipando i grandi romanzieri europei. Scendendo nel sottosuolo il non ben identificato personaggio, malato e ossessivo, intriso di rancore sociale, autoesclusosi da tutti, non trova nell’isolamento la fine del suo odio verso il mondo e l’umanità intera, né una dimensione pacificata con se stesso: al contrario, questo scavo nell’inconscio che ancora non si potrebbe chiamare così, non gli permette di vedere meglio la sua condizione ma gli produce anzi, un senso di insana gratificazione dall’essere superiore anche solo di qualche gradino, a qualcun altro. La storia è un convulso e delirante susseguirsi di accadimenti interiori ricchi di tensioni vendicative, pensieri balordi, animosi, conditi di sadismo e masochismo insieme, più che un vero male di vivere, un’angoscia dell’esistenza.
Uno spettacolo semplicemente magnifico, che lascia senza fiato, un’interpretazione quella di Paolo Oricco a dir poco sorprendente, degna sicuramente di una candidatura agli Ubu, senza sbavature, perfetta che dà corpo, volto e soprattutto voce a una (ri)lettura di Marco Isidori che parla molto di noi, oggi, ficcati a forza o calati spontaneamente in un buio sociale a tempo indeterminato. Il personaggio racconta di un sottosuolo metaforico, rifugio e abisso inesplorato insieme, il cui scavo o immersione non è facile, né privo di pericoli, perché non si sa cosa è nascosto lì sotto. Diabolico e invasato nel suo irrefrenabile racconto-fiume, il personaggio interpretato magistralmente da Oricco incarna le inquietudini di un mondo (e un vuoto) a perdere.
È una memoria del sottosuolo anche la nota di Marco Isidori allegata al programma di sala: Isidori, l’abile giocoliere delle parole, l’artefice di un teatro tosto e ʻdosto’ (come dice lui stesso), che ci consegna tra le mani una creatura venuta ʻsu da giù’, malata e maligna come dice Dosto. Un’incarnazione diabolica, rabbiosa, un noi stessi a rovescio, un inciampo di individuo, una di quelle figure venute fuori dal Trionfo della morte o da un affresco boschiano come quello davanti al quale l’attore recita. Il ʻDisegno’ del sipario, il Trionfo della Morte (ispirato al quattrocentesco dipinto palermitano) dice Isidori: “ci presenta con la nettezza caricata della grafia potente della Daniela Dal Cin una ʻschermata’ veritiera del contemporaneo girone a vuoto, tutto pneumatico, dell’infernale valzer del comunicato”.
Ancora una volta, come tutte le scenografie della Dal Cin, le scene sono parte integrante dell’attore, una sua stampella, ma lo sono anche della storia, della scrittura, della parola, della visione, dell’immaginazione. Operazione teatrale completa e complessa, tagliente e profonda, semplicemente perfetta a cui non eravamo più abituati.
venerdì, 3 dicembre 2021
In copertina: Una scena di Memorie del sottosuolo.