L’Aids al tempo del colera
di Simona Maria Frigerio
La sieropositività come parola che non si può pronunciare. La sua condizione come processo di deterioramento che lentamente conduce alla morte la quale, come negazione della vita, risulta irrapresentabile. La tragedia non si chiude forse sull’addio?: “Buona notte dolce principe e voli d’angelo ti guidino”. Il teatro negherebbe se stesso se rifuggisse l’azione. Occorrerebbe pronunciare ‘quella’ frase per spiegare e spiegarsi ma il teatro di Jean-Luc Legarce risolve ciò che si sarebbe dovuto o voluto confessare in un continuo deviare il discorso, sfuggendo a se stessi e alla propria inaccettabile realtà: la diversione come tecnica per non affermare la negazione. Nulla esiste nel mondo se non è pronunciato. E d’altronde, come scriveva Virginia Woolf, “Dicendole, non si rovinano forse le cose?”
In Juste la fin du monde questo continuo scacco della parola così come dell’azione – in uno spazio insieme reale e astratto perché potrebbe essere il vuoto beckettiano come il paese natale che non è mai esistito se non nelle nostre fantasie a occhi aperti – e l’inadeguatezza della comunicazione diventano paradigma dell’inadeguatezza dell’essere umano tout-court. Sempre perdente Louis/Lagarce anche quando il suo linguaggio esatto e forbito avrebbe la possibilità di esprimere tutto lo scibile umano – eppure afono di fronte alla sua propria sconfitta.
Lagarce ci lascia nel 1995, a causa dell’Aids. Il suo gioiello, Giusto la fine del mondo (nella traduzione di Franco Quadri), che ha debuttato poco prima dello scoppio della pandemia di Covid-19 e che tornerà in scena a gennaio 2022, al Metastasio di Prato, resta pendant di un mondo che aveva trasformato un virus in un marchio d’infamia. Eppure in quel mondo si erano vinte importanti battaglie come l’anonimato per chi si sottoponeva al test e, di conseguenza, il diritto al lavoro di positivi e malati. Rivederlo oggi potrebbe porci nuovi dubbi: cosa sarebbe successo a un sieropositivo ai tempi del green pass? Chi gli avrebbe dato lavoro, sapendo che si sarebbe potuto ammalare a breve? E chi l’avrebbe operato temendo di infettarsi con uno schizzo di sangue?
In quegli anni anche un altro drammaturgo francese (sebbene d’adozione) moriva di Aids. Era il 1987, e lui Raúl Damonte Botana, in arte Copi, argentino di nascita – ‘folle’, geniale, delirante en travesti. Fumettista prima ancora che autore teatrale. Ricordiamo in particolare uno spettacolo, targato 2011, che si rifaceva alle sue coloratissime vignette, Ladonnaseduta. Come scrivevamo allora, l’adattamento di Claudio Orlandini trasformava “la sua cellulosa in carne e sangue” e, sul palco del Teatro Leonardo, l’eccentrica anti-eroina camp incontrava: “il pollo, il topo, la lumaca, la bambina, e tutti quei personaggi borderline (nel senso più sano e autenticamente folle del termine) che il tratto di Copi rendeva altrettanto vivi e reali nelle sue strisce”.
A differenza di Lagarce, Copi esorcizza la morte divagando con allegra tristezza, amplificando il nonsense dell’esistenza con pause abissali, “in cerca di sensi altri e appigli in un universo senza più perché”. Il riso come arma diabolica. Perché, come insegnava Jorge da Burgos in Il nome della rosa: “Il riso distoglie, per alcuni istanti, il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura, il cui nome vero è timor di Dio. E da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio: e il riso si disegnerebbe come l’arte nuova, ignota persino a Prometeo, per annullare la paura”.
A noi piace ricordare Copi nei panni della sua Loretta Strong. Ci piace ricordare che è stato tra i pochi a uccidere la sua stessa ‘creatura’: “Io non ammazzo lei, ammazzo il teatro! (…) Crepa schifoso! (Spara) (…) Il teatro è finito!”.
Bernard-Marie Koltès, bello dannatamente bello, vagamente – per affinità elettive – simile, nella sua disperata ricerca forse d’amore, a Ciryl Collard. Moriva nell’89. Anche lui di Aids. Anni fa vedemmo una versione di Dans la solitude des champs de coton (Nella solitudine dei campi di cotone, attualmente in scena al Teatro i di Milano), firmata dall’allora Teatro dell’Elfo. Protagonisti un venditore e un compratore che potrebbero mercanteggiare come Caronte e il dannato per un passaggio senza ritorno, oppure per una dose, un ‘pompino’ o un’ora di oblio. Senza l’obolo, però, il traghettatore non parte. E allora occorre venirsi incontro, capirsi. Oppure prevalere sull’altro, in quell’eterna lotta che è la vita.
Nel 2012, sempre Teatro i metteva in scena un altro piccolo capolavoro di Koltès, Combat de nègre et de chiens (Lotta di negro e cani). Un cantiere edile si trasformava in un ring, gli spettatori erano chiamati ad assistere al corpo a corpo, l’Africa coloniale poteva essere metaforicamente qualsiasi non-luogo nel quale gli esseri umani dimostrano tutta la propria bestialità. L’istinto per la prevaricazione come unico strumento per affermare la propria volontà.
Koltès – anche lui sempre ai limiti dell’indicibile, dell’irrapresentabile – ha trovato forse il suo miglior alter ego in Danio Manfredini, che in Tre studi per una crocifissione ha dato voce e corpo allo straniero di La nuit juste avant les forêts (La notte prima delle foreste) – reinterpretato attraverso l’iconografia di Francis Bacon. Il tema dell’identità, l’etica amorale, il romanzo-pamphlet à la Céline espresso con una prosa che raggiunge vertici di virtuosismo e abissi di senso, re-citato dalla voce di Manfredini.
Anche Koltès, come Copi e Lagarce, abbandonato al silenzio. Finché i teatri non riaprono. Solo allora quelle parole scritte che, sulla carta, paiono geroglifici nella sabbia, tornano a risuonare – struggenti, ironicamente disperate, vere.
Venerdì, 12 novembre 2021
In copertina: Foto di Hulki Okan Tabak da Pixabay.