“Nel momento in cui è entrato il finanziamento pubblico tramite i politici, il teatro è diventato il parcheggio di personaggi di secondo, terzo, quarto piano del mondo della politica” – parola di chi, il teatro, lo fa
di Simona Maria Frigerio
Contattiamo Davide Enia lunedì 27 settembre, dopo avere assistito a Maggio ʻ43, ospite de La Città del Teatro di Cascina, perché lo spettacolo, ma anche alcune parole pronunciate da Enia prima di iniziare il suo vibrante monologo, ci hanno colpiti. E così, durante una lunga chiacchierata telefonica, il profluvio di parole che ci aveva riportati, in sala, nella Palermo bombardata dagli statunitensi durante la Seconda guerra mondiale, ci ha condotti su altre strade – altrettanto impervie e inaspettate – che abbiamo voluto percorrere senza prendere scorciatoie.
Salendo sul palco a La Città del Teatro ha notato i vuoti in platea. Come ha fatto il teatro a scadere da rito laico collettivo par excellence ad attività inessenziale?
D. E.: «È accaduto perché è vero: il teatro è inessenziale. Quando il teatro è diventato il trastullo del politico di turno, ha perso la sua radicale funzione di dialogo fra tutte le parti dell’organismo nel quale ricade. Il teatro è diventato un posto dove trascorrere la serata per borghesi annoiati. Qual è la funzione del teatro? Il teatro sta mancando l’occasione capitale di rinegoziare se stesso rispetto al ruolo che deve avere. I vuoti che ci sono, sono gravissimi perché non sono pensati. Quello che sta accadendo adesso è, dal punto di vista dell’esperienza, una moltiplicazione del lockdown in ogni singolo spettatore, che è messo contemporaneamente nella posizione di essere infettante o infettato. Questo stiamo facendo – senza che ci sia un’idea di regia, in senso drammaturgico, nel farlo. Questo ha rotto il dispositivo teatro che era, essenzialmente, il riconoscersi in una comunità tramite il contatto fisico. Perché l’elemento politico da sempre, soprattutto in questo scorcio contemporaneo, è il corpo. È sul corpo che si perpetuano gli abusi, che si rifà la politica, che si legifera – dall’aborto alle migrazioni di massa delle persone. Perché è il corpo quello che tu porti in piazza per fare le rivoluzioni, per opporti al potere costituito. Questo corpo, il teatro, lo sta negando per l’ennesima volta, non considerando cosa comporti tale scelta. Frantumare il pubblico, in un luogo che nasce al contrario per creare unione – e l’unione si crea anche attraverso il contratto fisico. Senza entrare in discussioni che abbiano a che fare con le vere e proprie necessità dell’epidemia – sistematicamente sconfessate dall’apertura di tutto quanto il resto – dico che il dispositivo teatro è fallato fondamentalmente – e perdonate la brutalità – perché ‘non gliene frega niente’ sia a quelli che dirigono i teatri e sia a quelli che amministrano lo spettacolo dal vivo. Non c’è stata una riflessione – che sia una – su cosa è successo al teatro dal momento in cui c’è stato il lockdown. Manca una riflessione su cosa significhi accogliere il pubblico in una sala che viene radicalmente frantumata, perdendo la propria ragione d’essere. Ma questa è la conferma della squalifica del teatro. Come ci siamo arrivati era la domanda… Ci siamo arrivati con trent’anni di televisione, trent’anni di teatri che.. nel momento in cui è entrato il finanziamento pubblico tramite i politici, il teatro è diventato il parcheggio di personaggi di secondo, terzo, quarto piano del mondo della politica per riuscire a coprire l’intero arco parlamentare, senza che ci fosse nessuna riflessione sulla necessità e urgenza del teatro stesso. L’ultima mossa capitale è stata quella di fare dirigere i teatri non a persone abili, capaci di una visione prospettica rispetto alla creazione e all’interlocuzione del dialogo, ma ad artisti – o presunti tali – che hanno portato avanti l’autocelebrazione di sé. La domanda da porsi sarebbe: ha ancora un senso il teatro oggi? La risposta, io non ce l’ho».
Eppure il mondo ha continuato a girare e alcune problematiche, come le migrazioni – da lei indagate in L’abisso – non sono scomparse d’un colpo.
D. E.: «No, ma è certo che il focus sul Covid ha azzerato di colpo tutte le altre urgenze del mondo, che sono interconnesse tra loro – dal climate change allo spostamento di persone, dal disastro che sta succedendo sulla rotta balcanica a quello, purtroppo noto, del Mediterraneo. Di colpo si è azzerato tutto. Ma è vero: il mondo continua a girare. Ciò che è completamente slegato da ogni ancoraggio al reale – e questo ci fa capire quanto veramente il disastro che si sta profilando è sempre più vicino – è che si continua a vagheggiare il ritorno a una normalità pre-pandemica. Questo non sarà assolutamente possibile finché non si faranno i conti con il trauma che il lockdown ha provocato, che è grande ed esteso e che, in un colpo solo, ha azzerato intere narrazioni e intere geografie».
Lei scrive libri e testi teatrali. In realtà riesce a pochi, tra i quali un altro siciliano come Pirandello. Come si pone di fronte a testi che saranno fruiti attraverso mezzi diversi?
D. E.: «Io ho, probabilmente, questa capacità di riuscire a comprendere verso quale linguaggio voglio indirizzare la storia, e di agire di conseguenza. La mia grande palestra è stata la trasmissione radiofonica che ho fatto per Rai Radio Due, Rembò, che è poi diventa un libro che è la trascrizione di quello specifico radiodramma. La radio ti obbliga a pensare in termini assolutamente economici perché l’ascoltatore ti presta l’organo per eccellenza dell’immaginazione, che è l’orecchio – per cui è inutile che tu ripeti due volte la stessa frase! Devi quindi capire in che modo scolpire le parole, lavorando sul registro della creazione dell’immaginario. Quello è stato un passaggio, in cui io ho dovuto imparare a scrivere in un altro modo rispetto alla frontalità del racconto orale – che avevo già sperimentato in Italia-Brasile 3 a 2 e in Maggio ʻ43. Dopodiché ho scritto un racconto, Mio padre non ha mai avuto un cane, e, per la prima volta, ho capito che esiste una differenza – estremizzando il concetto per farmi comprendere – tra parola scritta per il teatro e parola scritta per la pagina. Diciamo che, nella pagina, vi è una parola consegnata alla lettura. La parola è tendenzialmente un accadimento spaziale, cioè accade nello spazio della pagina, e il tempo – così come il moto – della lettura riguarda unicamente il lettore. In teatro la parola è, in realtà, un dispositivo che serve ad accendere altri tipi di scrittura. Quella dell’interprete, innanzitutto; quella del regista; di chi vuole lavorare con le scene… ma la parola del teatro cade nel tempo della rappresentazione. Quindi, ha dentro di sé una componente di azione fisica che non può essere sottovalutata. Anzi, i grandi testi in teatro sono quelli che permettono una grande creazione a livello di partitura fisica. E le volte che mi capita di parlare con i giovani drammaturghi, consiglio loro di non mettere mai didascalie di azioni perché l’azione è già una regia. Bisogna fidarsi delle parole: il testo deve stare in piedi senza fare una regia dello stesso. Tra queste due cose c’è una terza componente, che è propria della scrittura per il teatro, ossia dei testi che mi scrivo addosso e che mi danno la possibilità di utilizzare il mio dialetto inteso come accadimento carnale – ossia il verbo che si fa a carne. Il palermitano è la lingua in cui ‘A megghiu parola è chidda ca ‘un si dici (la parola migliore è quella non detta), dacché racconta il corpo, raccontano i silenzi, racconta lo sguardo. E il teatro ti dà la possibilità di adoperare e anche di sprofondare dentro la scrittura fisica. La gestualità è scrittura essa stessa. Maggio ʻ43, replica dopo replica, in quanto testo è diventato molto fedele a se stesso mentre, per quanto riguarda la partitura fisica, è sempre più simile a una coreografia. La reiterazione del gesto porta a una partitura che diventa una vera e propria danza, nei modi di scandire i tempi, di aprire lo spazio e di disegnare quel nulla che diventa tutto nel periodo del racconto. Però, nel momento in cui si comincia a ragionare su cosa si deve scrivere, io ho molto chiaro il tipo di linguaggio che vado ad adoperare e ragiono nei termini del linguaggio che sto adoperando».
Pausa. Rilassatevi come in un foyer, fate quattro chiacchiere, distraetevi. Davide Enia continuerà a raccontare il suo teatro su:
https://teatro.persinsala.it/ritratti-dautore-davide-enia-seconda-parte/62797/.
Venerdì, 22 ottobre 2021
In copertina: Davide Enia in Maggio ʻ43. Foto di Giuseppe Distefano (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa de La Città del Teatro)