Robert Mapplethorpe tra Eros e Thanatos
di Simona Maria Frigerio
Il 4 novembre 1946 nasceva, nel Queens di New York, uno tra i fotografi più talentuosi e ‘classici’ del secondo Novecento. Robert Mapplethorpe sarebbe morto per Aids nel 1989 – come molti altri artisti della sua generazione, dai registi Cyrill Collard e Derek Jarman ai drammaturghi francesi Bernard-Marie Koltès, Copi e Jean-Luc Lagarce.
Mapplethorpe è diventato famoso più per i suoi tre Portfolio (X e Y del 1978, Z del 1981) che per le polaroid – serie di snapshots che cristallizzavano frammenti di quotidianità in interni newyorkesi (soprattutto nei primi anni dell’allora compagna, e amica fino alla fine, Patti Smith) – che, però, restituiscono, oggi, la freschezza di un Greenwich Village in pieno fermento.
Come aveva fatto Nagisa Ōshima con Ecco l’impero dei sensi, film prodotto in Francia nel 1976, la pornografia e l’arte in Mapplethorpe – soprattutto nella prima delle tre serie – superano i limiti imposti dalla morale benpensante e borghese, per fondersi in immagini esteticamente perfette, dove l’erotismo si trasforma in medium per comprendere pulsioni e passioni, abissi di piacere nei quali perdersi. Eros e Thanatos, sia nel film del maestro giapponese sia nelle foto di Mapplethorpe, esaltano il potere dei sensi; e se, nel primo, è una folie à deux a travolgere la scansione del tempo, i ruoli maschile/femminile e padrone/serva, e le imposizioni economico-sociali, ancora più rigidi in un Giappone vagamente arcaico; nel secondo è il sottile confine tra piacere e dolore a travolgere sia l’oggetto dell’immagine sia lo spettatore, grazie a un’immersione senza censure nell’immaginario e nelle pratiche sadomasochiste omosessuali. L’obiettivo di Ōshima, come quello di Mapplethorpe, non si sottrae mai: ogni amplesso, ogni pratica è indagata con l’occhio del cineasta che non può – e non deve – fare concessioni alla morale comune, rivendicando la libertà artistica tout-court. Ma laddove è il piacere femminile a dominare il film, è tutto al maschile quello protagonista di Portfolio X (mentre alle nature morte floreali è dedicato Y e ai nudi di maschi afroamericani Z).
Al centro dell’obiettivo, quindi, il corpo. Statuario quello dei suoi maschi sado-maso, tanto quanto quello delle sculture classiche che Mapplethorpe ritrae prediligendo un bianco e nero che ne esalta la plasticità con un sapiente gioco di luci e ombre. Plastico quello della culturista Lisa Lyon che si pone come “performance artist, che agisce come uno scultore sul materiale grezzo del proprio corpo” e, nel libro fotografico di cui è protagonista, Lady, impersona una serie infinita di ruoli. Non a caso, come afferma Bruce Chatwin nel suo contributo al volume: l’occhio di Mapplethorpe “per un volto, è l’occhio di uno scrittore alla ricerca del personaggio”. Efebico, il corpo di Patti Smith sulla copertina di Horses, eppure dotato di una sensualità che sembra rendere contemporanea l’immagine di una Marlene Dietrich in tailleur pantalone. Muscoloso – rifacendosi sia ai canoni della Grecia classica sia all’estetismo ellenizzante dell’Olympia di Leni Riefenstahl – quello dei nudi maschili di Z, in grado di costruire geometrie allusive nello spazio limitato dell’obiettivo – in cui le forme si stagliano come diagonali, masse e ritmi di pieni e vuoti, ben prima che l’occhio dello spettatore possa discernere e interpretare la carne traslucida e possente. Il corpo, infine, delle sue orchidee, che paiono vulve aperte all’accoppiamento con l’insetto di passaggio, dei suoi papaveri avvinghiati come corpi frementi e delle sue calle in erezione, in Y.
È possibile distinguere tra erotico e pornografico? È la forma che determina il contenuto in arte, o viceversa? È l’occhio dell’artista o quello dello spettatore a vedere la bellezza? O la bellezza esiste a prescindere? È più oscena l’Olympia di Manet che, pur nascondendo con la mano posata disinvoltamente (o casualmente) sul pube la parte più intima del proprio corpo, fissa lo spettatore con aria impudica e rimanda al proprio mestiere di prostituta o la foto che mette in mostra la cicatrice di Andy Warhol firmata nel 1969 da Richard Avedon? È più sconvolgente l’immagine di Ridley e Lyle Heeter (Mapplethorpe, 1979) che si riallaccia al legame tra Pozzo e Lucky (di Aspettando Godot) o il legame servo/padrone che sottintende il capolavoro di Samuel Beckett? È più destabilizzante (e perché?) il busto maschile di schiena con tanga di Ken Moody (Mapplethorpe, 1981) o l’erotismo raffinato della modella in corsetto di Horst P. Horst?
Quando si rende esplicito ed esteticamente ‘bello’ ciò che la morale borghese pratica nello squallore ecco che si crea un effetto perturbante.
Inevitabile che Robert Mapplethorpe, a trent’anni dalla morte, sia ancora poco frequentato in Italia. Lo abbiamo visto recentemente (con un Autoritratto e Two men dancing) nella mostra organizzata da Palazzo Strozzi, American Art 1961-2001 – e va ricordata la personale dedicatagli dalla Galleria dell’Accademia, sempre a Firenze, nel 2009, che contava oltre 90 opere esposte.
Oggi la Robert Mapplethorpe Foundation (http://www.mapplethorpe.org/portfolios/, dove potete anche vedere alcune delle foto descritte in questo pezzo), voluta dall’artista nel 1988, continua a promuovere la fotografia, supporta le istituzioni museali che espongono opere fotografiche e raccoglie fondi per la ricerca sull’Hiv/Aids.
Venerdì, 15 ottobre 2021
In copertina: Polaroid di Robert Mapplethorpe del 1975 che ritrae Patti Smith per l’album Horses. Particolare della copertina del CD (rielaborazione grafica di Lucia Mazzilli).