Quale differenza tra referendum e disegno di legge targato PD/M5S?
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
In questi giorni si discute parecchio sulla stampa del referendum (promosso dall’Associazione Luca Coscioni e altri) e del testo base della Commissione Giustizia della Camera, appellati entrambi con il termine generico ‘Cannabis legale’ e che, proprio per questo – almeno per quanto riguarda il referendum – ha ottenuto le 500 mila firme necessarie per proseguire il proprio iter in una sola settimana e, dall’altra, gli strali anche di esponenti del PD, quali Walter Verini, tesoriere del partito e membro proprio della commissione Giustizia della Camera che, a Il Manifesto, ha dichiarato: “Bisognerebbe dire chiaramente [… ] che le droghe fanno male. Che siamo contro la cultura dello sballo. Che comprende anche l’alcolismo, per certi aspetti il tabagismo e l’abuso di tutte le sostanze psicotrope che danno dipendenza”.
Mettiamo allora i piedi nel piatto e confrontiamo il referendum e il testo di legge.
Il primo eliminerebbe dall’Articolo 73, comma 1 (L. 309 del 9.10.1990 e successive modifiche), la parola “coltiva” (ma resterebbero: “produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope”, rendendo legale solo la coltivazione e, dato che le altre sostanze stupefacenti vanno raffinate, si riferirebbe evidentemente a quella di cannabis); dall’Articolo 73, comma 4, le parole “la reclusione da due a sei anni” (rimuovendo le pene detentive per qualsiasi condotta legata alla cannabis con eccezione del traffico illecito); e dall’Articolo 75, le parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni” (pene amministrative contemplate per la detenzione di sostanze stupefacenti finalizzata all’uso personale – le pene previste rimarrebbero, al contrario, in caso di guida in stato alterato, come avviene per l’ebrezza alcolica).
Il testo attualmente in Parlamento, e votato in Commissione Giustizia da PD, M5S, Leu e Più Europa, “permette la coltivazione domestica della cannabis, sebbene limitata a quattro piantine femmine, a persone maggiorenni, per la produzione di sostanza stupefacente e del prodotto da esse ottenuto”. E però sarebbero previste ‘pene minori’ (non capiamo esattamente quali) per la ‘lieve entità’ (che, immaginiamo, resti a 5 gr come attualmente in essere per la cannabis ma che, a seconda del THC, potrebbe essere inferiore).
Letti i due testi, i dubbi aumentano
A prescindere dalle motivazioni patetiche del PD che vorrebbe i terminali di cancro coltivarsi quattro piantine ‘terapeutiche’, che saranno probabilmente pronte per l’essiccazione quando il paziente sarà, purtroppo, magari già morto; passiamo al termine generico ‘sballo’ che denota una voluta o non-voluta ignoranza degli effetti (a volte diametralmente) opposti delle varie sostanze stupefacenti (magari ci si ‘sballa’ – e chissà cosa vorrà esattamente dire tale termine – con una pista di coca, ma non certamente con tre boccate di spinello di cannabis o hashish con gli amici). Sorvoliamo anche sul riferimento ad alcolici, tabagismo, eccetera (citati da Walter Verini) e di ciò che uno Stato etico (o sanitario) potrebbe imporre seguendo tale linea demagogica: dallo stop all’assistenza sanitaria pubblica per i diabetici ‘ciccioni’ (politically correct: obesi), a quello per i malati di cirrosi epatica ‘ubriaconi’ (politically correct: alcolizzati), fino agli oncologici tabagisti o agli asmatici allergici che si ostinano a vivere con un gatto o in campagna. Possiamo immaginare nel futuro del green pass e di questa imposizione dall’alto di comportamenti e costumi, l’obbligo del taglio della barba per gli uomini (per ragioni di igiene) e della verginità per le donne (non per motivi religiosi, bensì per evitare contagi di malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate). Ma bando agli scherzi!
Ebbene, la distanza tra il testo in discussione in Parlamento e il referendum è paragonabile solo alla distanza tra società civile e politici degli anni 70 e che portò a una totale sconfitta della DC (e della Chiesa), ma anche del PCI, e all’approvazione delle leggi su divorzio e interruzione volontaria di gravidanza (sui dubbi del Partito Comunista riguardo a quest’ultima, basti rifarsi agli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, approfonditi in un articolo a parte in Cult Pop/Libri).
I limiti del referendum
Leggendo i passaggi abrogativi delle attuali normative, proposti dal referendum, sorge spontaneo dubitare che, semplicemente cancellando alcune parole, si risolva il problema della legalizzazione della cannabis, senza una legge ad hoc, che – nel caso si proceda, si arrivi al voto e si vinca il referendum – dovrà per forza essere emanata.
In primis, per eliminare le mafie dal sistema, come auspicato dai promotori del referendum, occorre che la cannabis possa essere non solamente coltivata e consumata senza tema di arresto o sanzione amministrativa, ma anche commercializzata. Non è possibile immaginare 6 milioni di italiani (cifra stimata dei consumatori) coltivarsi piantine in giardino o sul balcone o, magari, nel lavandino della cucina, da far poi essiccare per fumarsele. Legalizzare il consumo senza rendere effettivamente possibile il commercio (dei semi, delle piante e della sostanza finita) sarebbe ridicolo. In secondo luogo, va tenuta in conto l’importanza di un venditore preparato per un consumo consapevole. Infatti, stabilire quanto THC è presente nella cannabis, quanta utilizzarne di conseguenza, in che modo fruirne e quale preferire a seconda degli scopi (dolore o inappetenza durante le cure oncologiche, per esempio, o per rilassarsi con gli amici un sabato sera o, ancora, in caso di glaucoma e così via) sono tutte informazioni che dovrebbero spettare al venditore, preparato e legalmente autorizzato (oltre che, nei casi terapeutici, al medico). E/o a eventuali cooperative di coltivatori/consumatori (come succede in alcuni Stati degli Us).
Bando alla retorica
Occorre capire che se una sostanza esiste ed è consumata da milioni di persone, è inutile continuare a tentare – inutilmente – di proibirla (a meno di non vivere in una dittatura sanitaria), puntando al contrario su informazione e legalità per stroncare le mafie (le uniche che, al momento, ci guadagnano), promuovendo usi consapevoli (una canna, come un bicchiere di vino o una sigaretta dopo pasto, sono possibili piaceri, a seconda dei gusti, e non pericoli per la salute). Ridurre il danno (dovuto a usi impropri o eccessivi) e finirla con la retorica che i ‘tossici vanno salvati’ dovrebbero ormai essere valori acquisiti sia da parte della società sia di quella retrograda politica che impazza con slogan e imposizioni – invece di ragionare e agire con pragmatismo e rispetto nei confronti delle libere scelte del cittadino. Chi si fa uno spinello non è un eroinomane – è pericolosissimo per chi si approcci alle sostanze continuare a equipararle: seguendo tale ragionamento 6 milioni di italiani sarebbero in mezzo alla strada, persi con una siringa di marijuana nel braccio, e avrebbero bisogno del metadone per disintossicarsi! E, in ogni caso, un eroinomane, se consapevole, ha tutti i diritti – quando maggiorenne e in grado di intendere e volere – di giocarsi la vita come preferisce. Almeno in uno Stato democratico.
Venerdì, 8 ottobre 2021
In copertina: Foto di Julia Teichmann da Pixabay.