Un racconto al giorno…
di Simona Maria Frigerio
Cammino lentamente per la camera, forse sto perdendo tempo. Me ne rendo conto e mi rimprovero. I miei due gatti mi guardano dai piedi del letto, stringono le palpebre e mi chiedono di spegnere la luce. Sbuffo spazientita e m’infilo sotto le coperte. Prometto di controllare ancora due ciocche, solo due: se non trovo doppie punte mi metto a dormire. La micia bianca mi strizza l’occhio complice, poi appoggia il muso sulla schiena del compagno e langue placidamente in attesa del buio. Il telefono squilla, come tutte le sere a quest’ora. Stavo per spegnere la luce ma dovrò rimandare – che peccato… – allungo il braccio fino al ricevitore e rispondo: «Ciao, non pensavo chiamassi…»
«Te l’avevo promesso.»
«Già.» Il silenzio è vuoto e io non riesco a riempirlo.
«Vorrei fossi qui.»
«Ho troppo da fare…»
«Lo so…»
«Non prendertela… ci conosciamo da così poco.»
«A me pare da sempre.»
Lui ha già deciso di fidarsi, io no. Sono i nostri tempi che non coincidono e lui non capisce quello che dico perché non sente quello che dico.
«Quando torni ne parliamo con calma.»
«Vorrei venissi a vivere con me.»
«Ma io ho già una casa!» Silenzio, so di avere sbagliato. «Dammi tempo…», mento consapevole.
«Mi ami?»
Fingere è facile: «Certo.» Ma sto davvero mentendo?
«Vorrei essere lì, con te, ti farei cambiare idea…»
“Su cosa?” Mi viene da ridere per la frase fatta, mi trattengo. Capisco: sono comprensiva stasera: «Facciamo un passo alla volta…», altra ovvietà.
«Aspettavi la mia telefonata?»
«Sì. Forse è già mancanza» ammetto. “O abitudine?”, mi domando.
«Forse ti stai innamorando di me.»
«Forse è abitudine», non mi trattengo.
«Anche l’abitudine è una forma d’intimità.»
Annuisco annoiata: mi sembra che stiamo parlando come in una soap opera o con le frasi dei bacetti Perugina… Magari fingo con me stessa il disinteresse per paura. Può essere che voglia metterlo alla prova… Non so. Mi arrotolo una ciocca di capelli intorno alle dita, osservo interessata una doppia punta e nauseo.
«Sei ancora lì?»
«Sicuro!» “Almeno con il corpo…”. «Dai, mancano solamente due giorni…»
«Vieni a cena con me sabato sera?»
«Ma certo…»
«Ho voglia di rivederti. Da lontano mi sembri più bella.»
“Tutti da lontano sembrano meglio…”. Tronco: «A sabato.»
«Ciao, amore.»
Mi sembra di sentire la canzone di Tenco e mi trattengo dal ridergli in faccia. «Buonanotte»: mi riesce più facile…
Finalmente mi allungo sotto le coperte e posso spegnere la luce. Improvvisamente riaccendo. La gatta bianca solleva il capo perplessa, il compagno dorme troppo profondamente. Prendo le cuffie come per scusarmi, lei torna a sdraiarsi e io accendo lo stereo col telecomando, spengo la luce e mi risistemo sotto le coperte. “Le nuvole vengono… vanno…”. Ma i temporali restano, aggiungo io. Nel dormiveglia lo vedo. So che non è solo, nella sua camera d’albergo. Non è mai solo. Anche la telefonata l’avrà fatta mentre lei, chiunque lei sia stasera, era nella doccia o, magari, sulla terrazza a farsi accarezzare la pelle fresca dalla brezza. Deve essere bello vivere in una città di mare… Le narici, i capelli, la pelle, le labbra s’impregnano di salsedine e, quando ti accarezzano, le dita ti ungono di mare… Lei sarà certamente più bella di me, solamente il ricordo può farmi assomigliare a quelle sue donne di cartamoneta, dalla pelle ambrata e le labbra carnose e gli occhi grandi come i cieli che si sono lasciate alle spalle. Io sono piccola e minuta e ho labbra sottili e il mio seno sta nella coppa di una mano e il mio cuore è un cuore piccolo che gode sognando perché forse non è abbastanza grande per riuscire a vivere… forse…
*°*°*
Io sono qui, sdraiato in un altro letto, e so quello che lei pensa. Pensa che non mi ama. Pensa che non ne valga la pena, che sarà sempre più sicura nel suo piccolo letto di vergine-non-vergine, coi gatti che le pesano sulle caviglie e la musica che si diffonde nella stanza mentre la sua mente scivola nel buio.
«Vuoi qualcosa da bere?»
La guardo e per un attimo mi sforzo di concentrarmi su quello che dice, ma è troppa fatica capirla e scuoto la testa meccanicamente.
Lei divina: «Vuoi che me ne vada?», e sorride.
Le prendo la mano tra le mie e l’attiro sul letto. Lei si lascia guidare, sdraiandosi senza pensieri, dimentica di tutto e chiude gli occhi sorridendo. La guardo: è il ritratto di tutta la mia vita. Di altri Paesi, del lasciarsi andare, dell’essere guidati solo dall’istinto. Per un attimo questa notte sono stato bene grazie a lei. La bacio sulla guancia con gratitudine e le scivolo accanto. Sento il calore del suo corpo diffondersi tra le lenzuola e le membra che lentamente si abbandonano al sogno. La sua mano si fa pesante tra le mie. Muove leggermente il naso e socchiude le labbra. Provo l’impulso di baciarle, ma il ricordo delle altre, quelle sottili appena sfiorate, mi trattiene. La vergine-non-vergine che vorrebbe scomparissi e la lasciassi in pace mi attende, lo so, lo sento… o forse m’illudo. Lei, con tutte le sue storie lacrimose e il voler fare da sola e stare da sola e non aver bisogno di nessuno e non desiderare l’amore, che si stringe il ventre nella sua camicia da notte di flanella e ti guarda spaurita senza sapere se vuole che resti o te ne vada, lei è lì, viva, di fronte a me e, nel ricordo, è quasi bella…
*°*°*
Mi chiedo perché non sono venuta con la mia auto. Entro nel locale e mi guardo intorno. Un cameriere troppo gentile e un po’ imabarazzato mi si avvicina con cortesia professionale: «Cerca qualcuno?» Gli dico il suo cognome. Attendeva una risposta diversa. Sorride un po’ incredulo, ma finge bene. Lentamente mi precede. È la prima volta che entro in un ristorante come questo. Pochi tavoli: gli astanti conversano sottovoce e con la coda dell’occhio osservano educati ma intanto commentano. I piatti sono troppo grandi con le porzioni minuscole. C’è un clima in punta di forchetta: mi viene da ridere ma mi trattengo.
«Prego…» Il cameriere si scosta di lato e mi invita a sedere.
Mi sento imbarazzata: devo essere io a spostare la sedia o dovrebbe farlo il cameriere?
«Ciao». Mi viene in aiuto lui: è appena entrato, mi si accosta velocemente e si rivolge al cameriere: «Faccio io, grazie.»
Gli sono riconoscente. Ci sediamo e lo guardo, per la prima volta, con calma: quel gesto mi ha messa a mio agio.
«Ti trovo bene.»
Per fortuna che non ha detto che mi trova bella!
«Anche tu.» “E adesso come vado avanti?” Un impulso improvviso mi spinge a guardarlo di nuovo in volto: mi soffermo sulle due rughe profonde tra le sopracciglia diritte, scivolo lungo il naso leggermente in su, accarezzo quelle labbra ben disegnate che scoprono denti curati pronti al sorriso. Lui sa di piacere, la sua disinvoltura è naturale, come accennare un ordine col capo o assaggiare con gusto il vino che gli viene servito. I gesti sono figli delle abitudini. Io rimango rigida e fingo indifferenza.
«Com’è andata?»
«Bene.» Si sporge sulla tavola e appoggia i gomiti sulla tovaglia con aria noncurante: vuole stare comodo. Io non oso e rimango incollata allo schienale della sedia.
«Mi mancavi.»
Alzo lo sguardo e cerco una risposta tra gli stucchi del soffitto.
«Mi sento un ragazzino con te…». Scoppia a ridere e si lascia scivolare contro lo schienale.
Se fossi una scrittrice penserei di stare scrivendo una di quelle storie sdolcinate che piacevano tanto alla mamma. Vorrei che i miei gesti fossero più sciolti, ridere senza imbarazzo e magari lasciarmi andare. Forse potrei chiedergli di andare a letto insieme: in fondo, non è sempre quello il fine di tutte queste schermaglie banali, degli inviti a cena, delle conversazioni forbite, dei gelati dei musei delle gite al parco?
La guardo e penso che vorrei fare l’amore con lei. Anche se non so perché. Non è bella, neanche il ricordo può renderla bella. Non è nemmeno gentile. Eppure la sua pelle emana sapore di bucato e la sua bocca invita al sorriso: così imbronciata, così spaurita, così meravigliata di essere qui… Le prendo la mano tra le mie e la sento fredda, ha dita sottili gelide come stalattiti e pelle vellutata come i petali di una viola. Mi scopro poeta stasera. Le sfioro il dorso con la punta delle labbra e mi dimentico di dove siamo. Lei mi fissa imbarazzata, vorrebbe guardarsi intorno ma non osa, poi, improvvisamente, si rilassa e, per la prima volta da quando la conosco, il suo sorriso sa di buono.
*°*°*
Quando mi sveglio il sole filtra tra le persiane e macchia il lenzuolo di luce. Il pesante piumone cade leggero come una coltre di neve calda. La mente è vuota, non si pone nemmeno le domande di rito, la paura non si è ancora affacciata alla coscienza, incantata dalla propria inconsapevolezza, dal benessere del corpo, dal silenzio della stanza, nella penombra soffusa. Lui entra in camera con un vassoio della colazione da film all’americana: perché siamo sempre tanto prevedibili? Fette biscottate, marmellata, burro, latte caffè e spremuta d’arancia. Sotto la capigliatura arruffata mi sorride rilassato. Mi chiedo se è ora che me ne vada. M’irrigidisco e mi alzo a sedere in mezzo al letto. Col piumone copro i seni nudi. Vorrei tanto laciarli scoperti al suo sguardo, ma non oso: «Dov’è il bagno?» Mi pento della domanda, non potrei mai alzarmi e camminare nuda di fronte a lui che mi sta guardando.
«Sulla tua destra.» Fa un cenno col capo ma è contrariato. Si avvicina al letto: «Vuoi già andartene? Pensavo avremmo trascorso la giornata insieme.» Mi si siede accanto e mi appoggia il vassoio sulle gambe allungate.
Non so che fare, non si dovrebbe salutare e andarsene in fretta? Scuoto il capo e sbuffo: lui rompe i miei schemi con troppa naturalezza. Potrei rinunciare a essere me stessa per essere lui.
Sorrido e la guardo arrendersi, appoggiandosi con le spalle alla sponda del letto. È da tanto tempo che non guardo il volto di una donna il mattino dopo, dal tempo in cui ero sposato e lei si alzava sempre prima di me e mi preparava il caffè, che si raffreddava accanto al letto.
*°*°*
Mia figlia entra dalla porta correndo tutta sudata: «In giardino, vieni, vieni a vedere.» Mi prende per mano e usciamo dalla cucina mentre il latte schizza da tutte le parti, la panna si addensa alle pareti del bricco e la signora che viene ad aiutarmi entra nella stanza urlando stizzita. Scoppio a ridere e corro in giardino come se dovesse inseguirci.
«Guarda mamma: che bella!» Mia figlia addita una lucertola lunga almeno dieci centimetri e con una striatura verde che la confonde tra l’erba alta. «Posso toccarla?»
Scuoto il capo sconsolata: «Non riuscirai mai a prenderla.»
Riflette. Poi mi domanda con preoccupazione: «E se scappa?»
Mi rimprovero in silenzio. «Dai, se vuoi accarezzarla, provaci.» La prendo per le spalle e la spingo avanti.
Lei sorride soddisfatta. Si avvicina lentamente e, per un istante, sfiora col dito la schiena dell’animale che, forse ancora infreddolito dalla notte, stenta a riprendersi. Poi, d’un tratto, schizza tra i fili d’erba e scompare.
«Ho toccato la lucertola! Ho toccato la lucertola!» Mia figlia corre in casa urlando a informare Delia. Io resto immobile coi piedi che si bagnano di rugiada e sollevo il capo verso il sole di luglio mentre si affaccia dietro l’ombra del tetto. Il profumo del mare impregna il mattino di umidità.
«Che fai lì a bagnarti tutti i piedi?»
Alzo lo sguardo e lo vedo affacciato alla finestra, con gli occhialini che gli scivolano sulla punta del naso e il giornale in mano.
«Tua figlia ha toccato la schiena di una lucertola». “Io non ci ero mai riuscita…”
«Bene! Ma adesso non sarebbe meglio che vi preparaste?»
«Uffa!», rispondo facendogli la linguaccia e lui scoppia a ridere e si allontana dalla finestra.
So che sta correndo giù dalle scale per venire a cercarmi. Per un attimo rifletto su quel gioco e il mio corpo s’irrigidisce: sto facendo quello che lui vorrebbe o quello che sento di voler fare? Il gioco si replica e io rido come una bambina ben educata. I miei gesti si ripetono meccanici e lui si compiace del gioco. Ma la mia mente dov’è? Sono così cattiva da non riuscire ad abbandonarmi nemmeno a questo piccolo scherzo? Perché? Perché fingere mentre lui mi abbraccia e mi stringe la vita e io fingo di voler scappare e fingo di divertirmi e fingo di essere felice? Sono mai me stessa o solo il riflesso che lui vede di me?
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
Venerdì, 24 settembre 2021
In copertina: Illustrazione di Louise Dav da Pixabay.