La trasformazione delle strategie massmediali da Al Qaeda all’Isis, dalla televisione al web
di Alessandro Alfieri
Non esiste terrorismo senza diffusione massmediale; che è come dire che non esiste terrorismo senza immagine. Un paio di altre ovvietà: non esiste terrorismo senza azione, e non esiste terrorismo senza violenza. Certo, spesso le parole feriscono al punto di distruggerti la vita, come raccontano innumerevoli fatti di cronaca; ma a un terrorista non basta promuovere la sua idea o il suo credo esclusivamente tramite il linguaggio, esso è indotto a passare alla concrezione reale, al gesto e perciò stesso alla morte reale. Si è fatto un gran parlare nei decenni passati di cyberterrorismo, e non è da sottovalutare il fatto che effettivamente gli attentati ai sistemi informatici, anche per predare big data o acquisire informazioni essenziali, sono un tratto caratteristico della contemporaneità. Però, i fatti degli ultimi anni dimostrano che il terrorismo mantiene, anche nell’epoca della web culture e della dematerializzazione della vita sociale, un rapporto forte coi corpi, con l’omicidio, col sangue, con le esecuzioni sommarie. Il ritorno traumatico del corpo come territorio essenziale del conflitto, spazio del dolore e della perdita reali, che nella virtualità globale dell’epoca digitale rivendicano la loro ineludibile e incontrovertibile primarietà. […]
Con la strategia massmediale dell’Isis abbiamo un cambio di paradigma profondo: prima l’evento essenziale e ʻspettacolare’ dell’attacco alle Twin Towers [da parte di Al Qaeda], strutturato e costruito in base al medium di riferimento nella fase di passaggio tra il Novecento e gli anni Duemila, ovvero la televisione; poi il terrorismo europeo che tra il 2015 e il 2017 si è basato sulla parcellizzazione, l’invisibilità, sulla diffusione ʻgassosa’ del terrore. Una violenza elementare, poco sofisticata e ben più brutale, perché immediata, basata spesso sul contatto fisico (lame e coltelli, se non persino veicoli usati come armi per investire i pedoni indifesi); è la banalità della morte, il palesamento della vulnerabilità dei corpi. L’Isis rispetto ad Al Qaeda segna una rottura non solo politica: il rinnovamento dell’Isis è connesso a una profonda conoscenza dei nuovi mass media, utilizzati anche per arruolare giovani e trovare adepti persino in Occidente. Per questo i video dell’Isis, rispetto alle inquadrature dei video del gruppo di Osama Bin Laden, hanno dietro un’attenzione fotografica e registica assai più evoluta, in consonanza con l’odierno circuito videoestetico. Regie dinamiche, montaggio da videoclip, con elementi di seduzione che interpellano il sistema nervoso prima ancora che la ragione o l’anima.
[…] La violenza non è più solo telematica, agita attraverso il linguaggio, minacciata, o anche cyberterroristica: il terrorismo si dimostra ben più ancestrale rispetto all’idea molto diffusa ingenuamente negli anni 90 che il nuovo terrorismo sarebbe stato per lo più comunicazionale, devastante perché rivolto alle strumentazioni digitali ma meno grave dal punto di vista delle vittime. Ebbene, la cronaca degli ultimi anni dimostra il contrario; ma d’altronde, anche il passaggio dalla logica terroristica di Al Qaeda a quella dell’Isis attesta un mutamento decisivo e un’evoluzione profonda nell’immaginario terroristico islamico. Se l’11 settembre era un evento, strutturato profondamente secondo le logiche della trasmissibilità massmediale e dello spettacolo, il terrorismo europeo è apparso più disseminato, perché alla logica della trasmissibilità televisiva si è passati a un differente medium di riferimento che è il web, più nello specifico i social network, basati sulla comunicazione immediata. Il terrore si è fatto più puro perché non mediato, e alle immagini della catastrofe, chiare e viste a ripetizione, sono subentrate una moltitudine di immagini precarie, mosse, dove a dominare è più l’invisibilità che il palesamento del terrore.
L’Islam è storicamente una cultura iconoclasta, fin dalle origini; anzi, la nascita dell’Islam rilanciò il dibattito cristiano tra iconoduli e iconoclasti che sembrava esaurito col Secondo Concilio di Nicea del 787 d.C., e che sembrava avesse segnato la linea definitiva della cultura cristiana. In realtà, con Leone V l’Armeno e fino a metà del IX secolo, la tensione iconoclasta ebbe un ritorno di fiamma estremamente vivace, proprio in rapporto alla diffusione della dottrina islamica. Detto questo, è evidente che la cultura occidentale cristiana ebbe fin dall’alto medioevo una diffusione ideologica e spirituale strettamente legata alla creazione e alla promozione delle immagini; l’efficacia e il ruolo dell’immaginario nello sviluppo della cultura europea, fino all’epoca moderna, hanno le loro radici proprio nel successo – sofferto e combattuto – della linea iconofila rispetto a quella iconoclasta. Questo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non significa affatto che gli iconoclasti e i musulmani in primis screditassero l’efficacia e la potenza delle immagini, tutt’altro: gli antagonisti dell’immagine ritenevano che l’immagine potesse molto e che data la sua potenza fosse un oltraggio alla divinità, e per questo le immagini andavano combattute e abolite. L’Islam è una cultura dell’azione, della violenza come principio di attuazione reale e concreta, senza mediazioni immaginarie. Così come la differenza tra i testi sacri di riferimento: se la Bibbia è la parola di Dio narrata e trasmessa per interposta persona (i discepoli e le lettere degli apostoli), il Corano e la Sunna sono la parola di Allah diretta senza filtri né rielaborazioni. La Shari’a è attuazione dei precetti coranici perché la struttura del Corano è giuridica, espressione didascalica della legge di Dio da lui stesso esposta.
Quello islamico è perciò un immaginario senza immagini, un ossimoro che però riflette anche la teorizzazione di Castoriadis, che effettivamente non riduce mai l’immaginario alla sola produzione e circolazione di immagini; anche quello islamico, immaginario confessionale e spirituale che è da subito anche politico e giuridico, si pone come struttura di idee, norme e convenzioni in grado di arginare l’abisso del caos dell’anarchia e della guerra civile – storicamente, le rivoluzioni islamiche sono servite proprio a rivendicare la propria identità in contrasto con le potenze invaditrici. L’immaginario senza immagini dell’Islam, immaginario iconoclasta, si serve di immagini soprattutto quando si rivolge al nemico, per comunicare con i suoi stessi strumenti, ma in tempi recenti l’Isis ha sempre più flirtato con la forza di attrazione delle immagini per la fase di arruolamento determinato dalla fascinazione della lotta armata, una fascinazione di matrice quasi cinematografica basata su proclami di guerra e di invasione delle città occidentali – l’Islam perciò conosce l’immaginario solo per tramite della cultura occidentale: i video dell’Isis sono ispirati tanto ai videoclip musicali quanto al cinema. Si tratta di un intrigante capovolgimento dialettico, perché l’immaginario occidentale iconofilo – ovvero ʻamico’ delle immagini –, che in passato ha avuto la presunzione di dare immagine alla divinità e al trascendente, nel Novecento si è trovato in seria difficoltà nel rapportarsi all’immagine dell’orrore assoluto di Auschwitz prima e all’immagine della catastrofe dell’11 settembre dopo, come dimostra l’opera di Alejandro González Iñárritu per il film collettivo 11 settembre 2001, formata da un’unica immagine nera interrotta solo a sprazzi da lampi di luce che mostrano i corpi precipitare verso il suolo, e che non a caso chiude con la sura del Corano che recita “La luce di Dio ci illumina o ci acceca?”. La cultura occidentale si è dimostrata iconoclasta per rispetto delle vittime della storia proprio nel Novecento, come se nella modernità ogni messa in immagine non potesse non venire assorbita all’interno della logica dello spettacolo, oltraggiando così la sofferenza e il dolore.
Dal canto suo, una cultura strutturalmente iconoclasta come quella musulmana, che ha sviluppato la propria storia dell’arte sugli elementi di decorazione ornamentali e non sulla figurazione mimetica, e dove l’elemento della ʻsottomissione’ si riflette anche nella bidimensionalità di tali opere e nella proiezione della Luce esterna che entra negli ambienti nelle grate delle masrabyye, oggi si affaccia sullo scenario visuale investendo grande interesse proprio sull’immaginario visuale. Oltretutto, parliamo delle frange più estreme dell’Islam, le cellule terroristiche, che compiono un grande sforzo per conciliare l’ortodossia ideologica e l’apertura a mezzi e strategie che invece sembrano contravvenire la loro radicalità confessionale. La scoperta dell’immaginario visuale, investito in ambito di morte e orrore, ha un grande valore e una grande potenza di impatto […].
Una dimensione di violenza sostanzia qualsiasi religione, persino il buddhismo attraverso la negazione determinata dell’idea stessa di violenza. Perciò qui non stiamo affatto dicendo che l’Islam è la religione più violenta tra i monoteismi abramitici; si tratta però di un diverso rapporto con la violenza, configurato in forme diverse per i diversi casi. Il cristianesimo anche è una religione violenta, perché il mito del Cristo cavaliere della pace e della rimessione è stato costruito solo nel corso dei secoli: le prime comunità di cristiani, comunità clandestine perseguitate dalle autorità romane, erano composte da adepti disposti a scontrarsi, a combattere in maniera anche aggressiva. Ma storicamente poi il cristianesimo ha compiuto una trasfigurazione dell’ira in immagine: l’immagine ha assunto la funzione di trasfigurazione dell’ira, al punto che il cristianesimo, come rimproverava Nietzsche fin dalla fine dell’Ottocento, è divenuta una religione debole, vittimistica, ingenua. La violenza non più agita ma raccontata, immaginata, trasposta. È in questo senso che nei kamikaze islamici il corpo non è più strumento di lotta ma diventa esso stesso arma in maniera diretta, determinando una sproporzione efficace rispetto alla concezione della vita da parte degli occidentali; come ha messo in luce Jean Baudrillard, nel momento in cui i kamikaze sono disposti a sacrificare la loro stessa vita per la causa, facendo della loro vita l’arma letale nei confronti degli occidentali, allora l’Occidente parte sempre ʻin ritardo’ rispetto alla possibilità di difendersi.
La mancanza di mediazione dell’immaginario dell’Islam è un ulteriore paradosso: cultura senza veli, ma il corpo della donna deve invece essere sempre velato, proprio in virtù del fatto che la mediazione del velo elimina l’immagine della donna come fonte di impulso erotico e di stimolazione offensiva sensoriale. L’Islam, concepito secondo l’interpretazione di Sloterdijk come banca dell’ira accumulata, sarebbe la religione più aggressiva e radicale, oltre a essere estremamente orgogliosa nel ricordo struggente di un passato glorioso: il rapporto di forza tra le due culture, cristiana e islamica, non è stato sempre quello a cui assistiamo oggi, dato che per centinaia di anni, gli arabi hanno assunto il ruolo di dominatori sui territori europei […]
Il web resta l’orizzonte che dà senso all’azione terroristica: alla diretta televisiva imperniata sulla visibilità dell’evento subentra il terrore per ciò che viene trasmesso e condivido sui social, video traballanti, poco chiari, scuri, che intensificano l’imprevedibilità del terrore e della violenza. È come se il web, da arena dell’odio gestita dalle autorità in sostituzione alle altre arene del passato, in assenza di una visione dell’immaginario tipicamente occidentale si sia riversata nell’azione concreta e omicida nel terrorismo. Perciò non un terrorismo cyber o digitale, ma reale, intensificato però dal linguaggio della condivisione del web.
Estratto dal volume di Alessandro Alfieri, Video Web Armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere, Rogas 2021 (tutti i diritti riservati).
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Venerdì, 17 settembre 2021
In copertina: Ground Zero. Foto di WikiImages da Pixabay.