Un racconto a settimana
di Simona Maria Frigerio
Tutte le mattine, alle sette e cinque, mi alzo e vado alla finestra della cucina, guardo fuori e la scorgo correre frettolosa, come sempre in ritardo, sull’acciottolato del cortiletto, stringendosi nell’impermeabile sciupato, nelle umide giornate autunnali, o in un vecchio cappotto di lana nero, durante i lunghi inverni nebbiosi della pianura. Alle sette e dieci lei è già scomparsa, aldilà del cancello di ferro battuto, la mia gatta rientra da qualche giro notturno e io torno a letto a riposare la mia stanchezza sotto le pesanti coperte ammonticchiate sul letto. Mi giro e rigiro tra le lenzuola umide di vecchio e sudore, finché non resisto oltre e decido di alzarmi definitivamente. Ritorno in cucina col passo strascicato nelle pantofole di pezza, scaldo il latte nel vecchio bollitore di mia madre – e, per un attimo, mi rivedo bambina guardare di sottecchi i miei fratelli, che mi siedono accanto, in attesa che la mamma ci dia da ripulire il pentolino che ha usato per i budini. Lascio cadere qualche goccia di latte nel piattino della gatta ma lei è troppo stanca della sua notte brada per correre e, lentamente, scende dal sofà del soggiorno, sostenendosi sulle zampe sproporzionate rispetto al corpo molle e gelatinoso, che le ripara la minuscola anima dal freddo. Mi siedo a tavola e, di tanto in tanto, alzo lo sguardo verso la finestra, chiedendomi se lei sia già arrivata in ufficio, o sia ancora sull’autobus che la sballotta, incurante di quegli occhialini che saltellano tra una riga del libro e l’altra.
Passo la mattina cercando di far trascorrere il tempo, oppressa dalle ore che sembrano trattenute dalle lancette dell’orologio: guardo la pendola sospesa alla parete con l’angoscia dell’immortalità. Di tanto in tanto penso a lei che, forse, nel suo ufficio, alza il viso dal computer fluorescente nel quale è immersa e sogna. Lei che quando mi vede sbirciarla dall’angolo della tenda o, magari, mentre stendo i panni sul balcone della cucina, prova ribrezzo, come me da giovane, al pensiero della pelle cascante del mio collo; all’odore di vecchio e sudore che emanano le pieghe della carne; di fronte alla mollezza delle gote appassite; a un corpo che non appartiene oltre alla mia mente, o al ricordo dei desideri prigionieri dentro un involucro che non è più mio… Perché sì, io mi ricordo ancora di quel pomeriggio nella metropolitana di Parigi, mentre le luci dei lampioni si accendevano e il suono di un sassofono lontano pervadeva l’aria limpida di una primavera inoltrata. Quale sensazione meravigliosa era quella che provavo! Il desiderio di vita che mi si sprigionava dal profondo si mischiava allo stupore e a uno strano senso d’orgoglio per dove mi trovavo: in un mondo secolarmente immobile, io viaggiavo. Ero a Parigi. Non avevo nemmeno vent’anni e la guerra sembrava lontana; non potevamo, nessuno avrebbe potuto sapere che stava aspettandoci nuovamente dietro l’angolo. Scendevo le scale di corsa, eccitata all’idea di ritrovarmi in quegli strani vagoni che viaggiavano sottoterra, quando lui mi bloccò il passo e si mise a ridere. Anche i suoi amici, che lo circondavano proteggendolo, risero, e io alzai gli occhi, arrabbiata offesa umiliata dalla sua mancanza, che aveva fatto svanire quell’attimo di perfetta armonia. Ma, guardandolo, non potei trattenere un sorriso e il suono del sassofono si fece più alto e penetrante, la mia risata si sparse nell’aria e lui mi chiese “scusa”.
Appoggio il mio corpo appesantito sulle palme e le mani sul tavolo: è ora che mi muova! Preparo qualcosa da mangiare, ma non vi è gioia in quei gesti meccanici, nel piatto che appoggio sulla tovaglia a quadretti, nel sedermi di fronte alla parete, a contare le mattonelle, sforzandomi di mandar giù qualcosa, scacciando i pensieri, i ricordi – che mi circondano, infestando la mia tavola con la loro assenza… Mi alzo e vado ad accendere la radio: Summertime risuona a mezz’aria e la cucina si popola, improvvisamente, di tavolini all’aperto, caffé affollati, calzettoni bianchi, labbra rosso ciliegia, corse in bicicletta, libri passati furtivamente e letti di nascosto sotto un albero, mentre lui, con la testa appoggiata alle mie gambe, mi insegnava quella pronuncia fatta di iu ed erre arrotate, ridendosela protetto dalla mia ombra… Spolvero le cornici e mi soffermo a guardare la sua foto ingiallita: ha lo stesso sguardo di quella mattina, quando si alzò più presto del solito: l’alba non era ancora spuntata e lui si stava già vestendo. Non voleva svegliarmi: ero stata in piedi fino a tardi piangendo e, forse, pensava fosse giusto lasciarmi dormire o, magari, più semplicemente, non se la sentiva di sopportare un’altra scenata. Appena mi accarezzò la gota, prima di lasciarmi, io mi svegliai di soprassalto e, senza volerlo, gli sorrisi, lo abbracciai, gli dissi solo: «Buongiorno», come tutte le mattine quando usciva per andare a lavorare. Non facemmo nemmeno in tempo a fare colazione che lui era già sulle scale, correndo verso i compagni che lo attendevano fuori dal cancello: il sole stava spuntando. Corsi alla finestra, sapendo… e, un attimo prima di oltrepassare il portone, lui si volse e mi sorrise, salutandomi col cenno di sempre; poi sparì oltre la soglia. E io tornai qui, coi miei ricordi, i suoi vestiti, le fotografie… Mia madre se n’era già andata, anche mio padre ci lasciò e poi fu la volta dei miei fratelli, uno per uno se ne andarono pure loro: chi con la valigia, chi solamente con l’abito della festa… ma nessuno mi salutò, nessuno disse “arrivederci”, solamente tu. All’inizio fu difficile: farmi capire, raccontando, cercando di spiegarmi; mi ci volle del tempo, poi ci rinunciai: nessuno poteva provare le mie sensazioni, quindi solamente io dovevo sopportare quelle scelte. Quando smisi di fornire spiegazioni, nessuno me le chiese oltre. Non ci furono più parole.
Alla mia età dovrei essere più saggia: sedermi davanti alla televisione e lasciarmi morire. Eppure non ci riesco, non ancora. Mi alzo dalla tavola con un gesto d’orgoglio, per un attimo sono diritta come un fuso, poi il fiato lentamente mi abbandona e io ricado sulla sedia di legno da osteria. Pian piano mi trascino fino al letto: è la fine di un’altra giornata. Ora verrà la notte… A volte, prima di andare a letto e sdraiarmi, sola, tra quelle lenzuola che saranno il mio eterno sudario, stretta nello scialle di lana pesante, con la camicia da notte di cotone leggero che mi copre le gambe infreddolite, con le dita dei piedi che godono nei calzettoni consolandosi dell’assenza di altri piedi pronti a scaldarli, lentamente, torno alla finestra della cucina. E, nelle limpide notti invernali, quando il cielo è terso e il freddo filtra dagli spiragli della finestra per calare impietoso sulle coperte, infilandosi tra le mie vecchie lenzuola fino a impregnarle del proprio odore, alla luce dei raggi dorati che rischiarano il cortiletto, io lo vedo, come allora, voltarsi indietro verso la mia finestra, alzare il volto sorridente per farmi un cenno di saluto. Il cenno consueto, l’arrivederci a una sera che non è ancora venuta e che io attendo, in questa casa, tra le sue cose, come allora, per sempre.
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
Venerdì, 3 settembre 2021
In copertina: Foto di Congerdesign da Pixabay.