Dal premio-sponsor al polpettone horror
di Simona Maria Frigerio
Beati i tempi in cui le targhette delle marche stavano dentro e non fuori dalle mutande! Ma si sa che, en los tiempos del cólera, la classe è ormai acqua e non si conferiscono più semplici premi alla carriera bensì Cartier Glory to the Filmmaker – dove il marchio sta al primo posto e la roboante onorificenza rigorosamente in inglese sta al secondo, ancella di orologi e lusso.
Il tutto sarà conferito a Ridley Scott tra pochi giorni, durante la Biennale Cinema di Venezia, che si terrà dal 1° all’11 settembre. E forse per condire la notizia con un po’ di arrosto – oltre che di salsa – ecco che la televisione ci propina per l’ennesima volta non il capolavoro di Scott, ossia Blade Runner, o forse il suo maggior successo, Alien, bensì la nemesi del suo genio, Prometheus (in ogni caso non opera recente né l’ultima, dato che è targata 2012).
Siamo ormai avvezzi alla furberia hollywoodiana di creare prequel e sequel, sfruttando al massimo il successo non più del semplice film bensì di trilogie soprattutto di genere fantascientifico, di cui resta ʻcampione’ George Lucas. Così come siamo avvezzi ai rifacimenti hollywoodiani dei capolavori europei che perdono in profondità trasformando la sceneggiatura più rivoluzionaria e le psicologie più sottili in un mainstream sdolcinato e prevedibile fin dalla prima battuta (solo per citare un esempio, il capolavoro di Juan José Campanella, Il segreto dei suoi occhi, scorticato della denuncia politica e del ribaltamento di genere nell’omonimo film di Billy Ray). E non siamo nemmeno digiuni di prequel letterari e, poi, cinematografici o teatrali che vanno a ripescare personaggi minori per dar loro pari dignità rispetto ai protagonisti, scritti da autori differenti dall’originale e reinterpretati secondo una diversa visione etica e/o culturale, come Il grande mare dei Sargassi (1966) di Jean Rhys, che rilegge in versione anticolonialista e femminista il romanzo Jane Eyre (1847) di Charlotte Brontë, dando voce alla prima moglie di Rochester, la creola (pazza e piromane nel libro di Brontë) Antoinette Cosway; o l’arguta rilettura di Tom Stoppard di Amleto, in Rosencrantz e Guildenstern sono morti.
Iniziamo dal tono generale, più vicino al muscolare Aliens – Scontro finale di James Cameron che non al sofisticato fanta-horror, Alien, dello stesso Scott. Al posto della protagonista di allora, la credibile volitiva ma sensibile Sigourney Weaver, uno sdoppiamento di ruolo tra una Charlize Theron che, come Goneril, vuole che il vecchio Lear abdichi finalmente il proprio potere lasciando a lei un impero, ovviamente economico e non politico-militare (e i riferimenti alla tragedia shakespeariana vanno oltre, dal carattere bizzoso del padre/padrone alla mancanza di amore/gratitudine della figlia, fino allo scambio di alcune battute e a una gestualità medievale che ne contraddistingue il dialogo); e una Noomi Rapace molto muscolare – tra fedi e crocefissi in stile Madonna di Like a Vergin (il cui sottotesto era, però, es- e non im-plosivo) – più adatta a interpretare la Lisbeth Salander pseudo-sindrome di Asperger di Millenium che non la Giovanna d’Arco paladina d’un vecchio miliardario che non vuol morire e di indeterminati ʻingegneri’/creatori (traslate in Re di Francia e Dio cristiano). Ovviamente non manca l’androide, figura chiave della tetralogia di Alien che, anche qui, finisce decollato ma funzionante. Tacciamo sulla nascita di Alien dallo pseudo-amplesso tra una specie di polpo albino e l’ingegnere di cui sopra…
Detto ciò, potremmo chiudere pensando a un film senza infamia e senza gloria che ricalca orme passate – anche altrui – con minor fantasia e sottigliezza – sia a livello di sceneggiatura sia registico – e, soprattutto, minor vena creativa. Ma sono altre le questioni che rendono Prometheus ʻindigesto’.
In primis, laddove in Blade Runner, Roy Batty voleva incontrare il dottor Tyrell per chiedergli «più vita», da androide/schiavo che pretendeva quella vita in maniera sì prometeica, ossia per viverla da uomo/libero; qui ci troviamo di fronte a un aberrante capitalista (Weyland) con velleità da Lear shakespeariano che, dopo aver avuto tutto, vuole semplicemente comprarsi anche l’eternità. E non sarà, quindi, il profondamente umano Batty a uccidere il ʻcreatore’ Tyrell per liberarci da colui che ha deciso quando la parca taglierà il filo delle nostre vite – al di lui capriccio; bensì l’ingegnere a uccidere Weyland rimettendo al proprio posto creatore e creatura: il primo nel ruolo di colui che dà e toglie la vita, il secondo in quello di verme che brancola nel buio dei propri egoismi pusillanimi.
Se il portato rivoluzionario di una tra le scene culto della cinematografia mondiale è rinnegato da così bieca retorica, persino peggio può dirsi della teoria darwiniana che, come si afferma nel film, è bellamente gettata alle ortiche da quella creazionista. E in un mondo, come quello attuale, dove ogni giorno non solamente le scuole private ma persino le università mettono sullo stesso piano l’evoluzionismo, e la stirpe creata dalla ʻteiera celeste’ in sette giorni – come se avessero pari dignità scientifica – è davvero urticante che ad affermarlo sia un film del medesimo regista di Blade Runner.
Forse per quest’ultimo Ridley Scott, il premio Cartier è più che meritato.
Venerdì, 27 agosto 2021
In copertina: la locandina di Prometheus.