Un piatto di lenticchie, altro che teatro!
di Simona Maria Frigerio
La notizia ferragostana è lo sciopero di due ore dei lavoratori di un’azienda torinese ai quali sarebbe stato chiesto il green pass per accedere alla mensa. E la domanda che sorge spontanea è perché nessuno sciopero sia stato proclamato per difendere il diritto di entrare a teatro. La prima è essenziale e il secondo solo un piacere velleitario? Si potrebbe ribattere che alla prima si può ovviare con la ‘schiscetta’, come si è fatto per decenni, o un ticket restaurant da spendere in bar o ristoranti con tavoli all’aperto; mentre lo spettacolo dal vivo se non fruito dal vivo non esiste e il diritto alla cultura dovrebbe essere prevalente su quello a un piatto, spesso scotto e non certo da gourmet, della media delle mense scolastiche e aziendali.
Eppure nessuna levata di scudi in difesa del diritto all’arte, da fruire in un museo; o al film, al cinema (nonostante la pubblicità tivù che invita a farsi i selfie in sala perché il cinema è sicuro); o a uno stile di vita sano, facendo sport in piscina o palestra. I sindacati si risvegliano dal sonno della ragione solo per la mensa dell’operaio o dell’impiegato. Triste a dirsi. E mentre i dati confermano che i vaccini servono quanto i comuni vaccini antinfluenzali, ossia diminuiscono il carico sul servizio sanitario nazionale di ricoverati e terapie intensive ma – nonostante promesse e anatemi – non sono efficaci al 100%, sarebbe il caso di ammettere che nessuno ha ancora trovato la panacea per il Covid-19 e, di conseguenza, il rispetto di semplici norme di sicurezza e il diritto a gestire il proprio corpo dovrebbero essere garantiti e tutelati, invece di blaterare di un bene comune sovrastimato rispetto a deficienze evidenti (come i nuovi casi nelle Rsa toscane e il fatto che si parli ancora di classi ‘pollaio’ dimostrano).
La mia ‘Avvelenata’
Ma se nessuno si è indignato per l’accanirsi del Governo nei confronti di spazi – musei, cinema e teatri – dove evidenze scientifiche alla mano non si sono verificati i contagi (e infatti non è stato il tenere aperto il settore della cultura ad aumentare i casi in Spagna, lo scorso inverno, mentre sulla dimostrazione della validità del pragmatismo svedese tacciamo), la colpa forse è anche del teatro, prono ai diktat politici più dei sindacati di categoria, anche perché dipendente dai fondi pubblici ben più che dallo sbigliettamento; e della stessa critica che, non più giornalistica e sicuramente priva di editori forti, a parte occuparsi di convegni e recensioni, ben poco fa per trasformare una battaglia per la sopravvivenza di un settore – in crisi da anni – in una battaglia di diritti e civiltà.
In fondo la critica è oggi un insieme di anime belle che pensano di esercitare un pensiero critico dopo aver seguito corsi in dieci lezioni tenuti da critici falliti, o di fare critica pubblicando un house organ; di accademici e accademici in pensione che, in gran parte, hanno un linguaggio e una visione del teatro ancorata agli anni 90 e risultano ai più incomprensibili; di pubblicisti in erba che i giornali blasonati mandano a fare l’intervista compiaciuta e compiacente per vendere lo spazio pubblicitario; di addetti a uffici stampa teatrali che si scambiano favori e complimenti; e di nostalgici di scuderie e terminologie desuete che hanno reso il teatro un coacervo di ghetti, etichettando la creatività teatrale come ‘ricerca’ e rinchiudendo, di conseguenza, ogni forma espressiva in un termine/categoria di cui vantarsi, quasi si fosse scoperto un nuovo lepidottero. Ci siamo riempiti la bocca di ‘terzo’ teatro, ‘nuovo’ teatro, teatro ‘fisico’ e quant’altro senza accorgerci che il botteghino era scambiato per ‘tradizione’ e che avrebbe vinto la partita di un teatro sempre più borghese e soggetto al potere politico – che si è tradotto in ricatto economico. Mentre i teatri, ossia tutte le espressioni artistiche nate dalla pluralità delle discipline e delle visioni, venivano liquidati come forme di ricerca per esperti del settore, non vendibili o fruibili dal pubblico e, quindi, estromessi dai veri giochi e dagli spazi che contano.
Ma anche coloro che esercitano il mestiere del teatro, con velleità eccessivamente artistiche, si sono crogiolati nel sentirsi un’élite (sebbene sempre più affollata di pretendenti al trono), incapaci di affrontare una sana critica o un dialogo col pubblico, rinchiusi nella loro ipersensibilità – se non nel loro egocentrismo. Ogni sana critica è stata ostracizzata o si è autolimitata per non essere esclusa dal banchetto sempre più misero. Persino quando svuotati, nella loro ripetitività auto-referenziale, non si può osare porre un dubbio perché l’artista ha il fuoco sacro e non è dato spegnerlo – ne morirebbe. L’operaio e l’impiegato, al contrario, come il delegato sindacale o il pubblicista a 5 euro ad articolo imparano presto a subire critiche o, peggio, minacce di licenziamento, ramanzine e lettere di richiamo senza poter mai opporre la propria sensibilità a difesa da profluvi di vessazioni per uno stipendio, spesso, da sopravvivenza. Ma si sa… non sono animati dal sacro fuoco dell’arte e, quindi, sarebbero ‘bruti insensibili’ al pari degli altri ‘animali’.
Rispondete: il teatro di Shakespeare era di ricerca o di tradizione? Era il teatro del suo tempo. Scambiare il teatro mattatoriale o, peggio, i volti televisivi per quello del nostro tempo – o ‘di tradizione’ – e ogni altro prodotto per un filone di ricerca da denominare, da trasformare nel cavallo sul quale il critico costruisce una scuderia per competere in un’arena critica autoreferenziale, fatta di convegni noiosi dove gli stessi nomi ripetono i medesimi concetti se non da 20, da ben 30 anni, ecco a cosa ci ha portati. Se il teatro è asfittico, noi siamo residuali. E se all’operaio o all’impiegato basta un piatto di fagioli, non arricciamo il naso, perché noi cosa chiediamo ormai a un festival o a un direttore di teatro?
Guccini cantava la sua:
Questa è la mia Avvelenata.
Chi sente l’esigenza del teatro?
Il refrain è che il teatro è sopravvissuto alla peste così come ai puritani e sopravviverà anche al Covid-19. Forse. Ai tempi della peste, come di Cromwell, le alternative ai guitti della Commedia dell’Arte o ai commediografi e tragediografi in voga erano poche, ma oggi è diverso.
Facciamo come esempio ciò che è accaduto al giornalismo e all’editoria. Sono morti a causa dell’online o perché la gente si è stufata di spendere per notizie e visioni che sapeva di parte ancor prima di leggerle? Per mancanza di firme che fossero anche contenuti, di idee fuori dal coro, di inchieste scomode, di pensieri differenti? È nato prima l’uovo o la gallina? La rete ha distrutto la carta stampata o ha semplicemente riempito il vuoto lasciato da editori che rischiavano i propri fondi solo per ottenere il consenso nelle urne o per altri scopi sempre di parte? Perché – non prendiamoci in giro – a questo sono sempre serviti i nostri quotidiani – di partiti o industriali. In Italia è pressoché sempre mancata la figura dell’editore puro, con capitale e idee e che non volesse condizionare i giochi ma raccontarli, investendoci e credendo nell’editoria come impresa. Al massimo i grandi quotidiani si (e ci) concedevano la firma dissenziente per dare parvenza di democrazia a un sistema ingessato. E se oggi quegli stessi quotidiani rincorrono il terrorismo mediatico per un click in più – essendosi trasformati essi stessi in online ma non per questo aver riconquistato una credibilità ormai persa – e pare impossibile leggere un pezzo almeno pragmatico (solo qualche online – e non ex quotidiano – si difende, come Wired o L’Antidiplomatico per citare due esempi) la colpa di chi è?
Dei quotidiani gli italiani hanno imparato a fare a meno, come della Commedia dell’Arte. Certi che per il teatro sarà diverso?
Graffiti e murales
C’erano una volta un uomo, una donna, dei bambini e dei vecchi, che vivevano in una valle lambita dalle placide acque dell’Ardèche. Il clima era mite, la vita serena e uomini e donne si dedicavano oltre che alla pesca, alla caccia e alla raccolta di bacche e frutti, alla scultura – incidendo figure muliebri nella pietra o nell’avorio – e alla creazione di ornamenti con conchiglie, denti di animali e pietruzze colorate. Qui le popolazioni crearono le pitture rupestri di Chauvet.
Poi, nei secoli, gli uomini hanno trasformato quel bisogno di raccontare e raccontarsi in un mestiere, commissionato da ricchi prelati o nobili per autoglorificarsi, borghesi in cerca di affermazione sociale e di nuovi status symbol e, infine, un mercato dell’arte gonfiato che trasformava la creatività – più o meno autentica, più o meno presunta – in prodotti di consumo per un’élite che vedeva nell’arte stessa una nuova forma d’investimento speculativo.
E poi arrivarono i Rivera e i Siqueiros, e più tardi i Blu e i Banksy, a raccontare e a raccontarsi, come gli uomini e le donne di Chauvet, tentando nuovamente di comunicare aldilà delle committenze qualcosa di più autentico – un’ideologia, una condizione sociale, i simboli di una festa popolare, una denuncia, una speranza, un qualche messaggio.
Forse anche il giornalismo e il teatro attendono la loro Chauvet.
(La prima parte del pezzo è pubblicata su https://teatro.persinsala.it).
Venerdì, 27 agosto 2021
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.