Rifugio nell’oblio assoluto e dispersione del ʻnoi’
di Alessandro Alfieri
Il senso di fine e di morte della sensibilità tipicamente decadente degli Smashing Pumpkins, intensificata spesso dai costumi retrò che alludono al XIX secolo e all’immaginario espressionista, era già presente ai tempi di Siamese dream (1993); pensiamo ai versi di Today, dove l’operazione espressiva sembra seguire a distanza di decenni quella dei brani ʻpop anti-pop’ dei Velvet Underground: infatti, accompagnato da un arpeggio apparentemente solare e conciliante, il brano racconta la giornata perfetta per togliersi la vita, quasi nella forma dell’ultima lettera lasciata sul tavolo. A intensificare il senso di tragedia, proprio questa tensione paradossale tra arrangiamento e spietatezza delle parole del testo. Il messaggio degli Smashing Pumpkins è infatti rimasto costante: il vuoto non può che essere colmato con la morte (“Dio è vuoto proprio come me” in Zero, 1995; “Nonostante tutta la mia rabbia resterò sempre un topo in gabbia” in Bullet with Butterfly Wings, 1995), una morte effettiva e tragica raccontata nei testi dei brani o la sua trasfigurazione iconico-performativa (l’attrazione per il cadaverico e per le simbologie mortifere e cimiteriali), che è anche la risposta che il progetto Smashing Pumpkins, trascinandosi nel corso dei decenni mutando proposta musicale e formazioni, ha dato a questa fissazione tanatologica.
L’energia rock della band di Billy Corgan non è quella dei Foo Fighters e nemmeno quella dei Pearl Jam, che dalla loro avevano la matrice blues rock capace di tradurre liricamente e malinconicamente la morte. I Pearl Jam infatti riescono a riscattare la loro musica nell’operazione romantica, perché per loro il passato al quale attingere nostalgicamente è effettivo e concreto, spesso attraverso il racconto retrospettivo in prima persona di molte elegiache dediche al passato. Negli Smashing Pumpkins la malinconia e lo struggimento sono strutturali perché lo sguardo è fisso su una dimensione mitica irrecuperabile perché mai realmente esistita; se il racconto in 1979 (1995) e in Try Try Try (2000) sembra agganciarsi a esperienze concrete che proiettano la nostalgia o la narrazione drammatica in un contesto e in una situazione ben identificabili (l’adolescenza perduta, la giovinezza spensierata, il disagio di una vita ai margini della società, si sente in 1979 “eravamo convinti che non avremmo mai visto finire tutto questo”), invece nella maggior parte dei casi le allusioni si riferiscono a scenari visionari, arcadie e paradisi artificiali nei quali volersi rifugiare per sempre in maniera decadente. “Porcelina degli oceani blu” (in Porcelina of the Vast Oceans, 1995) è una sirena che ammalia con la sua voce per portarti via dal mondo, ancora una volta la fuga è la più radicale, ovvero la morte. In uno dei maggiori classici della band, Tonight Tonight (1995), il tono sofferto dei versi di Corgan sono versi d’amore, ma evidentemente di un amore impossibile in questa vita e realizzabile altrove: “l’impossibile è possibile stanotte”, fino all’invito demoniaco “credi in me come io credo in te”, accompagnato da tonalità armoniche e dagli archi che rendono suadente quello che è un pianto disperato e pietrificante. Questo altrove è lo sprofondamento assoluto nella memoria, nel passato dell’infanzia, ma anche qui nulla di concreto: sembra più un invito ad abbandonare il presente e il mondo per raggiungere il circolo più profondo dell’oblio, ancora una volta la morte.
Straordinari a tal proposito i versi che irrompono nella seconda strofa, che sono effettivamente fuori contesto perché all’astrattezza generale del brano pongono alcuni riferimenti concreti: “una casa in riva al lago, la casa dove sei nata”. Una casa forse immemorabile perché obliata per sempre, o forse connessa all’età in cui ancora non è possibile registrare le esperienze, ancora una volta il punto estremo dove fuggire per sempre; e non è un caso che come ci insegnano Wolfgang Goethe (nelle Affinità elettive) e Ivan Graziani (in Lugano addio), quelle del lago sono acque di morte perché immobili e ferme.
La voce ʻnasale’ e acuta, a suo modo già fastidiosa e stridente, di Billy Corgan la ritroviamo in Brian Molko dei Placebo: le sonorità stesse sono striscianti e spigolose, ancora più essenziali dal momento che il rock smarrisce il vigore energetico dei Foo Fighters per diventare tagliente e acido. Così, i Placebo si reinseriscono pienamente nella tradizione inaugurata proprio dal garage rock e dai Velvet Underground: rock come strumento di espressione non trasfigurata del dolore e della tragicità esistenziale. Per questo, come per Sunday Morning, Pure Morning (1998) allude a una ʻmattina pura’ dove sorge l’alba che fa venire la pelle d’oca, mentre i versi delle strofe seguono il flusso di coscienza del protagonista che riflette sull’amicizia in maniera crudele e drammatica: un’ultima lettera lasciata prima di un suicidio (come il video di Nick Gordon ci racconta) o il preambolo di una disgrazia. L’arrangiamento ipnotico altalenante e felpato, così come la linea vocale, sono per questo soffocanti; più energica e apparentemente propositiva è You Don’t Care About Us dello stesso anno, che accenna una dimensione collettiva, il ʻnoi’, in maniera però disillusa e struggente, fino ad arrivare ai versi di Every You Every Me: “Invece di essere stressato, riposo qui come incantato, perché non c’è nient’altro da fare”. Il ʻnoi’ è diventato in maniera sardonica “ogni me e ogni te”, ancora un tunnel senza via di fuga nella parcellizzazione dei tanti individui dispersi nel vuoto di senso.
Estratto dal volume di Alessandro Alfieri, Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio, Il Melangolo 2019 (tutti i diritti riservati).
Venerdì, 20 agosto 2021
In copertina: Cover dell’album Mellon Collie and the Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins (1995)