L’ultima spiaggia
di Simona Maria Frigerio
Mia figlia ha quattro anni e, come tutti i bambini della sua età, ama addormentarsi ascoltando una fiaba. Preferibilmente sempre la stessa: «Mamma, mi racconti di quando siamo arrivati dall’Africa?». Mai che mi chieda Il pappagallo e la pozza d’acqua o Chochibio e la gru: lei ha già il piglio di uno Zola – vuole la vita autentica, vissuta e restituita fedelmente senza tanti psicologismi.
Mi siedo accanto a lei, raccolgo alcune tavole schizzate per un libro che sto illustrando sull’Africa e metto insieme le idee per usare quelle parole, sempre le stesse, che la rassicurano e la cullano prima di dormire.
«Per anni e anni, il nostro popolo ha vissuto sulle sue gambe. Dovevamo camminare nella savana anche per venti chilometri al giorno per andare a prendere l’acqua, e altrettanti per tornare al villaggio. E dovevamo correre veloci se volevamo catturare la gazzella, e superare colline riarse dal vento caldo se volevamo andare al mercato a comprare un animale o un aratro o dei semi – perché quelli che ci vendevano non producevano piante che davano, oltre ai frutti, nuovi semi. E a volte, per gioco, correvamo per inseguire il vento. Ma il vento nessuno lo vede, e allora come fai ad acchiapparlo?»
«Spargi petali nell’aria e li insegui!», mia figlia batte le mani felice: quella risposta le dà un’enorme soddisfazione – quasi avesse scoperto il segreto della vita.
«E a volte…», riprendo: «Dovevamo stringerci alle nostre gambe per stiparci in quaranta in un cassone di camion anche per giorni, oppure in un barcone. E se affondava dovevamo sbatterle più forte che potevamo per tenerci a galla, ancorati a un salvagente di fortuna come un’asse di legno o uno di quei pneumatici fissati con le corde agli scafi malandati. E poi le nostre gambe ci portavano a errare per l’Europa: clandestini, invisibili come il vento».
Mia figlia accenna di sì col capo. Questa parte la commuove sempre, non l’ha vissuta né l’hanno vissuta i suoi compagni di asilo o di giochi ma qualcosa, dentro di lei, se la ricorda come se la memoria fosse sempre collettiva e ogni mente umana, quasi una cellula del tutto, partecipasse dello stesso ricordo. Per sempre.
«Poi, un giorno, arrivò una terribile epidemia portata sulle ali degli aeroplani da business men in giacca e cravatta. Dal nord al sud del mondo il virus dilagò come già aveva fatto l’Aids. Ma per questo nuovo virus l’intero pianeta e le sue migliori menti si attivarono prontamente e, nel tempo di un caffè, inventarono non uno ma tanti vaccini, anche se per il nord del mondo solamente pochi erano davvero efficaci e quasi tutti quelli che erano prodotti al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti venivano scartati. E così l’Africa si trovò senza armi contro il virus, e ancora una volta il nord del mondo decise che era meglio mettere prima al sicuro le ricche popolazioni bianche che vivevano nelle torri di acciaio e vetro e che si erano asserragliate in casa con cibo take-away, la TV spazzatura e una cosa che chiamavano Dad, e poi avrebbero pensato anche a noi, nei nostri villaggi di paglia e fango».
«È stato allora che siete venuti qui tu e papà?»: sorrido alla domanda di mia figlia perché, sebbene lei sappia già la risposta, me la pone ogni sera. E ogni sera accenno di no col capo e riprendo: «Allora i grandi medici/stregoni del nord cominciarono a distribuire il vaccino ai bianchi. Una dose. E l’Africa aspettava… Poi una seconda. E l’Africa aspettava sempre. E poi persino una terza, mentre il virus mutava continuamente… fino a diventare un raffreddore!»
«Eccì!» fa mia figlia, che ama interrompere per interpretare anche lei un qualche ruolo in questa, come in ogni fiaba che le racconto.
«Fu un bel giorno quello, quando l’Africa si svegliò e capimmo che avevamo avuto tutti il raffreddore e che eravamo guariti… ma i nostri problemi non erano scomparsi: la terra era arida, l’acqua inquinata, le nostre riserve di minerali e pietre preziose facevano gola al nord del mondo e i nostri capi le svendevano per arricchire se stessi e mantenerci nella povertà. Dovevamo andarcene, pensavamo, per avere un futuro… ».
«E fu allora che veniste qui?»
«Un giorno papà e io andammo al mercato ma vi era silenzio al mercato: la gente quel giorno doveva essere andata tutta a qualche festa perché le strade erano deserte e tante automobili nere e lustre erano state abbandonate ai bordi dei marciapiedi, con lo sportello aperto e perfino, in qualche caso, il motore accesso…»
«I bianchi erano tutti corsi in bagno?»
Rido – questa possibilità non l’avevo ancora contemplata… «Non so dove fossero andati tutti, ma papà e io salimmo su una di quelle belle vetture con la chiave inserita nel cruscotto e partimmo. In quel momento non sapevamo esattamente dove saremmo arrivati né quanta benzina avessimo ma, a mano a mano che ci avvicinavamo alla costa, notammo tante coppie come noi, e altre più anziane con bambini anche piccoli, o più giovani che stentavano ad arrivare al volante, e tutti andavamo verso la costa come un’enorme marea – di limousine nere! Non ci chiedevamo cosa avremmo fatto arrivati là o come saremmo potuti tornare indietro senza i soldi per la benzina. Andavamo, ignari e felici. Come se fossimo tutti chiamati a una scampagnata per la festa nazionale».
«Com’era il mare?»: mia figlia adora il mare ma, abituata a quello di qua, non riesce a immaginarselo caldo.
«Era lì, a portata di mano, ma come fare ad attraversarlo per andare fino in Europa? Se avessimo potuto usare le nostre gambe come facevamo nella savana, avremmo potuto camminare fino alla costa opposta, ma il mare – liquido – ci separava invece di unirci… Finché, guardandoci intorno, notammo che c’erano decine di barconi da pesca e gommoni e fuoribordo e persino motovedette che giacevano abbandonate nel porto. Nessuno a pretendere i soldi per il passaggio. Nessun mediatore ma nemmeno un pilota, e così alcuni di noi, che avevano fatto i pescatori o avevano già tentato la traversata e poi erano stati arrestati e rispediti indietro, si misero al timone o ai motori o issarono le vele e partimmo, ancora una volta senza sapere dove stavamo andando o quanto carburante avessimo ma finalmente il futuro sembrava una meta raggiungibile, come la costa sull’altra sponda».
Guardo mia figlia sperando si sia addormentata ma lei apre prontamente un occhio: il meglio deve ancora venire: «Quando misi piede sulla terra di qua pensai che non mi faceva alcun effetto. Non mi sembrava che l’aria fosse più profumata o il cielo più terso, anche il clima era simile: forse un paio di gradi in meno ma perché, nel frattempo, era scesa la notte. Pensai che avremmo fatto meglio a scappare, a nasconderci, prima di essere catturati e rispediti aldilà del mare, ma tutto taceva: l’unico suono che percepivo proveniva da noi, da quella marea umana che stava sciamando da barche e gommoni verso l’entroterra per poi spingersi a nord, sempre più a nord, oltre i Pirenei, mentre altri attraversavano Passo Annibale e scavallavano le Alpi, e ancora più a nord, tra città di cemento e acciaio silenziose, vuote, simili a scheletri impietriti un attimo prima di sgretolarsi come castelli d’argilla. E in quegli scheletri una parte di noi si fermò a infondere nuova linfa vitale; altri ripopolarono i villaggi alpini imparando ad allevare capre e mucche – grasse come otri in confronto alle nostre, e a produrre formaggi burrosi e pere e mele e frutti che non avevamo mai visto e tanto meno mangiato. E altri ancora, come noi, arrivarono fin qui per scoprire la neve e provare il pizzicore del freddo sulla pelle e a usare gli sci per andare a fare la spesa in enormi supermercati caldi come la savana, in inverno, e freddi come il polo nord, in estate. E pian piano ci abituammo alla nuova esistenza e iniziammo a capire le lingue che erano ormai morte ma che, essendo scritte, continuavano a parlarci. E leggendo i loro giornali, ormai impolverati e sbiaditi, scoprimmo cos’era successo. Scoprimmo che mentre noi attendevamo di essere salvati, mentre a noi centellinavano dosi di vaccini oltretutto poco adatti a popolazioni giovani come le nostre, il nord del mondo si era inoculato una terza dose di vaccino senza calcolare quanti anticorpi avessero ancora le persone nel proprio sangue né quali effetti collaterali producesse una tale quantità di RNA virale inserito nel corpo dei più giovani e dei bambini… e tante altre cose che non abbiamo mai capito… Ma sai…:
“Io penso che col tempo i Jim Bond finiranno per conquistare l’emisfero occidentale. Certo non sarà nella nostra epoca e certo mentre si diffonderanno verso i poli sbiancheranno daccapo alla maniera dei conigli e degli uccelli, di modo che non spiccheranno tanto nettamente sulla neve. Ma saranno sempre Jim Bond; e così in poche migliaia d’anni, io che ti guardo sarò disceso anch’io dai lombi dei re africani*”».
Un fallimento annunciato
Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiede a Europa e Stati Uniti di vaccinare l’Africa prima di inocularsi una terza dose (e medici e ricercatori fanno presente i rischi di effetti collaterali, la mancanza di studi indipendenti e la non conoscenza dell’efficacia di tale procedura, viste anche le cosiddette varianti – vedasi l’intervista dell’Huffington Post a Silvio Garattini, presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri), i dati del Covax sono l’ennesimo schiaffo a un’idea comune di umanità. Ai primi di agosto il programma aveva consegnato 163 milioni di dosi in tutto il pianeta sulle 640 milioni preventivate. Ma non basta. Nonostante la mancanza di studi indipendenti su efficacia e pericolosità, come faceva a fine marzo un docente israeliano ad annunciare che a settembre, nel suo Paese, sarebbe stata inoculata la terza dose di vaccino (https://www.inthenet.eu/2021/03/26/voci-da-israele/)?
Nel frattempo, l’AstraZeneca Covishield – prodotto dal Serum Institute in India – e utilizzato sia dagli indiani sia da Covax, non essendo stato approvato da Ema, non è riconosciuto per il cosiddetto Green Pass – che assicura la libera circolazione solamente a coloro che hanno utilizzato la versione Vaxzevria – identica ma prodotta in UK ed EU (https://healthpolicy-watch.news/most-covax-vaccine-recipients-excluded/). Un ulteriore mezzo per erigere muri anche senza usare i mattoni? Una nuova forma di Apartheid che nasce dall’arroganza di credere che noi occidentali, meno del 10% della popolazione mondiale, do it best?
Eppure che la narrazione ufficiale stia facendo acqua da tutte le parti dovrebbe essere chiaro a molti. Virus che non si sarebbero modificati (ricordate le guerre mediatiche e gli anatemi tra ricercatori di un anno fa?) e ai quali, invece di dare un nuovo nome, concediamo la ‘variante’. Vaccini che ci avrebbero coperti al 100% dal contagio e poi non era così. Che ci avrebbero impedito di finire in ospedale e poi non era così. Che ci avrebbero evitato la morte e poi non era così. Che ‘bucano’ le varianti. Che non danno effetti collaterali e poi li danno, ma ‘i benefici sono superiori ai rischi’. Che coprono ottimamente almeno per i 9 mesi del green pass e poi dobbiamo fare una terza inoculazione solo dopo 6 (affermano, guarda caso, le Case farmaceutiche). Il tutto condito dall’inefficienza della politica che, invece di aumentare posti letto, medici, infermieri e terapie intensive, scarica per la terza volta (dopo i lockdown di febbraio 2020 e ottobre 2021) una possibile nuova ondata epidemica sulla psiche e le economie della cittadinanza.
E tacciamo sull’efficacia dello Sputnik V ormai riconosciuta su importanti riviste scientifiche quali The Lancet e Nature e che si sta rivelando efficace e privo di effetti collaterali gravi in circa 70 Paesi al mondo ma che l’Ema persiste a non approvare. Il problema sarebbero i possibili effetti collaterali non ancora rilevati. Al contrario, i vaccini già approvati e prodotti da aziende europee o statunitensi possono dimostrarsi in grado di causare trombosi o pericarditi e miocarditi, ma ovviamente questo non ne modifica l’utilizzo, solo il bugiardino, perché… perché il pensiero unico genera mostri.
*(tra virgolette, alcune righe tratte da Assalonne, Assalonne!, di William Faulkner, traduzione di Glauco Cambon per Garzanti).
Venerdì, 20 agosto 2021
In copertina: Foto di Ulrike Mai da Pixabay.