A Palazzo Strozzi frammenti made in US
di Simona Maria Frigerio
Due momenti fondamentali per la storia statunitense, due date che hanno coinciso con la perdita dell’innocenza. Il 1961, anno dell’elezione di JFK, il Presidente santificato dopo l’omicidio (i cui mandanti restano tuttora dubbi e, non a caso, le conclusioni della Commissione Warren sono state contestate a più riprese) ma che fu l’artefice dell’intensificazione della Guerra in Vietnam e avallò l’invasione della Baia dei Porci; e l’11 Settembre 2001, quando gli statunitensi scoprirono che non tutto il mondo condivideva il sogno americano o l’arroganza dei paladini della democrazia – esportata sulla canna di un fucile.
La mostra si apre con alcuni monocromi, come la Cattedrale all black di Louise Nevelson (Sky Cathedral Presence, 1951/64) e N. 2 di Mark Rothko (1963), oltre alle wunderkammer in miniatura di Joseph Cornell del 1960 e 1965 – dove la caducità dell’esistenza pare specchiarsi in quella dei materiali impiegati per rappresentare un universo racchiuso in un ‘guscio di noce’.
La sala successiva è dedicata a Andy Warhol, dove spicca la serie di serigrafie su carta dedicata non a una icona pop bensì a un tema che impegnò seriamente l’artista. Electric Chair (1971) è un’opera fondamentale per Warhol che prese una posizione politica chiara contro il simbolo dell’omicidio di Stato, ossia la pena di morte. Per una volta la sua immagine iconica non fu la star di turno (come la Jackie Kennedy in gramaglie anch’essa in mostra), né una lattina o un fustino di detersivo a glorificare il consumismo a stelle e strisce, bensì un simbolo di violenza e morte di quegli States tutto boom economico e apparenze che ne avevano decretato il successo. Quasi a fargli da specchio, The Green Diamond Eat, The Red Diamond Die (1962) di Robert Indiana, che sintetizza in due parole l’opulenza mortifera occidentale. Altrettanto interessante l’opera di Claes Oldenburg (svedese naturalizzato statunitense), Shoestring Potatoes Spilling from a Bag, dove è ancora una volta l’elemento ‘eat’ a dominare: il fagocitante consumistico bisogno di ingurgitare – cibo spazzatura, ideologie, popoli, materie prime e sogni infranti – tipicamente made in US, che pare trovare la propria forma iconica in un impiccato, che si staglia di fronte alle sedie elettriche di Warhol.
Sala a sé stante quella dedicata ad alcuni elementi di scena di due coreografie di Merce Cunningham, Minutiae, del 1954, e Walkaroundtime, del 1968. Per tali lavori, molto diversi fra loro e firmati, rispettivamente, da Robert Rauschenberg e Jasper Johns occorrerebbe aprire un capitolo a parte così come sedersi di fronte ai video in mostra (peccato non ve ne fosse la possibilità) per comprendere l’interazione raggiunta tra elemento coreografico e scenografico ma anche per approfondire il senso degli interventi artistici quando si relazionino con le arti performative. Queste opere, quindi, avrebbero bisogno di un contesto diverso per essere apprezzate compiutamente.
L’op art ha una sala a sé, dove spiccano Yellow Corner Piece di Fred Sandback (1970) con un’essenzialità di luci/ombre che rimanda a un Fausto Melotti o a un Alexander Calder, e i tubi fluorescenti di Dan Flavin (Untitled, 1966/69), tecnicamente vicino ai neon di Mario Merz. Della serie che, al di qua e aldilà dell’oceano, le suggestioni e le correnti artistiche hanno sempre continuato a interagire nel corso dell’intero Novecento.
Le foto di Robert Mapplethorpe, in epoca di pandemia, riaccendono i riflettori sul virus che, nel 2021, ha già mietuto quasi un 1 milione di vittime (worldometers.info). Non stiamo parlando del Covid-19 bensì dell’Aids – che non è scomparso (circa 40 milioni di individui ne sono affetti) né ha smesso di uccidere o contagiare e per il quale non si è ancora trovato un vaccino. Il suo autoritratto e i Two men dancing rimandano con solamente ai milieu che il fotografo ha eletto a oggetto di indagine per il suo obiettivo, dal mondo sadomaso a quello gay, ma soprattutto – nel secondo – riflettono un universo ancora marginalizzato, ai primi degli anni Ottanta del Novecento, e stigmatizzato dall’arrivo dell’HIV, che si appropria impudicamente dei costumi accreditati dall’America Way of Life – dalla reginetta del ballo alla festa di diploma a quelle dei college, messi da poco alla berlina da Animal House di John Landis. Accanto, le fievoli luci da albero di Natale o da festone di una festa finita, di Felix Gonzalez-Torres che rimandano, come i pezzi di stoffa del NAMES Project AIDS Memorial Quilt, ossia la coperta dei nomi, ai cari deceduti ma anche alla forza della solidarietà e della compartecipazione per sconfiggere il terrore del contagio – ieri come oggi.
La Fountain di Sherrie Levine che rinvia, ovviamente, a quella di Duchamp arriva semplicemente troppo tardi. Colpisce, al contrario, Analog di Mark Bradford (del 2004 e, quindi, posteriore al quarantennio ufficialmente analizzato dalla mostra), per quel suo sintetizzare in un materiale povero e scorticato i resti di una società che, se messa a nudo, dimostra di essere ormai ben povera cosa.
Si chiude con un video che utilizza il teatro delle ombre, ossia le figure ritagliate nella carta e realizzate da Kara Walker, che denuncia schiavismo, violenza e razzismo nel Sud degli Stati Uniti – temi fortemente politici conditi però con un certo spirito sadomaso e una dose di volgarità che – più che grottesca – pare gratuita, e che non aggiungono nulla ma ci pongono di fronte al dubbio sul perché da un cineasta si pretenda grande precisione tecnica, ma da un artista meno. Del resto, dopo William Kentridge o José Antonio Suárez Londoño, le opere di Walker non dimostrano grande originalità.
L’intero percorso dell’esposizione, essendo frutto di scelte ma non di una chiara matrice (correnti, impegno politico, milieu culturale, o altro), difetta di una certa coerenza. Più che sull’arte statunitense di ben 8 lustri (e non americana, dato che mancano gli artisti di tutto il resto del continente), ci si trova di fronte a frammenti di quell’arte eletti per ragioni diverse. A volte inseguendo una ragione politica, altre semplicemente per affinità estetiche; e poi, ancora, il forte accento sul black power, la parentesi scenografica e le due sale dedicate alla Walker.
La mostra continua:
American Art 1961-2001
a cura di Vincenzo de Bellis (Curator and Associate Director of Programs, Visual Arts, Walker Art Center)
e Arturo Galansino (Direttore Generale, Fondazione Palazzo Strozzi)
Palazzo Strozzi
piazza Strozzi – Firenze
fino a domenica 29 agosto 2021
orari: da lunedì a venerdì, dalle ore 14.00 alle 21.00; sabato, domenica e festivi dalle ore 10.00 alle 21.00
Venerdì, 13 agosto 2021
In copertina: Robert Indiana (Robert Clark; New Castle, Indiana 1928–Vinalhaven, Maine 2018) The Green Diamond Eat the Red Diamond Die 1962, oil on canvas, 215.9 x 215.9 cm each of 2; Minneapolis, Walker Art Center. Gift of the T. B. Walker Foundation, 1963© Robert Indiana By SIAE 2021. (Foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Palazzo Strozzi)