Dalla miopia dei sindacati, alle proposte di Giorgia Meloni e Stephanie Kelton
di Simona Maria Frigerio
L’immaginazione al potere rivendicavano i sessantottini sulla scia del filosofo Herbert Marcuse.
Un approccio glocale ai temi del lavoro, dei diritti e delle migrazioni, al rispetto per l’ambiente, a uno sviluppo inclusivo e attento alle diversità, erano alcuni tra i temi del Genoa Social Forum che si riunì nelle giornate del G8 vent’anni fa.
Nel 2021, però, ci ritroviamo con i medesimi problemi di mezzo secolo (o vent’anni) fa, acuiti dal surriscaldamento globale, dalla mancanza di alternative economico-politiche di ampio respiro che vadano oltre la poltrona e la contingenza per aprirsi al mondo e, soprattutto, per sognare e realizzare un futuro diverso. Se nel Sessantotto milioni di giovani scendevano in piazza per rivendicare la possibilità utopica (laddove, utopistico equivarrebbe a irrealizzabile) di cambiare i modelli di riferimento, innanzi tutto a livello familiare e sociale – dato che un patriarcato indiscusso dominava ancora l’Occidente – e poi economici; nel 2001 si partiva dall’analisi delle condizioni economiche per far discendere proposte praticabili (ma utopistiche, visto il clima politico uniformemente pro liberista e capitalista di allora) per un cambiamento economico che avrebbe riverberato positivamente anche sugli assetti sociali e patriarcali, presenti ancora in numerose società. Oggi milioni di italiani scendono in piazza per fare caroselli per la vittoria agli Europei (con roboante retorica politica che mette sullo stesso piano gli ultimi 16 mesi e una notte di calcio); mentre nel Regno Unito – dopo un anno e mezzo di restrizioni alle libertà individuali e di movimento – i lacciuoli del potere (stretti grazie a una visione prettamente sanitaria – e paternalistica – della qualità della vita, invalsa in gran parte d’Europa e non solo) si allentano per permettere a decine di migliaia di tifosi di accalcarsi sugli spalti di uno stadio (mentre a teatro o al cinema si devono mantenere le distanze).
Ecco come l’afflato per un cambiamento si sgonfia di fronte al panem et circenses sempre in voga. Ma il lunedì mattina ci si alza dopo ore di caroselli e urla invasate, e cosa resta? Lo sblocco parziale dei licenziamenti. Con quei 422 lavoratori, ad esempio, licenziati dalla GKN di Campi di Bisenzio via email: “è la digitalizzazione, baby!”
Da Maurizio Landini a due donne che la pensano diversa-mente: Giorgia Meloni e Stephanie Kelton
Le abbiamo scelte, Meloni e Kelton, non solamente per i contenuti delle loro proposte ma anche per tornare a un assunto del ʻ68: il superamento dell’idea patriarcale della società e, quindi, spazio a voci femminili che si levino a proporre un’altra rotta per il presente.
Idee alternative concrete, di cui una decisamente contraria alla deriva liberista che, come preconizzato nel 2001, porterebbe al disastro non solamente il pianeta ma anche il nostro modello di sviluppo predatorio e disequilibrato. Perché non basta dire no alle bottiglie di plastica, se non si torna al diritto all’acqua potabile, accessibile e a costi controllati (o, meglio, gratuita) per tutte e tutti – nel nord come nel sud del mondo. Perché non basta dire no alle bottiglie di plastica e poi considerare imprese essenziali quelle che le fabbricano – chiudendo nel frattempo l’istruzione e la cultura. Perché non basta dire no alle bottiglie di plastica per poi finanziare – anche con fondi pubblici – un sistema capitalistico che mira all’autoconservazione e a un lavoro che non si identifica con sogni e progetti, speranze e interessi dell’individuo lavoratore, bensì con tempi/modi/prodotti imposti dal sistema stesso. Perché quando ci si alza il mattino – caroselli o meno – quanti vanno al lavoro perché ne hanno desiderio e quanti solo perché ne hanno bisogno? E intanto la vita, la nostra vita passa e va…
E quindi, nel prevedibile momento di crisi economico-sociale che si sta delineando (e che è inutile continuare a rimandare fingendo che ‘andrà tutto bene’), occorre ripensare le basi stesse del nostro progetto di sviluppo economico, e le priorità dello Stato – inteso come emanazione delle istanze e dei diritti/doveri dei cittadini e non solamente come parte di un meccanismo geopolitico predatorio e atlantista.
Spiace dirlo ma mentre il sindacato continua a battersi per una visione garantista solamente di chi genera prodotti spesso consumistici e/o spazzatura – e non sapere, servizi, cultura, qualità della vita – e può ancora contare su un contratto a tempo indeterminato, è tempo di un deciso scarto perché, come diceva Einstein, “La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi… È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie”. Occorre davvero che l’immaginazione vada al potere.
Di fronte, quindi, alle continue richieste di Landini e dei suoi omologhi di proseguire con il blocco dei licenziamenti (sperando in un volano di ripresa che stenta ad arrivare, anche perché a ogni nuovo passo in avanti – vedasi discorso sulle varianti del covid-19 – si attuano battute d’arresto e la società occidentale stenta ancora ad ammettere che con questo virus occorrerà convivere; sarebbe meglio che i giovani si contagiassero e si immunizzassero anche naturalmente e si accetti che si morirà di coronavirus, come di cancro e infarto), due alternative che abbiamo sentito e letto ci paiono più interessanti. Se la prima è pragmatica e ancora nel solco della difesa di quelle aziende che sui prodotti consumistici hanno costituito capitali finanziari gonfiati, la seconda è utopica (ma non utopistica); se la prima nasce a destra, la seconda sicuramente a sinistra. Per par condicio e diritto a una pluralità di informazioni e idee (come dovrebbe garantire il giornalismo) le pubblicheremo entrambe.
Da un futuro passabile a uno rivoluzionario
In questi giorni la Presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha fatto una proposta, proprio in merito ai licenziamenti, costruttiva ed equilibrata. Invece di erigere barricate contro l’inevitabile, Meloni ha dichiarato riguardo allo sblocco (a diversi organi di stampa): «Secondo me è un tema secondario, la questione principale è impedire che le aziende chiudano, perché la gente sempre in mezzo alla strada si ritrova. Le risorse andavano messe sulla continuità aziendale e per mantenere i livelli occupazionali. Serve, e l’ho detto anche a Draghi, un piano triennale di incentivi fiscali e burocratici per le aziende che oggi fanno il sacrificio di tenere aperto, perché per molti imprenditori può essere più vantaggioso chiudere».
Dall’altro lato, in tempi non sospetti, Stephanie Kelton sapeva già essere più lungimirante. L’immaginazione, con questa autrice ed economista, va davvero al potere. In Il mito del deficit, si svincola dalle pastoie operaistiche di fine Ottocento, o dagli aiuti statali al sistema in essere, e sembra rivendicare il BIL (ossia l’idea che occorra misurare il benessere dei popoli, la loro qualità di vita, invece del prodotto interno lordo).
A proposito del lavoro, Kelton scrive (pagine 116/117): “Il governo stabilisce un pacchetto che comprende un certo salario (più i benefit) per tutti coloro che sono in cerca di lavoro ma non riescono a trovare un’occupazione adeguata. Molti economisti MMT [Modern Monetary Theory, n.d.g.] raccomandano che i posti di lavoro offerti dal programma siano orientati al settore dell’economia della cura. In generale, ciò significa che il governo si impegnerebbe a finanziare occupazioni finalizzate a prendersi cura dei nostri concittadini, delle nostre comunità e del nostro pianeta. Il programma di lavoro garantito mette così a disposizione all’interno del mercato del lavoro un’effettiva opzione pubblica, con lo Stato che fissa un salario orario e permette alla quantità di lavoratori impiegati nel programma di fluttuare liberamente. Dal momento che il prezzo di mercato di un lavoratore disoccupato è zero, nel senso che attualmente non c’è nessuno disposto a fargli un’offerta, il governo può creare un mercato per questi lavoratori stabilendo il prezzo che è disposto a pagare per assumerli. Una volta fatto questo, la disoccupazione involontaria scompare, dato che chiunque sia in cerca di un lavoro retribuito si vedrà garantito l’accesso a un impiego a un livello di remunerazione definito dal governo centrale. Il programma di lavoro garantito ha le sue origini nella tradizione di Franklin Delano Roosevelt, che voleva che il governo garantisse l’occupazione come un diritto economico di tutte le persone”.
Ci si svincolerebbe, quindi, dall’idea che lo Stato debba aiutare l’impresa (in una società capitalistica!) per avere ricadute positive sull’occupazione, e si attuerebbero davvero il primo e il quarto articolo della Costituzione italiana, che sanciscono che: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” e “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ma non solo, i fondi pubblici andrebbero alla cura – del cittadino e dell’ambiente – invece che alla produzione di beni di consumo.
Come rivendicavamo vent‘anni fa: un altro mondo è ancora possibile.
Venerdì, 30 luglio 2021
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.