Parola di Maria Grazia Cipriani
di Simona Maria Frigerio
Photo gallery a cura di Lucia Mazzilli (tutti i credits fotografici in didascalia)
Approfittiamo di una pausa nelle audizioni per i partecipanti al laboratorio che la fondatrice e regista del Teatro del Carretto terrà la Giglio di Lucca, per dialogare con lei della storia di una tra le Compagnie più innovative degli ultimi quarant’anni.
Il Teatro del Carretto nasce, infatti, nel 1983 grazie alla visione artistica di Cipriani e del costumista/scenografo Graziano Gregori che, negli anni, è stata in grado di dare forma e corpo a miti ellenici, come Iliade o Le Troiane, a tragedie shakespeariane – pensiamo a Sogno di una notte di mezza estate, Romeo e Giulietta o Amleto – ma anche a favole (quali Pinocchio, Bella e la Bestia o Biancaneve) spogliate della veste edulcorata disneyana e rivestite di quella giusta dose di crudeltà che, sola, può insegnare al bambino cosa sia il male e come vincerlo.
Il nostro dialogo parte però da uno tra gli ultimi lavori della compagine lucchese, Le Mille e una Notte, spettacolo targato 2014, che non solamente denuncia la violenza insita nella cornice della raccolta di racconti (dato che Shahrazād inventa storie per salvarsi letteralmente la vita e non vi è nulla di romantico in ciò) ma si fa dirompente quando mostra – con le ‘armi’ proprie del teatro – la pervicacia della violenza, di genere ma anche tout-court.
Maria Grazia Cipriani: «Quello fu un lavoro quasi unico nel suo genere e non compreso fino in fondo dalla critica. Non mi basai su una drammaturgia pre-esistente ma scrissi io stessa, pian piano, il copione. In generale, io procedo per intuizioni. Prima di avventurarmi in qualunque nuova produzione cerco di capire cosa voglio e quello che volevo, allora, era arrivare al nocciolo de Le Mille e una Notte – ossia al fatto che, attraverso la narrazione, si può suscitare un’emozione autentica nell’altro da sé e questa commozione, ma anche comprensione, può fermare la crudeltà, la violenza spesso gratuita. Questo è stato il primo pensiero ed è anche il filo conduttore che unisce i racconti della celebre raccolta. Ogni volta che ci si accinge a un nuovo spettacolo si può e si deve risalire anche a soggetti, libri o drammaturgie di mille anni fa – come pure a culture diverse – e però lo sguardo che dobbiamo rivolgere a questi testi deve essere quello della contemporaneità. Inoltre, mi interessava mettere in luce che la violenza esiste fin dall’antichità e, per questa ragione, ho scelto in primis il personaggio del Minotauro. Purtroppo, i meccanismi di sopraffazione e della violenza – anche di genere – non partengono solamente all’oggi ma sono in atto, si potrebbe dire, da sempre. Solo i modi possono essere diversi. Per la figura del Minotauro ho attinto anche a Friedrich Dürrenmatt, in quanto è anch’egli vittima – mentre la figura più trista è quella di Teseo che, oltretutto, dopo aver raggiunto il proprio scopo abbandona Arianna. E infatti il mio Minotauro – dopo averlo ideato e provato a lungo, attraverso successive improvvisazioni – dovrebbe essere figura che suscita nello spettatore un senso di commozione e pietà perché anche quando fa del male alle fanciulle che gli vengono offerte, agisce involontariamente: stringe troppo la creatura solo perché è felice di sentire il corpo di un altro essere accanto al proprio. Da questo primo grumo tematico sono poi passata ad altre situazioni e personaggi senza però dimenticare un tocco di ironia che, secondo me, non deve mai mancare. Come nel caso dell’Orlando furioso dove la figura di Angelica si abbarbica all’eroe. Ho quindi attinto a testi diversi, sia letterari sia drammaturgici, e ho scritto di mio solamente alcuni raccordi. Ricordo, ad esempio, Ofelia che non è tanto vittima di Amleto quanto di un amore giovanile e un po’ ingenuo, oltre che dei giochi di potere. Direi anche che la scena più cruda è quando ho deciso – con un forte scarto linguistico – di dare la parola ai due interpreti maschili che, con il microfono in mano, quasi fossero degli imbanditori, mettono in vendita i resti delle donne stuprate o uccise – non in una, in particolare, ma in tutte le guerre. Perché in guerra non si salva nessuno. La vendita di quei cimeli di morte e sofferenza è un salto linguistico che dovrebbe riportare lo spettatore alla contemporaneità, con crudezza. Spesso mi sono chiesta se le guerre esisterebbero nel caso il potere – quello vero – lo avessero le donne. Non mi so dare una risposta, ma suppongo che sarebbe un po’ più difficile perché la donna è più legata alla terra e, aldilà che partorisca o meno, per lei i figli esistono – che siano i suoi o di altre. Voglio sperare che ci sarebbe meno violenza, perché l’utopia è il mio mestiere!».
Il tema della guerra è da lei mirabilmente affrontato in Iliade. E le parole, nello spettacolo, sono pronunciate solamente dalla donna a cui regala un monologo che colpisce davvero lo spettatore. Dopo l’artifizio maschio delle macchine, una fragile Elsa Bossi pare riaffermare il diritto dell’umano.
M. G. C.: «Andromaca è colei che piange. Suo è il lamento. Sarebbe interessante notare come in Iliade a combattere non siano tanto Achille, Ettore o Agamennone quanto le armi. L’importanza delle armature e della scenotecnica in questo spettacolo è data dal mio voler evidenziare proprio questo aspetto. Anche oggi – se ci pensiamo – le bombe cadono dal cielo e colpiscono chiunque – uomini, donne, bambini. Le bombe non vedono, non distinguono, non comprendono. Una cosa è uccidere ad arma bianca, colpire una persona che si ha di fronte guardandola negli occhi, con un coltello ad esempio. Un’altra è premere un pulsante, non sapendo esattamente chi o cosa si colpirà. È ovvio che dietro vi è sempre il potere ma questo potere si perpetua attraverso le armi, incurante delle sofferenze. Il potere più capriccioso, poi, è quello degli dei. Non a caso registrammo le voci degli dei in un asilo perché, nell’Iliade, sono molto vicini all’essere umano, sono suoi simili ma ancor più crudeli. Infantili».
La figura della regista donna è ancora rara. Quando iniziò, nell’83, forse era tra le prime in Italia. Ebbe difficoltà nell’ambiente?
M. G. C.: «Non vorrei affermare qualcosa che non sia vero fino in fondo… può darsi che ci sia stata qualche precedente sperimentazione da parte di altre donne. Però credo di essere stata, se non la prima, una tra le prime donne a ricoprire il ruolo di regista in questo Paese. Rispetto all’ambiente è doveroso riconoscere che, per fortuna, hanno sempre vinto gli spettacoli. Non so quanto la critica stessa abbia potuto individuare quella che potremmo definire l’anima femminile racchiusa nei miei lavori – anche se credo ci sia. Del resto, deve esserci una lettura dei testi ma altresì del presente diversa, quando fatta da donne o da uomini. Ricordo, a proposito, una critica che mi chiese un’intervista per iscritto e mi pose la seguente domanda: “Come sarebbe il suo Pinocchio se, invece di aver fatto la regia lei, l’avesse fatta un uomo?”. Le risposi di scusarmi ma che non potevo, obiettivamente, saperlo! [Ride…] Ho sempre cercato di attenermi a ciò che credo di essere. Nell’ambiente teatrale è anche vero che si è sempre data prevalenza e priorità ai registi uomini. Ma va detto che, fin dall’inizio, da quel lontano ʻ83, non ho mai ceduto a nessun compromesso né di natura politica né di matrice estetica. Ho sempre combattuto per la libertà più assoluta. E questa scelta, l’ho pagata cara. Ad esempio, non ho mai frequentato i salotti della critica. Ricordo solo Franco Quadri che, nel ʻ90, assistette a Sogno di una notte di mezza estate e, al termine, venne da me in camerino: rimanemmo a lungo a guardarci, in silenzio. Fu un momento bellissimo. Forse lui si attendeva una figura più imponente, al contrario io ero ancora più esile di adesso. Non avevo niente dell’immagine maschile. Oggi esistono registe con un piglio più volitivo, ma io ho sempre posseduto un pudore tutto mio. Tornando a Quadri, va detto che dopo quell’incontro ha sempre seguito i lavori del Teatro del Carretto, persino negli ultimi mesi in cui stava già male. Veniva sempre a vedere le prime e, al termine degli spettacoli, mi diceva: “Non posso dirti niente adesso perché sono emozionato”. Solamente con lui ho intrattenuto una piccola corrispondenza e riconosco che ci fu tra noi una vicinanza non solo dovuta alla stima ma anche a un affetto sincero. E devo anche aggiungere che, che nonostante la mia apparenza, più di una volta Franco Quadri mi disse: “Tu sei fragile ma hai anche in te la crudeltà artaudiana”».
Le sue favole sono tutte nerissime come intese in origine. Il suo Pinocchio, in particolare, ha una crudeltà sottile che restituisce appieno l’anima della prima stesura collodiana in cui il burattino “stirò le gambe e, dato un gran scrollone, rimase lì come intirizzito”. Ma è anche capace di regie muscolari come Iliade.
M. G. C.: «Il mio Pinocchio è cattivo! E del resto, come potrebbe essere altrimenti con un padre assente, che non c’è mai? Per quanto riguarda Iliade, va detto che ho avuto la fortuna di avere accanto a me Graziano Graziani – un grande scenografo, che ha saputo dare forma alle mie idee. Pensi ai cavalli, agli scudi, alle maschere, agli dei: io potevo anche avere delle intuizioni ma era poi lui che, con le sue mani, il suo talento, esaltava quello che io potevo solo desiderare. Ricordo che lo facevo impazzire perché, prima di dare il mio assenso a uno qualsiasi dei suoi bozzetti, gli facevo riempire decine di blocchi di schizzi. Però, poi, toccava a me dirigere le macchine e le maschere, farle muovere nello spazio scenico e rammento che le odiavo perché ogni parte era legata a dei fili sottilissimi e bastava che uno solo si rompesse perché lo spettacolo fosse rovinato. Iliade è stato il terzo spettacolo del Carretto, dopo Biancaneve e Sogno di una notte di mezza estate e quello in cui l’attore era rivestito completamente: volto e corpo erano una maschera – viva. Dopo questo esperimento, che fu l’apice del percorso, decisi di abbandonare questa strada e dedicarmi al trucco per poi fare a meno persino di quello. L’esperienza mi ha insegnato che potevo ottenere che gli attori fossero figure, maschere – anche senza che i loro lineamenti e il loro corpo fosse mascherato. Ciò che non voglio negli attori è la recitazione di una parte. A questo proposito, ricordo che in Sogno di una notte di mezza estate – nonostante io adori Shakespeare – non volevo rischiare che gli attori cominciassero a chiedermi quale ruolo avrebbero ricoperto. Perciò li feci sedere su delle panche e leggere, per tre giorni consecutivi, il testo in inglese shakespeariano tenendo conto che solamente due o tre di loro conoscevano l’inglese sulla dozzina che avevo selezionato. Volevo sgombrare il campo da qualunque domanda della serie: “Chi sarà Titania?”. A me non interessano le parti, le parole, bensì le azioni, il movimento e l’interazione nello spazio scenico. Per esemplificare, mi interessava, ad esempio, la fuga tra Demetrio ed Elena. Ero attratta dalla magia del buio, della notte e del suo eros, che possedevano la capacità di modificare, di trasformare i sentimenti dei personaggi. Pensiamo ai quattro innamorati divisi in coppie e che, addormentandosi, vedono mutarsi le loro emozioni. Accade qualcosa durante la notte e quello che si rivela è un discorso molto profondo sull’eros. Io seppi rintracciarlo al punto che Quadri – come ho già citato – mi riconobbe una crudeltà ‘artaudiana’. Tornando all’incipit, a Pinocchio, diciamo che cerco di recuperare le radici antropologiche della favola, il nostro io più profondo, l’inconscio collettivo e le sue pulsioni».
A questo punto occorre una pausa. Perché i filoni di senso che apre Maria Grazia Cipriani sono molteplici e le possibilità di indagare quarant’anni di teatro forse infinite. Su https://teatro.persinsala.it riprenderemo proprio da qui, dalla prima opera del Carretto, da quella Biancaneve che è stata riproposta alla Biennale di Venezia nel 2017.
Venerdì, 30 luglio 2021
In copertina: Le Mille e una Notte. Foto di Guido Mencari (gentilmente fornita dal Teatro del Carretto).