Note antiche su un problema contemporaneo
di Enrico Piergiacomi
È un incontrovertibile dato di fatto che la vita ha termine con la morte, persino per coloro che credono in un’esistenza successiva a questa. Il passaggio dai due piani è in sé semplice: a un certo punto, ha luogo un “salto” dalla condizione del vivente a quella del morto, o a quella di un defunto che soltanto in quell’attimo comincia a vivere realmente. Ciò che è complesso è come prepararsi a quel momento supremo in cui si salta dalla vita al dopo-vita, di nuovo a prescindere che questo coincida con una vitalità migliore, o con il nulla assoluto.
Entro questa cornice teorica, il suicidio introduce un ulteriore elemento problematico. Se in merito alla preparazione alla morte il dilemma si riduce ad assumere uno stile di vita che consenta di trarre dal poco tempo che ci è concesso il massimo della felicità e di rendere il meno angosciante possibile l’attimo del trapasso, la decisione di suicidarsi o no solleva anche la difficoltà di quando scegliere di porre fine all’esistenza. Si ritiene, infatti, che il “salto” possa avvenire prima dello spegnimento naturale dell’organismo. Il problema della preparazione non è però con ciò rimosso. Chi si propone di suicidarsi si prepara alla morte, con in più la difficoltà di collocare temporalmente l’attimo che, nella preparazione ordinaria, viene semplicemente aspettato come inevitabile. La praeparatio non implica insomma il suicidio, mentre il suicidio presuppone la praeparatio.
Non tutti però sono consapevoli della difficoltà che comporta la preparazione e la scelta. La semplificazione sembra essere anzi la via regia, favorita sia da chi difende a oltranza la sacralità della vita, rimandando la morte propria o altrui fino all’istante naturale in cui l’organismo si spegne da sé, sia da chi pensa che c’è un intrinseco «libero arbitrio» che ci consente di decidere di morire quando vogliamo. La prima impostazione pecca di troppa rigidità e castra la scelta in conformità a un astratto principio generale, la seconda erra di eccessiva leggerezza, tanto che in un certo senso sottintende che la scelta di vivere o morire sia semplice quanto decidere se bere vino o birra alla trattoria. Una regola è invece difficile da stabilire a priori. Può darsi che gli oltranzisti o gli autonomisti abbiano ragione. Ma la ragionevolezza di entrambe le posizioni è ancora tutta da provare al mondo e c’è bisogno di una lunga indagine per capire che si può o si deve morire ʻadesso’, non ʻprima’ né ʻdopo’.
Quando però si introduce la richiesta di argomentazione e concettualizzazione, il problema del suicidio non diventa più di solo contenuto. Si trasforma anche (forse soprattutto) in una questione di forma e di espressione. Chi si suicida può farlo per differenti motivi, e così chi decide di restare in vita fino alla fine ʻnaturale’ dell’organismo. Il contenuto resta quindi sempre identico: si opta per il sì o per il no, tertium non datur. Sul piano della forma e dell’espressione, però, la scelta positiva o negativa può assumere i significati più disparati, persino infinite sfumature. Un suicida può esprimere con il suo gesto estremo qualcosa di molto diverso da miliardi di altri suicidi. Costui ha compiuto qualcosa di unico, che solo la ragione che ha studiato il suo caso da vicino può riuscire a cogliere e misurare.
Vorrei quindi di seguito presentare quattro esempi di forme di espressione del suicidio, mutuate dal pensiero classico o ellenistico. Ciò che hanno in comune è di problematizzare tanto la visione semplicistica di chi difende la vita a oltranza, sia di chi ritiene che il gesto di suicidarsi sia semplice e lo si possa compiere senza preparazione intellettuale, quasi a capriccio.
Un primo caso che vorrei considerare è il suicido legalizzato di cui è difensore il Socrate del Critone di Platone. Come è noto, il filosofo era stato condannato ingiustamente a morte con l’accusa infondata di aver corrotto i giovani e aver introdotto nuove divinità in seno alla città di Atene. Critone – discepolo di Socrate che dà il nome al dialogo – si introduce nel carcere in cui il filosofo era imprigionato, in attesa di bere la cicuta, e cerca di convincere il maestro a scappare con lui, che intanto aveva preparato un piano per condurlo fuori dalla città e salvargli la vita. Ma il filosofo rifiuta, e per giustificarsi immagina che siano le Leggi di Atene stesse a trattenerlo dal fuggire e a indurlo ad accettare la condanna a morte, dunque de facto a suicidarsi. Socrate aveva accettato senza questionare l’apparato normativo della città che lo ha allevato/cresciuto e che gli ha dato la possibilità di formarsi alla pratica filosofica, che ritiene necessaria alla virtù come alla felicità. Egli avrebbe potuto in qualsiasi momento mettere in discussione le regole di Atene da cui aveva tratto a lungo beneficio, persuadere di istituirne di migliori o, se proprio non gli piacevano, di trasferirsi altrove in un’altra comunità. Ora quello stesso apparato normativo che aveva accettato lo condanna a morte. Socrate non è dunque più autorizzato a fuggire: il tempo della discussione è finito e adesso è il momento di accettare le conseguenze delle proprie scelte (o non scelte). Lungi dunque dall’essere un “suicidato” della società, come il Van Gogh di cui parlò Antonin Artaud, il Socrate del Critone non è costretto al suicidio, ma acconsente a quest’ultimo per via razionale. Suicidarsi è l’espressione di un accordo tra individuo e Stato che il filosofo non ha mai voluto mettere in discussione, dunque accetta a tal punto di morire su un decreto ingiusto.
La stessa forma del ragionamento legale del Socrate del Critone potrebbe in realtà essere esteso anche a un ragionamento contro il suicidio. Immaginiamo una persona che vive in uno Stato contrario per legge all’eutanasia. Questa e i suoi familiari vivono per anni senza mettere la regola in discussione, anzi traggono tutti i benefici possibili dall’apparato normativo: assistenza alla nascita, servizi pubblici, diritto allo studio, scelta di una carriera e di uno stile di vita. Un giorno accade che un incidente porti tale persona allo stato vegetativo e a essere mantenuto in vita da una macchina. Il Socrate del Critone sarebbe ora contro il suicidio. Poiché lo Stato da cui tale persona ha tratto solo beneficio annovera la legge del divieto di eutanasia, e giacché questa stessa persona non l’ha mai messa in discussione, allora costei non può più impedire che venga applicato il dovere sociale di tenerla in vita. Ecco una delle ragioni del perché non può esistere un libero arbitrio assoluto. La libertà di scegliere di morire è preclusa in tale scenario, perché la persona ha rinunciato al diritto di applicarla, accogliendo un apparato normativo sfavorevole al suicidio assistito.
Ben diverso è l’argomento a favore del suicidarsi che troviamo in un gruppo di discepoli di Socrate: i cirenaici. Questi ultimi identificano il fine della vita o la felicità con i moti piacevoli, in particolare quelli del corpo, e la saggezza consiste in una serie di strategie che consentano di massimizzare la piacevolezza presente. In età ellenistica, però, la filosofia dei Cirenaici prende una piega sinistra con Egesia di Cirene. Tale pensatore fu infatti soprannominato ʻPersuasore di morteʻ perché, con le sue lezioni (e forse nel dialogo perduto Colui che si lascia morire di inedia), mise talmente in evidenza i mali del vivere che molti ascoltatori si suicidarono e il re Tolemeo I dovette vietarne per legge il magistero. Aldilà dell’aneddoto colorito, la condotta di Egesia è basata sulla ragione. La sottolineatura dei mali della vita doveva semmai servire a veicolare l’idea che il piacere – che resta comunque il fine del cirenaico – è molto difficile o impossibile da raggiungere, pertanto il saggio cercherà piuttosto di sfuggire ai dolori e assumerà un atteggiamento di indifferenza, tanto verso la vita (piacevole), quanto verso la morte. Finché il saggio può godere di qualcosa, ne godrà senza eccessivo attaccamento ed eviterà di morire. Qualora invece valutasse razionalmente che nessun piacere è più accessibile e che i mali o dolori non possono essere fuggiti se non col suicidio, allora opterà di suicidarsi come l’atto più saggio in assoluto. Non c’è dunque umore tetro nel pensiero di Egesia se non per accidente. Il suicidio è l’espressione di una saggezza che riconosce con lucidità l’esistenza del male e un’extrema ratio da adottare quando altre vie di godimento o fuga dalla sofferenza sono precluse all’individuo.
Una terza via è rappresenta da Epicuro e dagli epicurei, a loro volta edonisti, ma di altra impostazione rispetto ai cirenaici. Per loro, il piacere consiste nella sottrazione del dolore nel corpo e di turbamento nell’anima: le cosiddette disposizioni di aponia e atarassia. Queste sono peraltro, a detta di Epicuro (che va forse deliberatamente contro Egesia), facili da ottenere e da conservare. Per sottrarre il male dal corpo basta infatti un vitto o uno stile di vita molto spartano, mentre per conservare la salute dell’anima è sufficiente improntare la propria vita alla sottrazione dei desideri superflui e alla filosofia, che insegna (tra le varie cose) che la morte non è da temere perché non è mai esperita attraverso i sensi e che la sicurezza dai pericoli o dai bisogni si può raggiungere vivendo ritirati in una comunità di amici che si danno mutua assistenza. Ora, per un epicureo, il suicidio può essere legittimato con un argomento che sottolinea che aponia e atarassia sono indifferenti alla durata temporale. Il tempo finito e il tempo infinito danno un identico piacere: nemmeno l’eternità può accrescere il benessere del corpo che non soffre e dell’anima serena. Ne segue che, se per qualche circostanza eccezionale il saggio dovesse scoprire che non avrà più modo di conservare la condizione piacevole, per esempio che l’unico modo per salvarsi è tradire gli amici e perdere la sicurezza della mutua assistenza, allora abbandonerà con un sorriso l’esistenza, come un banchettante o spettatore sazio da un simposio o da un teatro. Morendo, in un certo senso, l’epicureo trova il piacere che dà la felicità. Il suicidio consente di tutelare il godimento, sacrificandolo all’altare del nulla.
Quarta e ultima prospettiva è quella degli stoici antichi. In un certo senso, essi portano alle estreme conseguenze il magistero del Socrate del Critone. Gli stoici credono a loro volta, infatti, che esista una legge a cui il saggio si deve conformare per decidere se è lecito vivere o morire. Questi pensatori aggiungono, d’altro canto, che essa non è umana, ma naturale e divina: deriva da una divinità provvidente che organizza la natura secondo razionalità somma. Lo scenario teologico consente così agli stoici di argomentare che, in alcuni casi, suicidarsi possa essere l’atto sacrale e razionale per eccellenza. La morte di Socrate è un buon esempio di questo suicidio. Il filosofo al contempo realizza il piano razionale della divinità, che per qualche ragione imperscrutabile ha voluto condurlo alla morte per consumo di cicuta, e insieme la virtù, in quanto il filosofo non ha voluto reagire a un’ingiustizia (= la condanna a morte immotivata) con altra ingiustizia (= l’infrazione della legge che ha accolto da sempre). Secondo il gusto del paradosso che tanto piaceva a questi pensatori, dunque, ci sono casi in cui è naturale o morale o provvidenziale morire prima che l’organismo emetta l’ultimo respiro. Il suicidio può esprimere la volontà di un’entità divina che ha voluto farci morire senza aspettare la vecchiaia, per realizzare il piano razionale universale e la nostra virtù.
Cosa ci suggerisce questo excursus storico molto selettivo – perché molte altre proposte filosofiche (antiche come moderne) sono state omesse? Ritengo che possano emergere almeno due elementi utili.
Da un lato, si può razionalmente argomentare che suicidarsi è un atto sensato, morale e in alcuni casi persino felice. Viene così meno l’argomento principale degli oltranzisti. Pare che non esista alcuna sacralità intrinseca alla vita, o almeno che questa è tutta da dimostrare, se è vero che il sacro lo si può attingere anche con la morte virtuosa (come vuole il provvidenzialismo stoico) e che non vi è nulla di sacrale in un’esistenza piagata da mali irrimediabili (come concordano cirenaici ed epicurei). Il suicidio potrebbe allora essere l’espressione di una razionalità che ha capito che morire può essere la cosa migliore per noi.
Dall’altro lato, queste prospettive ridimensionano anche la sicurezza degli autonomisti. Per decidere se è giusto o no morire, non basta il mero libero arbitrio. La scelta di suicidarsi o di non suicidarsi potrebbe essere sbagliata perché incoerente (vedi il Socrate del Critone), o stolta e insipiente (vedi gli stoici), o prematura (come argomenterebbero i cirenaici e gli epicurei, vedendo un individuo che sopravvaluta i mali presenti, quando in realtà può ancora godere di numerosi piaceri). Occorre allora possedere, se non la saggezza, che forse non esiste e può costituire un grande ideale comportamentale, almeno una visione del mondo che dimostri perché questo suicidio qui sia razionale, non semplicemente dovuto a umor tetro, o a irresponsabilità. Come sarebbe pertanto incongruo chiedere a un epicureo di morire da stoico, o a uno stoico di suicidarsi da epicureo, perché le due forme di espressione del fine-vita sono incompatibili, così più in generale è da evitare di applicare per tutti una regola astratta che sancisce che occorre vivere o morire sempre e comunque. Ogni credenza pro o contro il suicidio va difesa con argomenti e, se ne vengono trovati di buoni o persino di ottimi, l’opinione accompagnata da ragione va conservata e rispettata, anche se nel nostro intimo non ci piace. Una persona che riuscisse a dimostrare la sacralità della vita andrà tenuta in vita da un macchinario, anche se sono un ateo o nichilista convinto. Un saggio che ha dimostrato che suicidarsi è la cosa migliore per lui andrà lasciato morire e applaudito, malgrado nella mia anima molto religiosa sia custodita l’idea che ogni esistenza è divina e che essa va sprecata, se viene spezzata prematuramente.
L’esito di questo ragionamento non è il relativismo, perché la relatività è semmai la prospettiva dell’autonomista che pensa sia lecito suicidarsi quando gli pare lecito, bensì lo scetticismo. Non possiamo sapere in anticipo se vivere o morire sia sempre una cosa buona. La malvagità o la bontà della vita come della morte vanno valutate ogni volta da zero, caso per caso e sulla base di una visione del mondo strutturata, che rende conto del perché per uno morire sia meglio, per un altro lo sia continuare a vivere. Il resto è dogmatismo religioso e supponenza laica: due atteggiamenti perniciosi da cui ci si deve ugualmente tenere lontani per andare verso la conoscenza, come Ulisse in navigazione verso Itaca si tiene al sicuro dai mostri Scilla e Cariddi.
Venerdì, 23 luglio 2021
In copertina: L’acropoli di Atene. Foto di Dias12 da Pixabay.