Edgardo Franzosini, per Skira, pubblica Rimbaud e la vedova
di Simona Maria Frigerio
Ben scritto, puntiglioso nelle citazioni, ricco di aneddoti, preciso nei rimandi. Il piccolo volume di Franzosini non manca di qualità e dimostra come si faccia una buona ricerca. Un divertissement da storico, quindi, ma con esiguo materiale su cui ergere il proprio racconto.
L’obiettivo dell’autore è quello di documentare il passaggio a Milano del poeta francese nella primavera del 1875, ma la documentazione e le testimonianze al riguardo latitano (per non dire che non esistono). A parte un biglietto da visita che lo vedrebbe ospite in una casa al 39 di piazza Duomo, terzo piano. Per il resto ci sarebbe una lettera di Paul Verlaine che scrive all’amico di Arthur, Ernest Delahaye, che “Coso è a Milano” (dove Coso è l’ex amante al quale aveva sparato) e una nota di Delahaye che, nell’estate del 1875, avrebbe spedito la propria copia di Une Saison en Enfer a Rimbaud, su richiesta di quest’ultimo, proprio a Milano.
Come riempire 84 pagine (a parte le note) con questi tre elementi? Franzosini ha dalla sua un’indomita perseveranza e sicuramente una doviziosa conoscenza della vita del nostro anti-eroe per eccellenza e, come nel Tristram Shandy Sterne divaga su tutto e tutti ma lascia il nocciolo della questione (ossia la vita e le opinioni del protagonista) in ombra (o in nuce), così Franzosini dedica tre pagine a raccontare di tutte le targhe che, in questi anni, sono comparse nei luoghi visitati da Rimbaud nei suoi peregrinaggi, e sulla mancanza di un tale omaggio al n° 39 della succitata piazza del Duomo (dove oggi c’è il palazzo di un grande magazzino, come ci segnala lo stesso autore). Oppure immagina cosa abbia potuto fare la petite chatte blonde (nomignolo affibbiato ad Arthur dall’amante Verlaine) a Milano, lavorando per analogie e deduzioni: se a Londra, con l’amato, gironzolava in lungo e in largo, così avrebbe potuto fare a Milano (ed ecco tre pagine di elencazioni di vie realmente percorse nella capitale britannica e di altrettante vie ipoteticamente percorse nella città meneghina – considerando anche il gusto dell’epoca per il flaner). E ancora, se a Londra l’enfant terrible della letteratura francese andava a teatro, non può non comparire l’elenco dei teatri milanesi che proponevano novità d’Oltralpe nella primavera del 1875 (con la gustosa precisazione, da L’Illustrazione Italiana, del costo al Santa Redegonda per l’ingresso, le sedie e le sedie a braccioli).
Il risultato, più simile a una tesi compilativa che a un romanzo breve, restituisce però una grande quantità di fonti, dati e documenti, tutti correttamente citati e inseriti perfettamente nel contesto, ma non il clima di quella Milano né tanto meno l’umore del protagonista del libro (dell’ipotetica vedova del titolo sarebbe, ça va sans dire, impossibile). Come ammette Franzosini stesso a pagina 73: “Per avere qualche probabilità di ritrovare delle tracce concrete, tangibili, che testimonino il passaggio e il soggiorno dell’‘angelo in esilio’ a Milano,… bisognerebbe avere forse la stessa caparbietà, la stessa ostinazione di Paul Boens”. E qui parte con una parentesi di circa due pagine in cui racconta chi sia il succitato. L’aneddoto è divertente se considerato a sé stante, ma non aggiunge nulla al nocciolo della questione posta dallo stesso autore e sembra l’ennesimo tentativo di divagare da una mancanza di fondo. Perché questa è l’impressione più forte che deriva dal libro: l’aneddotica supplisce all’esiguità dei dati reali, ma è un’aneddotica spuria e, a volte, fuori contesto. Per fare un esempio, l’elencazione dei salotti letterari milanesi e dei loro frequentatori, non riesce a restituire il clima sociale e culturale di Milano, ma solo a ribadire il concetto che Rimbaud non avrebbe potuto farne parte (per qualche tara di cui non ci è dato sapere: “Non esiste alcuna testimonianza… che possa far lontanamente supporre che Arthur Rimbaud, durante il suo soggiorno, sia entrato in rapporto… con qualche esponente della società letteraria milanese del tempo. E del resto, è sufficiente anche solo figurarsela un’ipotesi del genere per provare un certo imbarazzo, un certo disagio”, pag. 61. E ci si chiede il perché di un tale imbarazzo o di tale disagio).
Ma Franzosini forse non ama il suo protagonista. Questo è il problema. Affascinato più dal cercare fonti di un suo passaggio nel capoluogo lombardo che a indagarne tratti che, e questo bisogna ammetterlo, ormai sono stati battuti da esegeti, poeti, critici, scrittori e storici su tutti i fronti. A riprova di questa impressione, citiamo solo due passaggi. Quando, a pag. 11, l’autore scrive che Rimbaud era, secondo tutte le testimonianze, un commerciante scrupoloso, aggiunge che: “non esita ad accoppare con la stricnina più di una decina di cani che hanno preso l’abitudine di pisciare sui suoi sacchi di caffè”. Ora, a parte che la dietrologia animalista nasce un po’ dopo la breve esistenza di Rimbaud, non si comprende cos’altro dovrebbe fare un uomo o una donna che si vedesse rovinare un raccolto, un commercio, insomma il proprio mezzo di sussistenza da un animale. Bisogna aver provato cosa sono le lumache in un orto, prima di scrivere male dei lumachicidi. E, come secondo aneddoto, riportiamo come l’autore descriva il poeta alle pagine 45 e 46. Prima, sembra soffermarsi sul suo aspetto fisico ma inserendo anche alcune affermazioni di Delahaye: il suo era “un fascino sia morale che fisico”, e il suo cuore era senza “tare né volgarità”. Successivamente passa al carattere (come se parlare di cuore e fascino morale non sia dare definizioni caratteriali) e, a pagina 47, riporta questa descrizione: “È maleducato, è crudele, è cattivo”. Giudizio di Benjamin Fondane (autore di Rimbaud le voyou), il quale, però, non era amico del poeta, anche perché nasceva ben sette anni dopo la sua morte, era rumeno e scriveva la biografia del francese – come accade sempre a ogni biografo che si rispetti – seguendo anche le proprie passioni e una propria lettura dell’altro da sé. Franzosini, poi, a riprova della giustezza di questa affermazione, perlomeno arbitraria, cita un fatto raccontato da Mathilde, moglie di Verlaine (e qui chiudiamo la frase: al lettore cogliere).
Bello il finale, semplicemente icastico. Interessanti le note, un piccolo vademecum valido anche a sé stante.
A noi piace ricordare, però, la petite chatte blonde con altre parole, le uniche sulle quali occorrerebbe indagare perché Rimbaud fu poeta e se l’uomo, ormai cenere, possiamo tranquillamente dimenticarcelo, sono i suoi versi che restano, che contano: “Mais l’amour infini me montera dans l’âme,/ Et j’irai loin, bien loin, comme un bohémien,/ Par la Nature, – heureux comme avec une femme”, (aveva solo 16 anni il veggente, quando scrisse Sensation).
Venerdì, 16 luglio 2021 (sviluppato da una una precedente recensione pubblicata su per Artalks.net)
In copertina: Foto di Gaby Stein da Pixabay.