Quest’estate rileggiamo La Cognizione del Dolore
di Simona Maria Frigerio
Carlo Emilio Gadda nasceva a Milano il 14 novembre 1893 e moriva a Roma il 21 maggio 1973. Tra queste due date scrisse molto sebbene si mantenesse (come capita ancora oggi) facendo altro. Oltre a La Cognizione del Dolore (uscito nel 1963 e vincitore del Prix International de Littérature), ricordo la raccolta di racconti La madonna dei Filosofi (apparsa nel 1931 per le edizioni di Solaria); la seconda raccolta, Il Castello di Udine (pubblicata nel 1934 e che ottenne, l’anno successivo, il premio Bagutta); L’Adalgisa (serie di frammenti e racconti pubblicati tra il 1938 e il 1943, organizzati in affresco milanese nel ʻ44); Eros e Priapo: da furore a cenere (pamphlet satirico, pubblicato in versione censurata solo nel ʻ67 e ripreso da Fabrizio Gifuni in L’ingegner Gadda va alla guerra, per la regia di Giuseppe Bertolucci); e Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana (apparso in volume nel 1957).
Essendo sempre molto scettica di fronte alle biografie, spesso elenco di date luoghi e nomi ininfluenti e altre volte frutto di analisi precostituite, scriverò solo poche righe sulla vita di Carlo Emilio Gadda concentrandomi su quei tratti dell’esperienza umana che si intrecciarono direttamente con La Cognizione del Dolore, lavoro nel quale il motivo autobiografico ha il più ampio sviluppo e la cui stesura accompagnò l’autore durante tutta la vita; opera che, rileggendola oggi, non solamente lo pone tra i massimi esponenti del Modernismo europeo ma anche – in clima di celebrazioni dantesche – unitamente a Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana, il migliore continuatore di Dante nel Novecento, come innovatore sia della lingua sia della forma.
La Cognizione del Dolore è un pastiche non-finito, che pare realizzare il Italia uno dei primi romanzi aperti, frutto di una sperimentazione linguistica che ricorda analoghe esperienze di Joyce o Virginia Woolf, e il cui protagonista, come il Tristram Shandy di Sterne, si perde nella moltiplicazione di particolari svincolati gli uni dagli altri, invece di svolgere linearmente il racconto della propria esistenza. A queste ricerche si sovrappone però un tema, pressoché coevo alla poetica Montaliana, ossia quello del ‘male oscuro’, quel male di vivere dell’uomo contemporaneo che, però, in Gadda e nel suo alter ego, si trasforma nell’effacement di qualsivoglia altro da sé e nell’apologia del proprio dolore.
Seguendo i paralleli tra la vita di Carlo Emilio Gadda e il personaggio da lui inventato, Gonzalo Pirobutirro d’Eltino (già il nome la dice lunga sui rimandi a un realismo magico che Gadda adombra ben prima di Gabriel García Márquez), ritroviamo innanzitutto l’enorme villa, nella realtà a Longone e nell’invenzione in una sorta di Brianza latinoamericana, vissuta come prigione da entrambi. In quest’enorme casa, smisurata sia per le condizioni economiche della famiglia Gadda che per quelle del suo corrispettivo letterario, si snocciolano piccoli fatti quotidiani e mostruose crudeltà, spesso di genere autolesionista.
L’ambientazione dell’opera nel Maradagàl può essere anch’essa trasposizione dell’esperienza di Gadda in Argentina, dove visse tra il 1922 e il 1924, e quella dell’infanzia dell’autore in una Brianza gretta e meschina, subita per anni in un clima di ristrettezze e sacrifici, utili al mantenimento di una dimora serbata dalla madre contro tutto e tutti per il solo scopo, citando dal libro “di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti… l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco” (esempio di quel suo pindarico realismo magico di rara efficacia).
Più semplicemente si nota il rapporto quasi esclusivo intrattenuto da Gadda (e da Gonzalo) con la madre. Rapporto privilegiato al di là degli incontri – della vita reale o fittizia – che, infatti, nel libro, sembrano scivolare come frammenti di esistenza disgregati, esclusi dalla reale esperienza del protagonista (quella diastasi tipica anche dello Svevo di Una vita e che, però, in Gadda non ammorba mai, non scivola mai nella noia). E ancora, il senso di colpa, nei confronti della madre, esplicitato nel Giornale di Guerra e di Prigionia, per una donna che “ha fatto infiniti, troppi sacrifici” (dove l’inversione della successione dimostra la maestria retorica mai pedante di Gadda) e che torna nel libro, per esempio, nelle confessioni di Gonzalo al dottore, ma soprattutto nelle descrizioni della donna, sola, che vaga nella casa tra gli oggetti, e rammenta l’altro figlio, quello ‘non difettivo’, caduto in guerra, in frammenti di esplorazione dell’animo altrui, in cui si confonde il dolore di Gadda con quello della figura della madre – reale o letteraria – in uno squarcio di improvvisa simpatia.
I paralleli potrebbero continuare a lungo poiché il libro è soprattutto l’analisi, attraverso figure oggettive, del fondo psichico dell’autore e di tutte le nevrosi condizionanti dell’esistenza. Ma come giungere a questa ‘cognizione’, ovvero quali strade percorrere per avvicinarsi alla nozione del dolore? Come fare del dolore non solamente argomento di trattazione ma dipingerne i paesaggi, i movimenti, i silenzi di personaggi creati a parole? Come sublimare il dolore restituendogli spazio in una società, come quella attuale, che ha cancellato la morte (e il dolore di chi resta), ospedalizzandolo, allontanandolo, estraniandolo asetticamente dalle nostre opulente abitazioni all comfort? Come accettare di farlo rientrare dai cancelli dorati d’Europa che, fino a un anno fa o poco più, erano indifferenti e sbarrati di fronte alla morte, ad esempio, di quel popolo africano che spera in una vita media di 19,4 anni?
Gadda utilizza forme di espressionismo che vanno dal plurilinguismo alla creazione pura di vocaboli, al rovesciamento sintattico e alla distorsione grottesca; dal piacere barocco per l’invenzione e l’abbondanza al volo pindarico che trasporta da un frammento di vita a un’elaborazione intellettuale fino a un dialogo superficiale solo in apparenza. Si legge La Cognizione del Dolore con la consapevolezza che non sarà sufficiente una volta, che ogni pagina può essere approfondita sotto molteplici punti di vista, dalla ricerca linguistica all’esplorazione delle pieghe psicologiche più nascoste, dell’inconfessabile che non è possibile ammettere nemmeno a se stessi, trovando sempre nuovi percorsi di approfondimento – e questo è meccanismo raro nella letteratura italiana che, spesso, non riesce a fare propri né a sviluppare autonomi percorsi di ricerca – che hanno invece contraddistinto la letteratura europea, e non solo, del secolo scorso.
Occorre tornare ad affrontare il dolore, magari affrontando quest’opera (e scelgo tale termine cosciente del suo significato, perché non è facile impresa calarsi nell’animo umano): “Il figlio pareva aver dimenticato al di là d’ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce d’ogni guerra: e d’ogni spaventosa morte”.
Venerdì, 9 luglio 2021 (sviluppato da una una precedente analisi pubblicata su https://digilander.libero.it/paginazero/)
In copertina: Foto di Reimund Bertrams da Pixabay.