Dai licenziamenti alle imprese zombie, dal mito del deficit alla FTT: cerchiamo di tradurre
di Simona Maria Frigerio
Lo stop al blocco dei licenziamenti era inevitabile e, anzi, averlo procrastinato tanto rende adesso ancora più difficile gestire la situazione – da parte sindacale – visto il numero di trattative che si apriranno – soprattutto a livello di accordi con le aziende per incentivi e ‘scivoli’. D’altro canto, l’aver annunciato un prolungamento della cassa integrazione per altri sei mesi dovrebbe rendere fattibile una continuità lavorativa per le aziende che prevedono una ripresa.
Del resto pensare che, conservando il posto a operai e impiegati nel momento della crisi pandemica grazie alla cassa integrazione finanziata per la maggior parte dalla fiscalità generale, si sarebbe garantito il lavoro degli stessi nel medio periodo, è stato un po’ naïf. Non si è infatti tenuto conto che i prodotti devono essere acquistati – ed è difficile farlo con milioni di lavoratori in tutta Europa nei settori cultura, turismo, ristorazione eccetera a spasso. Lo slogan di una ventina d’anni fa e oltre, ‘Lavorare meno lavorare tutti’, sarebbe dovuto essere sostituito da ‘lavorare tutti… in sicurezza’ – senza distinzioni tra attività indispensabili (come produrre bottiglie di plastica) e non essenziali (come andare a scuola). Ma sindacati e Governo hanno deciso diversamente.
Cosa fare adesso?
Mentre il segretario del PD, Enrico Letta, pensa di mettere una patrimoniale per compensare i diciottenni (quelli che da due anni studiano poco e vivono di social e reality e che con i fantomatici 10 mila euro non si pagherebbero nemmeno la retta annuale in alcune università italiane ma, forse, i dati reali sui costi di beni e servizi nelle aule parlamentari non sono noti), non sarebbe ora di mettere da parte la demagogia e le regalie elettorali e cercare i fondi per rimettere in moto l’economia sul serio?
Prima, però, occorrerebbe decidere verso quali lidi si vuole indirizzare la barca. Se si vuole tornare ai consumi edonistici pre-pandemici – e si punti sul PIL, finanziando le aziende profit del privato – oppure optare per uno sviluppo diverso, basato su servizi alla persona, cultura, istruzione, ricerca e ambiente – in pratica sul BIL, che mira a trasformare lo Stato da Bancomat delle multinazionali a Deus-ex-machina per un ripensamento delle priorità di vita e produzione (di idee invece che di oggetti) dei cittadini. Ma, in entrambi i casi, ricordandosi di quei 2 milioni di famiglie, ossia dei 5,6 milioni di italiani, in povertà assoluta (dati Istat).
Per quanto concerne, invece, lo ‘storico’ accordo del 15% di tassazione per le multinazionali a livello mondiale – firmato al recente G7 – vorremmo far notare che tale aliquota è poco al di sopra di quella di favore irlandese e molto al di sotto dell’IRES attualmente versata in Italia (che è al 24%) e, di conseguenza, ci perderemmo invece che guadagnarci (come cittadini, ovviamente). In realtà, l’accordo avrebbe dovuto essere su un 25%, come puntualizza L’Osservatorio europeo sulla tassazione guidato dall’economista Gabriel Zucman – che da anni si occupa di tassazione progressiva dei patrimoni e paradisi fiscali. Ma del resto, non pare nemmeno tanto equo che tale tassazione sia applicata solo alle imprese con margini superiori al 10% e unicamente sul 20% dei profitti che eccedono tale soglia. In effetti, occorrerebbe tener presente che solamente l’IRAP, “andando a colpire il reddito al lordo del costo del personale e dovendo essere pagata dalle imprese anche in presenza di una perdita di esercizio”, in questi anni, ha dato in Italia delle entrate fiscali in certa misura considerevoli nonostante sia al 3,9% – a fronte del teorico 24%, ma solo sui profitti, della succitata IRES. A riprova, i dati del 7 giugno 2021, forniti da FrancoMostacci.it, che rilevano un’entrata IRES di 33.770 milioni di euro, mentre per l’IRAP di 20.092 milioni di euro (poco al di sotto della precedente come gettito complessivo sebbene sia solamente un sesto a livello di percentuale). Andando a spulciare i dati sulle persone fisiche, al contrario, si scopre che l’IRPEF ha contribuito con 189.988 milioni di euro di entrate tributarie, l’IVA con 130.016 e, dall’accisa sulle benzine, lo Stato ha incamerato 20.087 milioni di euro. Se, come afferma Ipsoa, i commercialisti dichiarano che dipendenti e pensionati versano l’82% dell’IRPEF, sarà facile comprendere perché la Corte dei Conti abbia recentemente affermato che il prelievo fiscale “è concentrato sui redditi da lavoro dipendente e pensione”.
La speculazione finanziaria serbatoio a cui non si attinge
Mentre si decide di abbassare le imposte sulle imprese ammantando tale atto di passo storico in avanti, occorrerebbe che si decidesse finalmente di approvare la FTT, di cui avevamo già scritto – e non vorremmo ripeterci: https://www.inthenet.eu/2020/04/04/il-virus-e-la-cura-passano-da-wall-street/. La Financial Transaction Tax, ancora una volta, non sarebbe scaricata sul cosiddetto ‘buon padre di famiglia’ che investe i suoi risparmi su un titolo, magari dello Stato, a medio/lungo termine e che, già dal 2013 (grazie al Governo Monti), versa una tassa sulle transazioni che, guarda caso, “non si applica alle operazioni di acquisto e successiva vendita di strumenti finanziari concluse in una medesima giornata”. Capovolgendo la visione Monti, si tasserebbero tutte quelle speculazioni che vanno sotto il cappello dell’high frequency trading (spesso gestite da computer e sistemi appositi) e che, se solamente fossero tassate dello 0,1% a livello globale, consentirebbero di riscuotere oltre 700 miliardi di dollari l’anno, di cui circa la metà a beneficio dell’Europa. Se poi si imponesse – visto il momento di crisi – una tassazione dello 0,3% per cinque anni, fate voi i conti…
Fabbricare soldi è davvero impossibile?
E per finire, vi consigliamo la lettura de Il mito del deficit (La Teoria Monetaria Moderna per un’economia al servizio del popolo) di Stephanie Kelton. Senza addentrarci nel contenuto – che recensiremo prossimamente – vorremmo soffermarci solamente sull’introduzione all’edizione italiana. Nella stessa si spiega come aver derogato alla sovranità monetaria (ricordiamo che quando uscimmo dal Sistema Monetario Europeo, ossia dallo SME, nel 1992 per svalutare la Lira, riuscimmo a superare la grave crisi finanziaria che stavamo vivendo) ci porta a essere soggetti, a livello democratico ed economico, ai voleri della BCE, ente terzo non eletto ma che indirizza e controlla (attraverso le Commissioni) le politiche degli Stati membri della UE. Tra gli esempi citati, quello dello spread italiano il cui aumento, non contrastato dalla BCE di Mario Draghi, portò alla caduta del Governo Berlusconi e alla sua sostituzione con quello Monti (scelta che, ovviamente, non fu voluta o votata dagli italiani). Il secondo esempio è quello della Grecia, i cui interessi sul debito pubblico furono lasciati lievitare da una BCE che, forse, mirava più alla svendita del Paese ellenico che non alla salute e al benessere dei suoi cittadini. Quando la BCE intervenne, come in Italia, miracolosamente i titoli di Stato tornarono a essere immessi sui mercati a tassi ragionevoli – ma dopo che porti, aeroporti e tutti gli asset dello Stato greco finirono nelle mani, in primis, di Cina e Germania. Ora, pensare di affidarsi nuovamente alla BCE (e all’Europa) per risolvere la crisi del debito che, essendo nel frattempo lievitato, peggiorerà, pare doppiamente naïf.
Venerdì, 25 giugno 2021
In copertina: Foto di Kalhh da Pixabay.