Un racconto in due puntate di Sharon Tofanelli
È una storia di cadaveri. Cadaveri come mia madre.
Ti prego, ascoltami. Qualcuno deve sapere, per la salvezza della mia psiche.
Avevo sette anni quando lei mi portò qui, parlo di Napoli, per conoscere mio padre. Di lui sapevo poco, null’altro che stralci delle sue lettere, che la mamma mi leggeva; stralci in cui si premurava, si raccomandava, si preoccupava: quando ritrovarci, chiedeva, quando incontrarci, quando insieme?
Ah, non lo potevamo raggiungere. Era colpa della nonna, la madre di lui, una signora arcigna e visceralmente religiosa. E mia, che ero nato prima che si potessero sposare.
Neppure lui era mai venuto al nord. Diceva che lei, l’impeditrice, la vecchiaccia, diceva che era malata incurabile, che non la poteva lasciare. E tuttavia si attaccava alla vita, la sua vita miserabile, proprio lei che non aveva voluto la mia. Non voleva morire. Ci fece questo regalo soltanto quando ebbi sette anni. Allora non ci furono problemi, la nonna era morta. Amen.
Napoli mi piacque fin da subito. Non avevo mai visto il mare. La mamma si sfilava le calze, sollevava il candido orlo del vestito da sposa e camminava avanti e indietro sul bagnasciuga, tenendomi per mano. I poggi della città torreggiavano attorno a noi sul far della sera, con le scalinate di pietra e le mura sgrossate delle case. La risacca del vento costiero, così fitto di sale e grani, le faceva volare il valo, quel velo che pareva fatto di spuma, così come l’abito, così come lei. Poteva disfarsi nel mare, come la Sirena di Hans Christian Andersen. Convulsamente le stringevo la mano. In disparte, adombrato di antiche mura, quell’uomo che l’aveva sposata e che era mio padre, ci guardava senza parlare.
Spesso andavamo in giro, ci portava a vedere i borghi e le chiese. Ci aveva accolti nella sua piccola casa di rione, coi mattoni a vista e le persiane stinte di celeste. L’arredo era grazioso, ma vecchio e nel suo insieme triste, dacché le cose datate hanno sempre visto morire qualcuno. Anche le stanze, sebbene comode, rimanevano anguste e in estate ci si soffocava dentro. Non era posto per claustrofobici.
Quanto a lui, aveva dieci anni più della mamma. Portò il lutto per la propria per un anno intero, vestendosi soltanto di nero.
Gli chiesi perché. Lui disse: «Le cose qui sono diverse.»
«Che vuol dire?»
«Quando muore un caro, la mia famiglia fa certe cose.»
«Cosa fate?»
«Lo accompagniamo nella morte. Il più possibile.»
«E come fate?»
«Abbiamo le nostre maniere. Un giorno ti farò vedere, te lo prometto. Te lo prometto.»
Portava i capelli molto corti, quasi azzerati. Nei giorni di festa andava a caccia. Parlava poco e aveva sempre dipinta in volto quell’espressione trasognata, come se non fosse mai veramente lì dov’era. Come se qualcosa lo chiamasse, lo distogliesse in ogni occasione, persino quando mirava alla selvaggina e dava il colpo di grazia alla preda agonizzante. Compiva un rito, il dio gli parlava.
Ma non era un dio. Era la nonna.
«Vado da lei. Stasera non sarò a cena.»
Mia madre annuiva e continuava a pulire il pesce. Avevo qualche perplessità, in proposito e sovente mi ponevo domande: dov’era sepolta la vecchia impeditrice? Perché non ci aveva mai portati con sé, o comprato dei fiori?
E tuttavia me ne restavo zitto. Come se in cuor mio temessi di sollevare qualcosa, che sotto il velame della polvere se la dormisse una qualche bestia. La notte rientrava tardi, a piene stelle, risalendo le scale buie dell’ingresso con quell’aspetto strano, ebete. Odorava di pietre e marciume, una scia dolciastra di putrefazione che gli impregnava le vesti eleganti, accapponandomi la pelle sulle braccia. Mi toccava e combattevo per non ritrarmi. Non era forse mio padre? Che nome dare all’informe cosa che lo abbracciava in quei momenti?
Ero troppo piccolo per prendere coscienza di elementi così sottili. A quei tempi, a quegli occhi che avevo, la vita era un caleidoscopio di avvenimenti. Qualcosa avveniva sempre a distogliermi dalla cosa.
Per esempio si ammalò mia madre. Un giorno cominciò a tossire, a dire di sentirsi stanca. E lui le stava sempre attorno, più di me che ero confinato a scuola fino a pomeriggio inoltrato. Avevo fatto undici anni, frequentavo le medie.
Non era nulla, null’altro che una tossetta stizzosa. Ciò nonostante, lui la costringeva a letto. Adesso non la lasciava mai, neppure per andare dalla vecchia morta, e ciò era ridicolo assai. Mio padre aveva infine trovato una nuova ossessione. Sedeva a fianco del letto, reclinato sul cuscino a respirarle in faccia, ad affondarleci dentro le pupille puntute. I conti dell’ufficio glieli recapitavano in stanza e a stento se ne occupava.
Un pomeriggio, io me lo ricordo bene, ci avevano fatti uscire prima del solito. L’odore della malattia, quel perverso ibrido di fiori e fognatura, era penetrato fino agli estremi della casa, investendomi sulla porta. Avevo capito allora, non chiaramente, che qualcosa era precipitato. E la porta di camera era aperta; e lei era sola, finalmente sola, tutta ridotta in se stessa, come una mummia precolombiana o un’effigie di cera.
«Mamma.»
Aprì gli occhi e la bocca a un tempo. Fu come quando affondo la spatola nelle mie bambole di silicone per produrvi i solchi delle orbite e del cavo orale. Fu la medesima, grottesca collosità.
Mi fissò per un istante, come se non mi riconoscesse.
E poi disse: «Voglio andare via.»
«Mio tesoro, parlare non ti fa bene.»
Mi girai. Tra la porta e lo stipite, papà disse che era pronto il farmaco. Aveva un bicchiere in mano e il polsino della camicia macchiato.
Lei peggiorò. Due settimane dopo era moribonda.
Dinnanzi alla porta chiusa, io lo imploravo di lasciarmi entrare. Non le avevo più parlato, non l’avevo più vista. Misuravo il corridoio umido, nei miasmi del medicinale e nel silenzio dell’esistenza che va spegnendosi. Percorrevo le scale della vita scendendole al mattino per andare a scuola; risalendole, erano quelle della morte.
Un giorno andai ad aprire il portone. C’era un ometto baffuto, approssimativamente dell’età di mio padre. I suoi occhi erano limpidi, il sorriso innervato da una raffica di tic.
«Sei Camillo?»
«E tu?»
«Un amico della mamma. Mi fai entrare?»
L’uomo si chiamava Gaio Benetti. Possedeva una bottega di cere e terrecotte su in Romagna. Aveva l’aria di uno che sarebbe stato in grado di uscire indenne da qualsivoglia catastrofe.
E la catastrofe stavolta ero io. Mia madre lo aveva incaricato di adottarmi.
La vidi altre due volte. Quando entrai in camera sua per poco non mi abbattei al suolo dall’angoscia, povera devastata creatura. Al di sotto di un volto divorato dalla viscosità del male, gli zigomi sporgevano quasi a volersi rovesciare di fuori passando per le orbite. Le labbra si erano ritirate sulla dentatura, digrignata come quella di un cavallo sul morso. Quasi metà della sua capigliatura se l’era perduta.
Era stata bellissima, la mia mamma. Bellissima.
Mi avvicinai col petto di pietra, ponendole sul seno, o meglio, su quel che ne restava, una collana di conchiglie. L’avevo fabbricata a scuola per lei.
Lei espirò a fatica. Un sibilo le passò dalla bocca. Mi avanzò a tentoni sulla faccia una mano scarnificata.
«Amore. Amore non… Amore, non venire più. La città la casa lui… lui.»
Non mi presentai a scuola per tre giorni. E in quei tre giorni la mamma spirò.
«Non ha sofferto», bisbigliò il dottore uscendo, il suo palmo enorme tra i miei capelli non lavati. Guardai mio padre, così calmo, così colmo, rassegnato e rasserenato. Davvero, pensai che fosse un individuo dotato di una fede immensa, perché era rimasto completamente solo e tuttavia non crollava. Quando Gaio gli espresse le ultime volontà di mia madre, lui deformò il volto in una patetica espressione ellenica, ma senza perdere quel fare quieto che sembrava essergli connaturato. Le sue emozioni erano i rami scossi di un albero che non cede. E acconsentì che lo sconosciuto mi portasse via.
«Mi basta che torni. Sono suo padre, no? Siamo una famiglia, no? Io, lui, lei.»
«Le mie condoglianze.»
«Non serve.» Si rivolse a me. «Camillo, ti aspettiamo. Ci prometti che torni presto?»
«Sì, papà.»
Non mi feci più vedere per quindici anni.
Mi avviarono allo stesso mestiere del mio benefattore, sebbene non avessi abbandonato gli studi. Lassù me la passavo bene, là nella bottega ombrosa di casa sua, dove tra le sue mani fibrose i volti, i corpi, la materia prendeva forma. Contemplavo quel lavoro, tutto il plasmabile che sapeva plasmare. La creta, l’argilla, la cera, ecco, non avevano alcuna volontà di resistergli. Si arrendevano alla precisione delle sue dita, a una passione che su una donna non poteva essere esercitata. Infatti Benetti era scapolo e in quindici anni nessuna femmina varcò mai la porta del suo alloggio, eccetto lei.
Eccetto Lavinia.
Lavinia era sua nipote, la figlia di sua sorella. Aveva all’incirca la mia età. Come nelle favole, ci vedemmo e ci piacemmo. Non c’era altra ragazza nel mio quotidiano, non c’era altro ragazzo nel suo. Era bella ed ero bello anch’io, suppongo. Giovani entrambi, entrambi soli, questo sì. E assai più tardi, quando avevo vent’anni e faceva freddo, mentre sedevamo di fronte al fuoco nell’attesa che scoccasse la mezzanotte e le strade si popolassero di giubilo per l’anno nuovo, io la guardai, le silenziai i pensieri.
E domandai gravemente:
«Allora, questi biscotti?»
«Hai scelto bene, ma troppa glassa.»
«Mi fa impazzire. Aspetta, ne prendo ancora.»
«Stai, vado io.»
Si alzò. E mentre si alzava una serpe di vetro mi circonvolse lo stomaco. Così, raggelato, le afferrai la mano e la bloccai.
Si voltò. Ero terrorizzato.
«Camillo?»
«Mi sposerai?»
Fu uno di quei pochi matrimoni felici della nostra epoca. Per diversi anni passai le mani su quei capelli splendidamente castani, senza mai smettere di pensare a Baudelaire. E finché c’era Baudelaire, mi dicevo, doveva esserci amore. Era tanto florida e sanguigna, con la pelle che s’imporporava al tocco. Tutto il rosso defluito dal corpo di mia madre aveva impolpato il suo.
Lei l’avevo sigillata nel mio inconscio, murata dietro la parete. Non avevo più parlato di lei, né l’avevo cercata. Nel mio profondo era ancora là, nella camera di Napoli, circondata dalle mosche saprofaghe, col fazzoletto nero che il medico le aveva posto sul viso quando mi aveva lasciato entrare per l’ultimo addio. Ma se non aveva sofferto come lui aveva detto, perché coprirle la faccia? Per celare al mio sguardo un’espressione urlante, incisa dalla Morte nel terribile, ultimo istante?
Non c’erano corridoi nella casa di Benetti e di questo ero felice. Non mi piacevano i corridoi. C’era sempre il sospetto innominabile, troppo angosciante, che ogni porta che trovavo socchiusa desse su quella camera, dove lei era morta tra ansiti e necrosi.
Tenevo chiuse tutte le porte, sempre. Lavoravo la creta e l’argilla, ma mai la cera o il silicone.
Mai la cera. O il silicone.
Nacque una figlia. Lo sai bene. La chiamammo Serena, e sai anche questo. Vivevamo assieme a Gaio, io in società con lui, Lavina insegnando aritmetica nei licei. I fantasmi attraversavano la mia casa regolarmente, ma era una casa piccola, così piccola che tutti loro, gli spettri, facevano veramente in fretta ad andarsene.
E poi arrivò la lettera.
Me la consegnò il postino in un caldo mattino di giugno in cui sedevo la gradinata di casa ad abbrustolirmi mani e piedi.
La lettera era di mio padre. La aprii con le dita che tremavano, in attesa della sassaiola di rimproveri, se non di peggio. Non mi ero mai fatto sentire, non una lettera, non una telefonata per vent’anni anni.
Quand’ebbi il foglio spiegato sotto gli occhi allora sì, allora impallidii fino alle viscere.
Perché dopo due decenni di silenzio, tutto ciò che mi trovai a leggere fu: “Quando torni? Manchi a tua madre.”
La compostissima pace con cui le sei parole erano vergate – la calligrafia di un notaio -quel fare così candido, quel suo parlare di una morta, di un corpo putrescente come se ancora avesse vita, sentimenti, pensieri, volontà; fu questo a precipitarmi nel terrore.
Appallottolai la lettera e la gettai nel fuoco. Per quasi un quarto d’ora camminai avanti e indietro tra scrivania e camino, finché giunto allo stremo non afferrai carta e penna per sbatterli, sbattermi sul piano del tavolo e scrivere disperatamente: “Presto.”
E le notti seguenti, e poi anche i giorni, erano su di me come una mano proiettata sulla mia spalla da distanze considerevoli – da Napoli, dal sottosuolo di Napoli – affondando le falangi nella mia carne in silente richiamo – «Vado da lei. Stasera non sarò a cena.» Non era così che parlava lui calzando il cappotto? Non era così?
Avevo ereditato. Il richiamo era passato a me.
Mi reclamava. Era monotono, continuo come il tam-tam dei morti, che non si penano di ripetersi, di ripetersi all’infinito, poiché infinito è il loro essere e tanto vale cedere subito alla reiterazione. Si uniscono a un coro che non si stanca, a un coro che non ha contrappunto, che non si sgomenta. Stanno compressi, tibia su tibia, adattandosi a non essere più parte del flusso del tempo, ascoltando pazientemente lo sgretolarsi interno della struttura che li compone.
Il mese seguente preparai i bagagli. Avevo venticinque anni e Benelli aveva espresso il desiderio di ritirarsi dall’attività e lasciarla tutta a me.
«Posso venire?»
Me lo chiese Lavinia mentre tiravo giù la valigia dall’armadio.
«Tesoro, riguarda me.»
«Ma non mi porti mai, non andiamo mai.»
Sospirai incrociando le braccia. Lei sorrideva senza scomporsi, senza vacillare. Era un’amazzone, non una sirena.
«Lavinia.»
«Ti scongiuro.»
«Serena resta qui.»
Quando la bambina mi domandò dove andassi, cosa andassi a fare, io risposi “lavoro.” Non avrei detto di più, mai fomentato domande pericolose nella sua testolina adorata. Mia moglie rideva e tutta la carrozza del treno le andava dietro, un po’ infastidita e un po’ divertita. A fianco a lei persino quella sembrava una corsa in direzione della vita. E per Lavinia non era altro che questo, non le avevo raccontato niente. Non sapeva che la portavo su strade lugubri, sempre più lugubri.
Napoli mi raccolse con la nausea in corso. Evitavo l’ombra, ma ero condannato a scivolare nei rioni. Tagliai per il sagrato dell’abbazia del Santo Spinario, che mia madre aveva tanto amato e che avevo visitato da bambino, scortato da lei e da mio padre. La costruzione non era cambiata, perché le chiese non cambiano mai. I mattoncini arrotondati, gli stessi dei muriccioli costieri, vecchi di secoli e con le piccole finestre che ricordavano le feritoie nelle caverne e il tetto dalle tinte brune. Lavinia avrebbe voluto visitarla, ma io non la volli accontentare. Non volevo avere più nulla a che fare con simili cose.
Giungemmo alla casupola con le finestre azzurre. Altro colore se n’era andato dal legno, ma a parte quello era tutto uguale. Potevo ancora essere il bambino taciturno e inespressivo di allora. Mio padre poteva essersi appena ridestato da un’ibernazione ventennale.
«Sapevamo che saresti tornato, giovanotto!»
Sapevamo. Gesù.
Gli piaceva Lavinia. Quando le domandò se avessimo intenzione di avere figli, e lei era in procinto di rispondere che già ne avevamo una, io le rivolsi un’occhiata eloquente. Capì e disse che no, non aveva alcuni interesse in merito. Per l’intero pomeriggio mi avrebbe adocchiato confusa.
La risposta aveva intristito mio padre.
«Peccato. Senza le nuove nascite prevale la morte. E allora chi si occuperà di chi non c’è più?»
«Ma non sai parlare d’altro che di morti? Cosa sei, un necrofilo?!»
Tutti e due mi guardarono. Avevo la mandibola che doleva dalla contrazione. Lui aveva la faccia di chi se l’era aspettato per anni.
«Poverino, lo so che mi detesti. D’altronde mi hai conosciuto un anno solo. Ma dico, basta un anno solo a odiarmi?»
«Papà, io…»
Cenammo là, al lume di tre candele. Spiegò che, siccome non riusciva a pagare i servizi, di tanto in tanto gli staccavano la luce. Ciononostante, non aveva badato a spese per la cena: specialità tradizionali, buon vino, cacciagione procacciata da lui stesso. Come alcuni uomini soli, anche lui sapeva fare buon uso dei fornelli. Soltanto nel mentre che affettava l’arrosto adocchiai appieno la sua figura macilenta, gli abiti rattoppati e i profondi segni sul volto. E io l’avevo lasciato solo.
Ma già era tornato sereno, di quella serenità stupida poiché immotivata.
«Credo che adesso manterrò la promessa, Camillino mio.»
«Che promessa?»
«Di mostrarti come trattiamo i morti.»
Gelai. I morti no, ti prego. Basta, basta coi morti. L’ancestrale, sinistro tamburo, il sibilo dei bassifondi. L’impressione che decine di orbite vuote, di crani levigati si protendessero allibiti dall’oscurità della casa. Le fosse, i sarcofagi, gli anfratti di prigionia, i loculi dove marcivano stipati come forme di pane dimenticate nel forno. Morti, morti ovunque. Cornucopie di cadaveri che ci precedono nei secoli, e su cui fondiamo le nostre città del presente.
Mi toccavano. Sussultai terrorizzato, poi vidi che era Lavinia, scuri occhi sgranati.
«Stasera no. Camillo è… strano.»
«Ma sua madre ha aspettato tanto per…»
«È morta. Domani andiamo a vederla. Poi ripartiamo.»
Non potei guardare che lei, le labbra rinsecchite sui denti. Lavinia annuì, ma non so come la prese lui. Non l’avevo voluto guardare. Provavo un misto di pietà e ripugnanza. L’odore familiare permeava ancora le stanze della vecchia casa, dolciastri e pungenti, come vita che langue derelitta. Mio padre rimaneva seduto, con gli occhi rapaci sul piatto, ma senza toccarlo. Mia moglie parlò di dover prendere aria e si alzò dal tavolo tirandomi a sé. Sì, era vero, serviva anche a me.
In piedi sull’uscio, con la luna sospirante sui tetti. Il rione si attorcigliava di tra i muri e una pesante claustrofobia stringeva tutti nella sua cinta. Ma come avevo fatto a trascorrere in quella fossa un anno della mia vita?
Avanzammo nei sassi della strada. Il rombo della costa era la collera di un vecchio ignorato da tutti. Quasi pareva che i servizi fossero stati negati al rione intero.
Pensai: “impossibile”. E allora perché non c’era una luce, una men che fottuta luce in qualunque direzione guardassi? Il quartiere era una montagna di sassi composti da un bambino sulla sponda del fiume.
Non parlavamo. Erravamo di lampione in lampione con le mani illividite dal freddo, con il sale nel naso e una gravità insostenibile sulle spalle, come se il Santo Spinario ci pigiasse il corpo e ci volesse morti. Come se le sue fondamenta scricchiolassero stancamente, proprio adesso che gli passavamo davanti, noi poveri omiciattoli intimoriti, per franarci addosso con la mole dei suoi secoli e delle sue reliquie suppuranti.
Poi compresi. Non erano scricchiolii: era ghiaia.
Ghiaia sotto passi. Passi in sequenza. Sequenza in crescita.
Guardai mia moglie.
«Lavinia.»
«Cam…»
Non so quale senso fu più rapido, se la vista o l’udito. Il cervello, come da copione, arrivò per ultimo a concepire. Tutto il resto memorizzò ogni cosa, lo fece senza esitare un istante.
Ci guardavamo, il tonfo dell’onda, del rigetto marino, generato e allevato in chissà quale profondità mostruosa, si abbatté in lontananza contro una scogliera dannata. Udii il croscio fin là, io che mi domandavo cosa fosse quello spruzzo traslucido che ci danzava attorno alle facce, sbalzando di lato, alla destra delle sue labbra dischiuse, sanguigne. L’eco fu infinito. Non era un’onda, ma…
«Uno sparo! Ha sparato qualcuno!»
«Quella là, laggiù!»
Lavinia vacillò in avanti. Sboccava sangue giù per il mento. Per questo era così florida, capisci? Per tutto quel sangue che si pompava dentro, che quasi moriva dalla voglia di catapultarsi fuori, aperto che si fu lo spiraglio.
E la vidi rovesciarsi sul selciato, su tutto quel fluido cerebrale, tutto quel sangue nero di ragni.
E poi caddi anch’io.
(Continua venerdì prossimo, 2 luglio)
Venerdì, 25 giugno 2021
In copertina: Foto di Luisella Planeta Leoni da Pixabay.