Il metodo come teoria e pratica
di Simona Maria Frigerio
Continuiamo ad approfondire la storia di Teatro Nucleo (già raccontata in parte su https://teatro.persinsala.it), concentrandoci sugli scritti di Horacio Czertok raccolti in Teatro in esilio.
Molti registi e autori teatrali sono stati, nel corso della loro vita, anche teorici sviluppando un proprio metodo teorico-pratico per esprimere la loro visione, anche filosofica, del mestiere – di attore, di regista o tout-court del fare teatro. Da Brecht ad Artaud, passando per Stanislavskij e Mejerchol’d, le ragioni per salire sul palco o scendere in strada, e su cosa esprimervi, come e perché sono stati al centro di dibattiti e libri soprattutto tra la fine dell’Ottocento e nel corso del Novecento. Anche Horacio Czertok e Teatro Nucleo si sono confrontati con tali interrogativi e ne è emersa una originale rilettura della fisiologia delle emozioni di Stanislavskij attraverso studi di antropologia e il tocco di delicata follia che ha regalato al mondo Antonin Artaud.
Partendo da quest’ultimo e, particolarmente, da Il teatro e il suo doppio e altri scritti teatrali, si comprende (anche colloquiando con Cora Herrendorf) che vi è una condivisione della critica che mosse il francese al teatro coevo: “una sorta di mondo congelato, con artisti insaccati in gesti che ormai non servono loro più a nulla, con solide intonazioni che già si frantumano in mille pezzi”. Al contrario, nelle situazioni limite, l’uomo si libera dai propri tabù ed è su questa constatazione che Czertok – fin dai tempi in cui era tra i primi membri di Comuna Baires – ragiona e lavora. Ma come si può provocare la crisi che permette all’attore di passare da gesti ‘insaccati’ ad azioni che emergano dal suo sentire più profondo, insieme atavico e irrazionale, e, proprio perché intrinseci all’essere umano e parte del nostro immaginario collettivo, in grado di comunicare in maniera immediata e autentica con lo spettatore?
Il passo successivo, racconta Czertok, è stato comprendere come nella crisi causata ‘dalla cessazione del tempo’ (ossia dalla minaccia di morte) ognuno ritrovi gesti naturali per raggiungere lo scopo – che è, ovviamente, evitare la morte. Anche l’atto rituale può, attraverso una serie di tecniche e pratiche, predisporre positivamente l’essere umano verso quello stesso scopo. A questo punto si può comprendere come l’attore debba auto-indurre, attraverso il metodo – che è in grado di indurle ma anche di gestirle – “espressioni dell’emozione prolungate in atti e parole”. In termini forse più semplici, le situazioni limite nelle quali occorre credere servono per creare un qualcosa che vada aldilà del gesto stereotipato o dell’emozione fittizia.
Riassumendo. Per superare i ‘blocchi culturali’, occorrono situazioni limite, ossia – secondo Czertok: “un processo che si può descrivere sempre con le parole di Malinowski [antropologo e sociologo polacco attivo tra gli anni Dieci e Trenta del Novecento, n.d.g.]: «una forte esperienza emotiva, che si esaurisce in un flusso puramente soggettivo di immagini, parole e atti di comportamento, che lascia la profondissima convinzione della sua realtà»… ovvero che permette l’affiorare del ‘pensiero mitico’, attraverso il quale l’attore simultaneamente ‘si conosce’ e ‘suo malgrado’ trasmette – oltre la mediazione del linguaggio convenzionale – allacciandosi ‘immediatamente’ con la sensibilità dello spettatore”.
Il gioco e la violenza
Oltre la crisi, occorre tenere presenti altri due paradigmi per comprendere il lavoro di Teatro Nucleo. Il primo proviene direttamente dal to play che, non finiremo mai di scriverlo, esprime con compiutezza quel giocare che è anche recitare, e viceversa – come scrivevo nella recensione di Morte di Zarathustra, libro firmato da Clemente Tafuri e David Beronio, dedicato al loro lavoro teatrale omonimo: “Nella lingua inglese l’attore… come il bambino che non ha il senso del tempo proprio dell’adulto, e [per il quale] tutto è immanenza, mentre gioca a essere interpreta e, come il coreuta, suona il proprio corpo quasi fosse uno strumento del dio”.
Horacio Czertok scrive: “Il teatro è finzione. La parola finzione, però, ha molti significati. Non implica necessariamente, obbligatoriamente, simulazione o rappresentazione. Finzione significa anche ‘invenzione’”. E più oltre, citando La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873 di Nietzsche, “Come giocano il fanciullo e l’artista, così il fuoco eternamente vivo gioca… Talvolta il fanciullo getta via il suo giocattolo, ma tosto lo riprende, per innocente capriccio. E non appena costruisce, egli collega, adatta e forma in obbedienza a una legge e in base a un ordine intimo. Soltanto l’uomo estetico può contemplare il mondo in questa maniera”. Il gioco come atto creativo che permette, al bambino come all’artista/teatrante, di ideare nuovi universi di senso attraverso oggetti, storie e azioni nate dalla propria volontà di potenza.
E chiudiamo con il discorso, altrettanto interessante, sull’aggressività – che non va confusa con l’aggressione. Partendo dal pensiero di Lacan [si veda la relazione, L’aggressività in pasicoanalisi], da quel suo io che “tende ad avvicinarsi all’ideale senza riuscirci mai, e proprio per questa irrealizzabilità, l’io si trova gettato in un rapporto di perenne rivalità con quell’ideale che l’inganno dello specchio alimenta. La lacerazione originale che separa l’essere del soggetto dalla sua proiezione ideale, si produrrà con più forza, proprio laddove l’immagine riflessa nello specchio rimanda al soggetto l’unità ideale, come un’‘unità alienata’”, Czertok fa suo il principio che l’essere umano abbia sviluppato la violenza nel corso della sua storia ormai millenaria “come risposta a diverse esigenze endogene ed esogene della persona e del gruppo”. Ma ciò che ci “turba, è la presenza del piacere in questo processo. A quanto pare uccidere è piacevole. Mentre uccide, l’assassino gode dell’agonia della sua vittima”, e ancora: “Il simbolo che mostra un uomo affisso a una croce, inchiodato alle estremità… non sollecita in qualche modo una risposta di piacere inconscio…?”.
Però, mentre la società opera – di fronte alla violenza atavica e/o inconscia – attraverso una serie di operazioni volte alla rimozione delle pulsioni (“di questo vive gran parte dell’industria dell’intrattenimento”, nota sagacemente Czertok), il laboratorio teatrale proposto da Teatro Nucleo esplora proprio “questa ‘forza oscura’ con diverse tecniche di gioco in situazione immaginaria. È l’indagine ‘su’ e per ‘per mezzo’ del conflitto”.
Un teatro, quindi, calato nei conflitti e nelle situazioni limite, che non perde la sua intrinseca capacità di giocare, ossia di creare partendo dalle pulsioni inconsce e dall’immaginario collettivo per rivelarci a noi stessi, indomito e idealista, perché (come titola Ferdinando Taviani nella sua prefazione) “Il teatro è l’arte di lottare”.
Per approfondire l’argomento:
Teatro in esilio. Appunti e riflessioni sul lavoro del Teatro Nucleo
raccolta di testi di Horacio Czertok
Bulzoni Editore, 1999
Su Dame la mano, regia di Cora Herrendorf:
https://teatro.persinsala.it/dame-la-mano/53445/
Per Ritratti d’Autore, l’intervista di Daniele Rizzo:
https://teatro.persinsala.it/horacio-czertok/54709/
Teatro Nucleo: L’attore in manicomio (1977/78)
Venerdì, 4 giugno 2021
In copertina: immagine tratta dalla copertina del libro di Horacio Czertok, Teatro in esilio. Appunti e riflessioni sul lavoro del Teatro Nucleo.