Lui v/ lei – l’insostenibile incomunicabilità bergmaniana in un raconto breve
di Simona Maria Frigerio
Il treno corre lungo le rotaie, corre… corre… il leggero dondolio mi rilassa, quasi mi assopisco di fronte al finestrino nel quale mi sforzo di non vedere la mia immagine riflessa, ma guardare oltre: la campagna che lentamente si va imbiancando nel buio e, di tanto in tanto, nella luce dei lampioni di qualche paese, la figurina sottile di una donna o di un uomo che corre veloce verso casa. Casa?: la parola mi riscuote e, per un attimo, l’angoscia mi assale; poi la bestia si assopisce e io cerco, in quell’istante di tranquillità incerta, il diversivo che distragga la mente e la riconduca, domata, nell’oblio della normalità.
Il treno prosegue il suo viaggio e io siedo sul treno… il volto che vedo ora specchiarsi nel finestrino è quello di una ragazza che, seduta alle mie spalle, sta leggendo attentamente un libro. Soffici ondulati capelli rossi le incorniciano un volto minuto, un naso troppo affilato, lunghi occhi appesantiti dal rimmel… per un istante vorrei passare le dita tra quei capelli… Imparare a desiderare di nuovo è un esercizio difficile, laborioso, che mi impegno a ripetere più volte al giorno: devo educarmi all’ascolto degli istinti, nel silenzio del corpo. Lei si volta per una frazione di secondo verso di me e incrocia il mio sguardo riflesso nel vetro; d’istinto abbassa gli occhi: gesto meccanico, retaggio dell’evoluzione. Poi, sorridendo, torna a guardarmi: è consapevole. Si alza ed esce dal vagone. La vedo scendere, avvicinarsi a una bicicletta, scuoterla dalla neve che la ricopre, alzare le spalle e allontanarsi, lentamente, a piedi, voltandosi di tanto in tanto verso la bicicletta abbandonata, e il treno caldo e illuminato. Voglio seguirla, sento prepotente l’impulso di alzarmi e rincorrerla. D’un tratto la mia mente indugia morbidamente sull’idea di quel tradimento non consumato. Entrambi sappiamo che potrebbe essere e io abbasso il capo in cenno di saluto, forse lei sorride con gli angoli degli occhi: ci stiamo dando appuntamento per una prossima volta… un altro viaggio… un incontro occasionale… Poi, come se nulla fosse accaduto, il treno riparte, io resto immobile al mio posto, il paese si allontana, l’immagine della donna si trasforma in un dolce ricordo, un esercizio della mente. La convalescenza è un lungo cammino, ripeto a me stesso.
Appena il treno entra in stazione la vedo: col suo baschetto calato sulla fronte e l’aria allegra di chi festeggia il Natale con la famiglia. La neve continua a scendere e io ho solo voglia di arrivare a casa e farmi un bagno caldo. Lei mi sorride, cerca di afferrare la mia valigetta, ma io la tengo stretta. Allora si fa vicina e mi prende sottobraccio. Ci avviamo alla macchina. Non ho voglia di parlare. È più gentile del solito stasera: mi chiede com’è andata in ufficio, se ho terminato quel lavoro che mi sta facendo arrivare tardi quasi tutte le sere, se avrò l’aumento sul quale conta per rifare il bagno al pianterreno, eccetera eccetera… La guardo mentre guida sicura sotto la neve che cade pesantemente sul parabrezza, mentre continua a parlare e a parlare… A dire il vero: l’ammiro. La sua praticità mi ha sempre affascinato. Lei, invece, pensa – lo so – che è stanca di venire a prendermi alla stazione, tutte le sere, quando faccio troppo tardi per l’ultimo autobus, che ho quasi cinquant’anni e non so guidare, né riparare la lavatrice, appendere una mensola, giocare a calcio e, se solo fossi un uomo… Non sono mai stato un uomo per lei. Mi volto dall’altra parte e guardo, al di fuori del finestrino, i fiocchi scendere bianchi sul bianco della neve, vorrei perdermi, scomparire anch’io, come quei fiocchi, nell’uniformità del tutto, in un vigliacco non-io.
Arriviamo che sta squillando il telefono, lei mi rimprovera con lo sguardo: la infastidisce non sapere chi stia chiamando, ma è abituata a me e sa che io non correrò a rispondere, mentre lei deve andare in garage a posteggiare l’auto – perché non si sentirebbe a posto se non lo facesse. Schiava di quell’ordine maniacale che la rassicura ma che è così difficile da conservare, da mantenere. Sollevo le spalle, scendo dalla macchina e con calma cerco le chiavi di casa. Quando entro il telefono ha smesso di squillare e io guardo la pendola sul camino, spento come sempre. Le otto e mezzo: forse faccio ancora in tempo. Butto la valigetta su una poltrona e salgo velocemente le scale. Sollevo la cornetta e compongo il numero: non risponde nessuno, riaggancio. Mi butto sul letto, poi mi ricordo: sono bagnato di neve e lei non vuole che sporchi il copriletto. Mi alzo in tutta fretta, abbandono cappotto e cappello sull’appendiabiti ed entro in bagno. È troppo tardi: niente vasca, devo ripiegare sulla doccia calda. Lei odia mangiare già a quest’ora perché poi non digerisce, oppure deve rimanere in piedi fino a tardi. Forse stasera ci sarà qualcosa di interessante alla televisione e così non ci farà caso… Esco dalla doccia e mi guardo allo specchio, mi sento la pubblicità di un dopobarba: prendo il rasoio e sospiro. Meglio rasarmi stasera, domattina potrei essere di corsa o non aver voglia… D’un tratto sorrido e alzo le spalle: questo momento è mio, solamente mio. Scendo le scale sfregandomi i capelli nella salvietta. Lei mi guarda con aria di rimprovero: è vero, alla mia età dovrei asciugarmi i capelli col phon, ma io odio il phon, e la televisione la lavastoviglie l’automobile…
Ci sediamo a tavola, per un po’ l’ascolto mentre mi racconta di aver litigato ancora una volta con la cameriera (o forse si dice colf?) perché ha stirato le mie camicie senza appretto – mi guarda di sottecchi per vedere se sbuffo: sa che odio l’appretto ma lei dice che sotto la giacca, la camicia deve rimanere ben tesa e io non capisco niente. Poi mi parla della nostra nuova vicina, che è molto gentile ma ha un cane di grossa taglia che lascia spesso libero: naturalmente agli altri vicini la cosa non piace e le hanno chiesto se può parlarle, dato che con lei, la nuova vicina sembra parecchio cordiale. Quindi – sospirando – passa a sua madre che le ha telefonato nel pomeriggio e – sguardo di rimprovero – doveva richiamarla stasera… Poi non la sopporto più e, benché mi sforzi di concentrare l’attenzione sul discorso, le parole perdono di senso, si rincorrono prive di significato scivolando, come suoni sconosciuti, sulla superficie della coscienza… e, intanto, la mente segue altri pensieri, ricordi che fanno increspare leggermente le mie labbra e che lei interpreta come un tacito assenso, un cenno di approvazione. Finito di cenare vado in cucina a lavare i piatti: mi rilassa, lei dice che li lavo perché non ho voluto comprarle la lavastoviglie e non ho il coraggio di ammettere che ho sbagliato. Sollevo le maniche del pigiama e mi rilasso: l’acqua mi riscalda le mani e io mi godo quel tempo solitario nel quale posso evitarmi di fingere, di guardarla, di accennare di sì col capo. Lei si siede davanti alla televisione e, di tanto in tanto, si alza e viene in cucina a prendere qualcosa dal frigorifero, a controllare a che punto sia, oppure, dal salotto, mi aggiorna a voce alta su chi è l’assassino o chi ha lasciato chi o… ormai gli unici programmi che riesce a evitare sono i contenitori del sabato sera. Finito di lavare i piatti – infastidito con me stesso per aver fatto troppo in fretta – entro in salotto, mi siedo sulla poltrona e raccolgo il libro che avevo abbandonato la sera precedente. Amo il ripetersi di questi gesti meccanici: la mia sicurezza d’immortalità. Lei, ogni tanto, sposta lo sguardo dalla televisione al mio capo chinato sulle pagine e dice qualcosa, si informa sul libro, cerca di conversare: io accenno sempre di sì col capo, qualche volta ascolto pure. Mi rendo conto di non provare nulla. Mi rimprovero: ho troppa paura di fare a meno di quei rituali, che sono la mia esistenza, e di ritrovarmi solo. Mi alzo dalla poltrona, con un senso di colpa misto a impotenza che mi scuotono da dentro. Tento un gesto: le sfioro la guancia con le dita. Lei si ritrae. Salgo le scale senza dire una parola. D’un tratto mi soffermo a guardarla. Lei forse si accorge che la sto osservando. Alza gli occhi verso di me e, mentre morsica con energia la mela, sorride: per una frazione di secondo mi sembra di amarla ancora. Poi i denti affondano nella buccia, lacerandola, e io torno a vedere quel corpo appesantito, avvolto nel pigiama da casa, nascosto tra le pieghe della carne; quel corpo che non sento più mio, che non ricordo di avere mai desiderato e, benché mi sforzi di continuare a provare quell’emozione, resta solamente il vuoto, il ricordo di un altro, la foto delle vacanze di quindici anni fa.
Appena entro in camera mi butto sul letto, pesantemente, poi accendo la lampada sul comodino, mi alzo e vado a prendere un disco di Guccini: in questo periodo lo ascolto spesso, troppo forse. La musica scaccia il sottofondo della televisione: lei alza sempre il volume appena vado a letto, ma io chiudo la porta e lei non esiste più. So bene che tra poco lei fingerà di avere sonno e verrà a letto e io dovrò sembrare già addormentato e rimanere immobile, respirare con regolarità, tenere gli occhi chiusi e trattenermi dall’alzarmi e andare in un’altra stanza, magari a fare quella telefonata, o a leggere, scrivere, pensare… Vendo il mio tempo, legato a meccanismi e obblighi, per assicurarmi l’immortalità del gesto, il ripetersi rassicurante della mia esistenza, questa esistenza. Chiudo per un attimo le palpebre e mi scopro a singhiozzare, il mio corpo trema e io mi stringo la coperta al collo. Mi viene in mente l’immagine di Linus – poi scuoto il capo: non sono più un bambino. Mi tiro su nel letto e torno a leggere. Cerco di sfuggire ai miei pensieri, ai desideri, al ricordo. La mia mano scivola lungo il corpo ma lei sale le scale e io spengo la luce. Al buio tento di rimettere il libro sul comodino, che scivola, e io, goffamente, lo raccolgo da sotto il letto e lo appoggio accanto all’abat-jour appena in tempo. Lei entra. Sento che si sta guardando intorno. A tentoni va in bagno. Da dove mi trovo posso vederla mentre si lava i denti, o si spazzola i capelli come una brava ragazza di vent’anni fa. Trattengo il fiato in attesa del momento in cui lei riapre la porta socchiusa e si sfila la vestaglia. Sento il suo corpo pesante sedersi sul letto, sdraiarsi, scivolare tra le lenzuola a pochi centimetri dal mio, e allora non riesco a trattenermi e mi giro dall’altra parte. Lei attende, sento la sua ansia, per un attimo spera ancora che io mi svegli. Poi strattona le coperte e si gira sul fianco. Schiena contro schiena, sui bordi del letto, lontani eppure vicini: fingendo di dormire, nel silenzio imposto, col respiro che lentamente si fa sempre più pesante, finché lei si gira supina e il leggero russare e quel corpo che si rilassa mi tranquillizzano: adesso, per qualche minuto, per un’ora forse, per tutto il tempo che riesco a rubare al sonno, sarò solo.
I primi minuti mi assale sempre la paura di addormentarmi ma, se mi concentro, ben presto la mente si schiarisce e segue con docilità strana la direzione che le impongo. Nel buio ripenso al pomeriggio trascorso e, come un ragazzino, mi scopro a immaginare quello che potrebbe accadere domani. Ho paura che le cose non vadano come mi aspetto, e questo pensiero rende i miei sogni prudenti, i miei desideri codardi. Forse quello che è successo oggi non sarà più di un incontro occasionale – mi ripeto, mortificandomi, compiaciuto nel farlo, e intanto continuo a trastullarmi, indietreggiando di fronte a quelle possibilità sulle quali fantasticavo solo un momento prima. Mi autoconvinco che non devo proiettare nel tempo quest’unico rapporto e provo una sensazione di sollievo, annuendo a me stesso. Eppure, proprio mentre tento di arrendermi alla ritualità di questo letto, mi accorgo che l’incontro di oggi è ancora vivo in me e risveglia desideri dimenticati, situazioni che non appartengono a lei, ma a questa donna che mi giace accanto, e questa consapevolezza mi rappacifica con me stesso. Da innocente, mi permetto d’indugiare in quel gioco amoroso, nel quale mi convinco di essere capitato per caso. Sorrido ripensando ai primi baci, i più incredibili e meno convinti, mentre il mio corpo, estraneo, si muoveva sopra quello di lei, anch’esso estraneo, e per questo eccitante; mentre la mia mente, dall’alto, ci guardava, compiacendosi della mia goffaggine e volgarità. Mi passo un dito tra le labbra, indugio nelle mie parti più intime, nel calore della carne, e sento che il mio corpo ha bisogno di un altro corpo, in questo momento, per rendere più presente il ricordo che va confondendosi. A un tratto mi giro e la guardo: penso di usare lei, persino la sua carne forse potrebbe restituirmi quelle sensazioni. Poi scuoto la testa e mi ritraggo. Con le mani strette tra le gambe, gli occhi spalancati nel buio, percepisco il suo respiro, il suo corpo nel letto, il nostro letto, e il pensiero di quell’intimità m’infastidisce. Mi alzo e cerco a tentoni la porta del bagno: quel rapporto è presente, fisicamente, più della sua mano, più del mio pene, più di questo letto e questa stanza che mi circondano.
Prendo la valigetta dalla poltrona dove l’avevo abbandonata la sera precedente e mi avvio verso la porta d’ingresso, lei m’impedisce il passaggio, poi si fa avanti, solleva il mento e sorride mentre mi chiede se può chiamarmi nel pomeriggio. Mi domando perché dovrebbe telefonare: rincorro a fatica il ricordo abbandonato in qualche cassetto della mente, cerco alla rinfusa tra le mezze frasi che ci siamo scambiati e poi scuoto la testa. La osservo, alzando lo sguardo al di sopra degli occhiali: per un istante i suoi occhi imploranti mi rammentano quella ragazza che, ai tempi della scuola, mi chiedeva di passarle il compito, ma è un attimo. Mi rendo conto che l’orologio segna le sette e sono in ritardo: il tempo scorre, due rughe sottili le segnano le guance slavate e quella minuscola variazione di temperatura non porterà indietro le lancette. Lei vuole andare dal medico, che ci curerà… Se mi sforzassi almeno un po’, ripete più volte, perché, dice, non può farlo da sola. La sua voce si fa stridula, m’insegue mentre mi allontano velocemente verso la fermata dell’autobus: ancora pochi secondi e sarò lontano. Poi tornerà la sera e la richiesta si farà ancora più implorante, angosciosa, o esaltata, come se la risposta fosse in quell’atto avvilente. E io la guardo, per un attimo ancora, mentre l’autobus riparte, e finalmente so: «Non sarò io a farti madre».
Se fossi…
“Accidenti!”, penso mentre spengo la tivù. La pendola suona le otto: se non mi muovo subito arriverò tardi in stazione. Mentre mi vesto, meccanicamente, impreco contro di lui, che finge indipendenza quando afferma il suo disprezzo per la tecnologia, sicuro che poi ci sarò sempre io ad andare a prenderlo in auto alla stazione. Mi calo bene il basco sugli occhi e guardo fuori dalla finestra: è ricominciato a nevicare. Rabbrividisco. Pesto i piedi in segno di ribellione: non ho nessuna voglia di uscire. La mia voce che pigola m’infastidisce. Afferro chiavi e libretto e apro la porta: una ventata di gelo notturno mi fa indietreggiare – l’autocommiserazione è il morbido compiacimento nel quale affondo, a ogni passo nella neve.
Sto guidando, devo convincermi di stare facendolo, la mia mente è altrove, separata dal corpo; provo una gran fatica a concentrarmi sulla strada, eppure ogni movimento è sicuro, autonomo dalla mia volontà. Mi accorgo della situazione che sto vivendo e il senso di consapevolezza mi spaventa: era più facile prima, quando l’apatia rituale del gesto soffocava i pensieri. D’un tratto provo una pungente sensazione di vuoto. Poi, tutto torna come sempre: la stazione mi si presenta di fronte e io rallento l’andatura e parcheggio al solito posto. Ecco che il treno si avvicina, ripeto tra me, fra qualche minuto lui sarà sceso e mi siederà accanto, in automobile: il pensiero di quell’intimità mi disturba. Temo il silenzio. Appena lo vedo, il mio atteggiamento cambia, non le mie sensazioni. Gli corro incontro, faccio un bel sorriso, mi offro di portargli la valigetta e quando lui rifiuta, invece di precederlo alla vettura, lo prendo sottobraccio. Continuo a recitare, mi punisco per quei pensieri che giudico ‘cattivi’. In auto parlo, parlo per entrambi, per evitare che il silenzio, spazio nudo, ci renda ancora più intimi. Di tanto in tanto mi scopro a guardarlo di sottecchi ma, appena me ne accorgo, mi volto e torno a fissare la strada. Lui fa cenno col capo, qualche volta mormora perfino, ma so che non mi sta ascoltando. Alla fine trova il coraggio di girarsi verso il finestrino e guardare fuori, uscendo da quello spazio limitato nel quale siamo prigionieri. Entrando nel cortile di casa sento il telefono squillare; lui, al solito, non si affretta, non corre a prendere la chiamata. Lo guardo, come sempre, con disapprovazione, ma provo sollievo: domani potrò dire a mia madre che è stata colpa sua se non ho fatto in tempo a rispondere. La verità è che non ho voglia di sentire nessuno: a questo servono le mie parole, a creare una barriera tra me e gli altri, soprattutto lui.
Vado in cucina mentre sale in camera. Invidio la sua vita comoda, quell’aria di noncuranza. In fondo, a parte il lavoro, non deve preoccuparsi di nulla. In casa non fa niente, tranne lavare i piatti, e per quanto riguarda parenti amici vicini il suo disinteresse è tale, che devo essere io a ricordargli di fare gli auguri a sua madre per il compleanno o preoccuparmi di invitare ogni tanto qualcuno che conosciamo. Preparo la tavola svogliatamente, le bistecche sono ancora nel congelatore ma lui, comunque, non sarà pronto prima di mezz’ora… Sollevo le spalle e sbuffo: non amo mangiare tardi e, soprattutto, non sopporto di doverlo aspettare: in stazione, per cena, agli appuntamenti, d’abitudine… Mi butto sulla poltrona e prendo in mano una rivista, di quelle che chiamano femminili. La sfoglio annoiata. Ogni tanto mi soffermo a guardare qualche ragazza che posa per la nuova marca di profumo o di biancheria intima. Osservo quei corpi giovani e sodi e penso alle mie cosce sfatte con un leggero disgusto. Io non sono mai stata come loro, nessuna è mai stata come loro. Ma loro ci guardano maliziose dalle pagine patinate e ci prendono in giro, promettendoci che con quella sottoveste o quel rossetto potremo sembrare anche noi giovani e sode. Faccio una smorfia alla ragazza, e accendo la tivù. Lo so che lui non mi desidera, a volte penso perfino che potrebbe esserci un’altra. Ma non importa. All’inizio mi immaginavo con disgusto i loro incontri, magari in pausa pranzo – come nei film americani; o la domenica pomeriggio quando mi dice che va a fare un giro in campagna con la bicicletta. Ho pensato spesso a come potrebbe essere lei, più di una volta ho cercato un profumo diverso sulla biancheria di lui, o magari un piccolo segno, un graffio, una dimenticanza, un impercettibile errore che mi confermasse la sua esistenza. Ma non è mai successo. E lui non immagina neppure che io so. A dire la verità, non m’importa più. Anzi, proverei un certo sollievo pensando che finalmente non sono più io quella che deve soddisfare i suoi desideri. Quei desideri miseri, da calendario, così simili ai doveri di mia madre e di tante altre. Non provo nemmeno più il pizzico di gelosia che rendeva meno inutile quel gesto meccanico, il gusto della vendetta contro quell’altra. Pensarlo con lei – chiunque sia – all’inizio, eccitava la mia fantasia e, mentre lo toccavo, potevo immaginare le sue mani passare su quello stesso corpo, la sua vagina aprirsi a quello stesso pene e, per un attimo, provavo anch’io una sorta di morbido piacere. Ma quel tempo è morto, e diventa sempre più difficile smettere di pensare e lasciarmi andare… Il mio corpo rimane rigido, le mie vene battono un tempo interminabile, la mia gola resta chiusa. E intanto, dall’alto, lo sguardo scivola lungo la sua schiena, mentre si muove sopra di me, e io provo disgusto per questi nostri corpi che fingono e, lentamente, si avviano al silenzio.
Mi alzo dal divano e lo vedo scendere le scale, strofinandosi energicamente la testa con la salvietta. Provo invidia per quella massa di capelli corvini che gli ricadono a ciocche sulle spalle. Spero sempre che, un giorno o l’altro, li perda tutti. Mi rimprovero silenziosamente, lui sorride e si siede a tavola. Parliamo. Cerco di proposito tutti gli argomenti che non gli interessano, con l’intenzionalità della bambina colpevole che, pur sapendo di commettere un errore, non riesce a trattenersi dal ripetere la frase proibita. Mi soffermo a lungo a raccontargli storie sul vicinato. Lui tentenna e io lo perseguito consapevolmente; mi impongo di continuare. Provo un piacere morboso nel vederlo fingere, ostinatamente, di prestarmi attenzione; finché si arrende e io mi rilasso. Per qualche minuto desidero perfino il silenzio. Quando lui prende i piatti e comincia a sparecchiare, io mi siedo buona buona sul divano a guardare la televisione. Trascorre qualche minuto, poi l’ansia si risveglia, mi morde da dentro, si fa sempre più pressante e io non resisto oltre. Mi alzo e vado in cucina con qualche scusa: un bicchiere di latte, una mela, due chiacchiere. Non sopporto più la sua vicinanza eppure non riesco a farne a meno. Soprattutto, dopo averlo ferito o annoiato o rimproverato, sento prepotente il bisogno di vederlo, e assicurarmi che lui è ancora qui, con me, che non mi lascerà, che mi ama – anche se non è vero. Ho bisogno della sua presenza.
Quando si siede anche lui in poltrona tento nuovamente di fare conversazione. Per qualche minuto vorrei davvero parlare con lui. Sono sincera. Ma lui è già altrove, lontano da me, dalla nostra casa, da questa intimità forzata. Capisco che per lui è più importante quel libro, che sfoglia delicatamente, chiuso nel suo mondo di pensieri – impenetrabile, solamente suo. E nemmeno qui, a dieci centimetri da me, in questo momento, lo sento vicino. Lentamente si alza e finge di avere sonno. Mi dà un pizzicotto sulla guancia come da giovani. Il gesto è troppo intimo, mi ritraggo. Poi lo seguo di sottecchi mentre sale le scale. Abbasso lo sguardo e mi ritrovo con una mela in mano. Sorrido e scrollo le spalle. Poi torno a guardare la tivù. Lo sento mentre apre la porta della camera e posso immaginarmelo mentre si spoglia – magari toccandosi pensando a lei. Alzo appositamente il volume della televisione per non sentirlo, per chiudere fuori dai miei sensi quel suo corpo, che si sta muovendo in questa casa, che si sdraia nel mio letto, il nostro letto, eppure è dentro di lei. Guardo le immagini della tivù senza vederle: lui non capisce, non sa che queste immagini non contano nulla per me, sono solamente un rituale ipnotico che mi astrae da quanto mi circonda. Perché io ho bisogno di non esserci, di non rendermi conto. Vorrei avere uno scopo. Fingo di possedere la soluzione quando m’immagino di trovare un lavoro o, magari, di avere un figlio. Ma dentro di me so che niente può riempire questo vuoto che si va allargando, ingurgitandomi osceno. Faccio un terribile sforzo per riuscire ad alzarmi: devo salire quelle scale adesso oppure non mi muoverò più. So che se mi lasciassi andare, in questo attimo eterno, non potrei tornare indietro. Sul pianerottolo sento un rumore di oggetti che cadono e lo spegnersi furtivo della luce. Sospiro un’indicibile tristezza. Poi scuoto il capo e sorrido. In fondo, sono proprio queste piccolezze che riescono ancora a scuotermi: mi aggrappo alla sua inettitudine, per non sprofondare in me stessa. È più facile incolpare lui, così ingenuo nei suoi piccoli tradimenti quotidiani verso la mia intelligenza, che non guardare in faccia il vuoto, spalancato in me. Eppure ci sono momenti nei quali penso che se lui finalmente se ne andasse, io sarei libera di ricominciare; se non spendessi tutte le mie energie cercando di trasformarlo nella risposta vivente alla mia richiesta di ragioni, forse potrei trovare quelle stesse ragioni in me, riempiendo il vuoto. Naturalmente questi pensieri non sono quasi mai chiari, ma piuttosto fugaci illuminazioni prive di parole. Eppure sento che qualcosa cerca, disperatamente, di farsi strada e arrivare sulla punta delle mie labbra, dove muore, per afasia… Mi spazzolo i capelli a lungo, sapendo che lui odia quel ripetersi di gesti appresi da ragazza. Quegli stessi gesti che abbiamo contestato da giovani, quando ci ribellavamo contro il lento adeguarsi, l’apatica accettazione, il tradimento degli ideali… Mi sdraio nel letto, con cautela all’inizio, poi qualcosa si ribella in me e mi fa strattonare le coperte mentre mi giro sul fianco. Siamo schiena contro schiena. Nessuna parte del nostro corpo si tocca, eppure sento il suo calore, il suo respiro, il suo desiderio inespresso che so non appartenermi. Anche il mio corpo avrebbe bisogno di provare piacere, ma è troppo avvilente quell’atto meccanico, quell’esercizio fisico utile alla sanità mentale: mi compiaccio delle elaborazioni linguistiche nelle quali si diletta il mio cervello. Lui non è come me. Di questo sono certa. Tutto in lui è più semplice, non solamente i suoi desideri di ragazzo, ma anche il suo bisogno di rassicurazioni, le sue fantasie d’amore, le relazioni idealizzate: tutte le ingenuità di maschio, tenero struggente bambino perso in un mondo di donne, alle quali vuole succhiare in eterno il latte della vita… Sorrido, poi è buio, e io so.
Sto bevendo una tazza di latte caldo e lo guardo mentre si affretta a prepararsi per uscire. Immagino che oggi la incontrerà e faccio apposta a chiedergli se possiamo vederci. Lui mi guarda con aria stupita, si sforza di ricordare se mi abbia promesso qualcosa. Sono come il ragno di fronte alla preda, intrappolata nella tela invisibile dei ricordi. Lui si dibatte e arretra. E allora io comincio la mia recita: imploro, pesto i piedi, urlo – tutto il repertorio consueto che ripeto con meticolosa precisione. Per un attimo lo vedo impallidire, poi, in tutta fretta, aprire la porta e correre verso l’autobus. Vorrei fermarlo, chiedergli scusa: la paura che non torni mi afferra con un istante d’inesprimibile angoscia. So già che trascorrerò il resto della giornata nell’ansia che lui decida di lasciarmi e che quell’angoscia mi terrà viva, almeno fino a sera. Poi, d’un tratto, proprio mentre l’autobus sta partendo, scoppio in una risata liberatoria e sento quelle parole venirmi finalmente alle labbra e, strozzate in gola, urlare: «Se fossi… libera!»
Tratto da Quadri d’Interno, ©Simona Maria Frigerio, 2015 (vietata la riproduzione totale o parziale, tutti i diritti riservati).
Venerdì, 28 maggio 2021
In copertina: Foto Michael Gaida da Pixabay.