Le mille e una via delle arti
di Simona Maria Frigerio
gallery fotografica a cura di Lucia Mazzilli (foto di ©Lino Strangis, tutti i diritti riservati)
Mondi Oltre di Lino Strangis sarà ospitata dalla Galerie La Pierre Large di Strasburgo dal 17 giugno al 17 luglio 2021. Un po’ in anticipo rispetto all’evento-mostra, abbiamo pensato di contattare l’artista per parlare di nuove tecnologie e delle loro applicazioni creative a 360 gradi in un mondo che, costretto dalla pandemia, si è visto ridotto a fare i conti con la rete, i social media, le piattaforme sia per lavoro e sia per mantenere un minimo di socialità. Ma, aldilà della contingenza, quando si venga alle arti (compresa la performance che necessità della compresenza), ci è sorto il dubbio su cosa rimarrà del periodo pandemico.
Partiamo da uno degli ultimi fenomeni del mondo dell’intermedialità (o della multimedialità, tenendo conto che, nella prima, gli elementi provenienti da media diversi sono fusi, mentre nella seconda possono essere fungibili anche distintamente), ossia dall’universo effimero dei non-fungible token (ossia dei token crittografici).
Lino Strangis: «I NFT sarebbero l’equivalente di una criptovaluta come un Bitcoin solo che, mentre quest’ultimo è trasferibile – ossia è un fungible token, in quanto può essere scambiato – i NFT sono un link a un qualcosa che non può essere scambiato come una moneta ed è, quindi, unico. Attualmente sono il clou della discussione di quel giornalismo mainstream legato all’arte contemporanea che va tanto di moda. Questa invenzione informatica – perché di questo si tratta essenzialmente – era stata pensata per risolvere un’antica problematica, ossia garantire l’acquirente che un video (il quale, teoricamente, è interamente copiabile), acquistato come opera d’arte attraverso un link, sia una copia unica ovvero il master. Purtroppo, questa specifica questione non è stata ancora completamente risolta anche perché comporta ricadute sia a livello informatico sia legale. Mentre le Case d’aste, dall’altro canto, tra le quali Christie’s, visto che chi possiede grandi capitali – soprattutto di origine finanziaria – è sempre interessato a trovare nuove forme d’investimento, hanno iniziato a valorizzare da subito il nuovo prodotto. Così, alcuni creativi completamente slegati da qualsiasi forma di ricerca nel settore della tecno-arte, si sono buttati in questa nuova iniziativa e ciò ha fatto sì che il 99% delle opere oggi quotate sul mercato siano scollegate da qualsiasi sistema di critica d’arte. Sono infatti semplici immagini digitali inserite in quello che si potrebbe definire un social, che raggiungono alte quotazioni in base a fattori quali il numero di like. Ovviamente, questa può diventare una forma di collezionismo come altre; ciò che mi lascia basito è quella parte di critica – o giornalettismo – d’arte che ha immediatamente iniziato a parlare di cripto-arte e, addirittura, di arte digitale per queste immagini, senza nessuna vera analisi a livello storico o artistico. Vorrei anche sottolineare che gli unici dubbi sollevati circa la produzione dei non fungible token sia diretta al fatto che abbisognano di alti quantitativi di elettricità per essere prodotti e, quindi, ci si chiede se abbia un senso questa bolla speculativa, utile a reinvestire introiti finanziari, se per attuarla si debbono mettere in conto alti dispendi energetici in un momento in cui si parla di risparmio energetico e surriscaldamento globale. Ma non mi risulta nessuna analisi su che cosa sia un’immagine e come distinguerla da un’immagine artistica».
Lei, quindi, ha un’idea diversa su cosa sia arte? Perché da decenni molti critici, e anche artisti, affermano che tutto è arte – come tutto sarebbe teatro. Non conta chi fa cosa, bensì l’idea. Basterebbe stare su un palcoscenico per essere attore. Inventarsi un movimento per farsi coreografo. Abbozzare un disegno per diventare scultore.
L. S.: «Ho studiato, amato e raccolto la lezione di tutto il pensiero che si è sviluppato intorno all’arte dall’Ottocento in avanti e questo mi ha portato a pensare che si può comprendere come un artista possa fare arte con qualsiasi cosa – nel senso che qualunque tecnica o azione può diventare arte. Ma concordo con lei che è un fraintendimento banalizzante dire che qualsiasi cosa è arte. Al contrario, se uno – o una – è un artista può darsi che anche con gli oggetti più inusitati potrà creare qualcosa di artistico; oppure, sebbene con una tecnica inferiore ma possedendo la giusta creatività, saprà far emergere qualcosa di interessante. Quando intervengo sul piano teorico sulle questioni d’arte, conoscendo a fondo e stimando la lezione di grandi artisti quali Duchamp, dico sempre di fare attenzione a trarre da quella lezione qualcosa che sia veramente attualizzabile. Mi spiego. Usando la parte da ‘prestigiatori di parole’, che può anche essere fonte di ispirazione, ossia la parte più fluida e quindi variabile di segno, si rischia di banalizzare – sebbene sia la parte forse più sfruttabile dal punto di vista puramente commerciale. E qui torniamo al discorso precedente. Quando Duchamp prende un bidet e lo gira trasformandolo in una fontana apre una frontiera della mente; quando al contrario Cattelan mette lo scotch sulla banana non è assolutamente plausibile pensare di trovarsi di fronte a un gesto di portata similare. Sarebbe come se io uscissi di casa, facessi una croce con due cantinelle, me la mettessi sulle spalle e fingessi di essere Gesù: così facendo non avrei mai lo stesso valore di Gesù».
Ogni arte si deve, quindi, rapportare al suo tempo per dirsi di rottura, ossia per contestare uno status quo?
L. S.: «Sul piano della ricerca puramente estetica si potrebbero fare diverse osservazioni, ma sicuramente chi torna oggi alla pittura o alla scultura esprime, innanzi tutto, maggiore onestà verso le esigenze della nostra epoca. I giochi di prestigio della mente di cui avevamo bisogno tempo fa, avendoli oramai appresi e, col tempo, avendo imparato come sfruttarli in maniera meno originale e forse più commerciale, credo siano ben poco interessanti. Occorre ricercare altri stimoli nell’insegnamento dei maestri del passato. Nel caso di Duchamp, ad esempio, ho imparato a utilizzare – per comporre il mio film – spezzoni di altri video, oppure un’immagine abbinata a un audio talmente differente da modificarne il significato, creando così una forma di cortocircuito. Da tempo mi dedico all’inversione delle cose e del loro senso e la trovo una ricerca davvero interessante. Ognuno, del resto, segue un proprio percorso. Io sono partito da studi di arte e filosofia, poi ho iniziato a dipingere e a scolpire e, quindi, a interessarmi dei linguaggi dell’informatica – finché ho compreso che ciò che maggiormente mi interessa è l’idea della pittura in movimento. Ovviamente non sono il primo a percorrere questa strada. Però, le animazioni in 3D sono diventate per me il proseguimento di un discorso, nel mio caso, pittorico. E infatti chiamo le mie opere video-quadri in 3D interattivi, in quanto si installano in uno schermo sottilissimo, si appendono come tele, hanno un’inquadratura fissa sulla quale si sovrappone una forma di immagine in movimento sviluppata a partire dalla rielaborazione dell’intelligenza artificiale dei robot ronda – che è utilizzata sia nei tagliaerba sia per le azioni militari di controllo di un’area. Questo perché a me interessa passare dalla pittura statica a quella in movimento e, quindi, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale mi permette di creare una danza di colori e forme. Il mio scopo però non è restituire un oggetto artistico con un aspetto esteticamente bello, bensì – come ho già detto – prendere un qualcosa e rovesciarne il significato, e in ciò la mia ricerca si lega al pensiero che trovo tuttora attuale di Duchamp. Io prendo un robot militare, lo capovolgo tramite una serie di operazioni informatiche, e questo diventa un ‘danzatore’. Il risultato mi sembra un seguito interessante di ciò che fece Duchamp un secolo fa».
La musica elettronica ha indubbiamente molto spazio nelle sue composizioni multimediali. Ma in Italia, dopo un periodo di grande fermento per la sperimentazione anche musicale – penso a John Cage ma anche a Luciano Berio o agli Area e a Demetrio Stratos, che hanno allargato la platea dei possibili fruitori – non vi è stato un ripiegamento anche compositivo e un inaridimento dal punto di vista creativo in questo settore?
L. S.: « A volte ne parlo persino a cena e pongo la stessa domanda ai miei commensali. Dato che mi occupo di produzione musicale e faccio musica elettronica anche indipendentemente dai video mi sento dire spesso che i miei lavori ricordano l’elettronica degli anni 70. L’accento su quel periodo, per un certo tempo, mi ha dato fastidio: io non ho mai sposato un genere ma seguo la mia ricerca. Con gli anni, però, ho capito che se alcuni tipi di ricerca – che sono stati tipici dei Settanta – sono tutt’oggi i più interessanti, non vi è nulla di cui debba giustificarmi. Credo che la verità sia che in quel periodo la sperimentazione e la capacità di inventare nuovi linguaggi che aprivano frontiere alla conoscenza erano, in certo senso, ‘di moda’, dato che la curiosità e il voler conoscere e apprendere erano fattori importanti per i giovani. Al contrario, oggi, sebbene vi siano artisti che continuano a essere d’avanguardia e proseguono quel percorso, la maggior parte non sfida il mercato. Attualmente è impensabile produrre un disco come The dark side of the Moon: insieme punta della sperimentazione e record di vendite. Questo perché la categoria dei giovani, che era arrivata a maturità negli anni 70, è stata gradualmente annientata. Quei giovani erano impegnati politicamente e, da quella scelta, ne discendevano altre di uguale impegno in tutti i settori. La società ha lavorato molto per eliminare le ‘velleità’ di quella generazione (o generazioni se si contano anche gli anni 60) forse perché dava fastidio ai poteri forti e, da Genova 2001 in poi, il panorama della sperimentazione si è desertificato. Banalmente io, a quell’epoca, avevo appena finito il liceo e suonavo in una band post-grunge. Ricordo che nel circuito dei Centri sociali – il quale, all’epoca, era ancora abbastanza vasto – si poteva suonare e avere una serie di date indipendentemente dall’essere famosi o meno. Vi era un circuito per i gruppi post-punk, alternativo a quello ufficiale, che rendeva possibile a chiunque fare una serie di tappe nei vari Centri sociali italiani, anche senza un’etichetta alle spalle. Allora c’erano persone che vi si recavano, ascoltavano i gruppi e a cui piaceva acquistare una cassetta registrata anche in maniera non professionale. Le band facevano parte di un mercato più piccolo, alternativo e che definirei molto più ‘equo e solidale’. Dopo Genova, chiuso il discorso politico con le ricadute che quelle idee e pratiche avevano in ogni settore – anche artistico o musicale – una band che fa un genere un po’ off deve immediatamente proporsi ad alto livello nei pochissimi club ancora presenti e dove il pubblico è ridotto a una trentina di persone, di cui al massimo un paio compera il disco».
(Pausa. Per chi voglia ascoltare qualcosa di Lino Strangis:
https://linostrangis.bandcamp.com/track/godless-ritual-music-v)
Riprendiamo la discussione. Quali sono i possibili canali, aldilà delle Gallerie, per gli artisti multimediali?
L. S.: «La maggior parte dei miei lavori è ospitata nei Festival dedicati ai video, alla video-arte e alle installazioni interattive. Anche se, oggi come oggi, sono quasi tutti bloccati».
In questo periodo di lockdown l’unico mezzo di comunicazione e anche di espressione artistica è diventato lo streaming o l’online – ossia la trasmissione in diretta – o meno – di un evento pensato e ripreso dal vivo. Pochi gli esperimenti di trasformazione della matrice creativa in qualcosa che faccia del medium lo strumento per una creazione originale. Cosa pensa di quest’idea del teatro online? Un’occasione mancata per inventarsi altre forme di ideazione artistica e di dialogo fra artisti provenienti da media diversi?
L. S.: «Il teatro in televisione non è paragonabile con l’esperienza dal vivo. Secondo me, gli esempi migliori sono stati quelli che hanno tentato di creare un teatro virtuale utilizzando alcune possibilità della post produzione video per ‘aumentare’ le performance. In generale, comunque, è stato trasmesso ciò che era stato registrato a teatro. Inoltre, a molte compagnie e artisti mancavano le attrezzature per fare video in diretta e multimediali davvero validi. Non si è fatta una vera ricerca sul linguaggio specifico del mezzo utilizzato, bensì una semplice ripresa di un linguaggio ancora legato a quello teatrale. Per quanto mi riguarda, per la Maker Faire – che è la più grande fiera per maker a livello europeo e la seconda a livello mondiale – dovevo presentare un’opera interattiva e, dato che non si poteva fare la fiera in presenza, mi pareva facile presentare il lavoro dal mio stand virtuale. In realtà non è stato così perché, in primis, alcune tra le mie opere utilizzano la realtà virtuale e, quindi, lo spettatore deve indossare il casco. Mentre per altre basta interagire con quanto accade sullo schermo, usando la torcia del cellulare su un semplice sensore ottico e, però, il sensore può non essere nelle disponibilità dello spettatore da casa. Alla fine ho scelto di permettere al pubblico di scaricare l’opera – essenzialmente regalandola. Ma qual è stata la differenza per il fruitore? Che, invece di avere subito una pagina disponibile di interazione, doveva scaricare, prima, un’applicazione e, poi, usarla per conto proprio – il che pone sempre altri problemi. Passando oltre, tre anni fa circa ho progettato con l’Accademia Albertina, dove insegno, un museo della sostenibilità, che era virtuale. Vi era un’installazione fisicamente presente in un luogo dove lo spettatore indossava un casco per la realtà virtuale e si trovava di fronte alla struttura del museo, che era rappresentato da una grande montagna attraversata da gallerie. C’era una serie di segnali a indicare le varie direzioni e, lungo le gallerie – effettivamente in 3D che prevedevano una risposta fisica immersiva – le opere degli studenti dell’Accademia. A quel punto mi è venuta in mente l’idea del museo dei musei come un enorme hangar con tante piccole stanzette ove, in ciascuna, è ospitato un museo che non può, al momento, esistere fisicamente – o non può, per qualche ragione, essere fruito. Purtroppo durante il lockdown ho sentito parlare di mostre virtuali a un livello davvero inaccettabile: si mostrava un quadro di fronte alla videocamera e poi si iniziava a parlarne! Purtroppo quando certi concetti arrivano alla bocca delle masse, non si capisce più cosa significhino. Vi è uno scollamento tra massa e qualità. Una banalizzazione di qualsiasi idea, che pare compresa ancor prima di essere sviscerata: manca la capacità di andare a fondo nelle questioni, di porsi le domande giuste».
Chiudiamo riallacciandoci all’incipit: Mondi Oltre, mostra dedicata ai suoi lavori di videoarte, sarà ospite dal 17 giugno alla Galerie La Pierre Large di Strasburgo. L’ultimo progetto è, però, Reformed A.I.: vuole raccontarlo?
L. S.: «Come ho detto precedentemente, dopo aver lavorato sulla realtà virtuale fruibile con i caschi, mi sono trovato un po’ in crisi perché volevo superare tale mezzo (almeno in quel momento, a causa anche della pandemia) e, come sempre mi capita in questi casi, ho scoperto nuove vie altrettanto interessanti. Ho cercato, quindi, di ideare un’opera ove non ci fosse bisogno di avere o toccare nulla. Installazioni con le quali si interagisce semplicemente con la torcia del cellulare che agisce su un sensore, oppure con dei guanti simili a quelli dei ciclisti da corsa con due LED – uno sull’indice e uno sul pollice. All’inizio ho provato io, poi ho contattato delle danzatrici orientali perché muovono le mani in modo molto particolare e, mentre lo fanno, generano dalla mia opera sia dei suoni sia delle evoluzioni di fibre luminose – creando così una sorta di pittura di luce. In pratica, un performer danzatore, tramite un movimento legato a un’esigenza coreografica, esegue altresì una serie di sequenze sonore. E questo anche se non ha alcuna preparazione a livello musicale (sebbene dovrebbe averne a livello ritmico). Legata a questo impulso di luce, che raggiunge il visore, c’è anche una sequenza di note che ho inserito io stesso – e che sono una più bassa e una più alta – le quali, tramite la programmazione da me impostata, sono modulate dal computer in maniera random cosicché una persona, che dà un certo segnale, produrrà una frase musicale sempre diversa sebbene adeguata a un dato incipit che ho impostato. Ma non solo il performer, bensì il pubblico, grazie alle sequenze sonore inserite nelle installazioni, potrà interagire con le stesse e tutto ciò che farà – sebbene legato al suo e unico gesto – produrrà una frase musicale, che non ho previsto ma che rientrerà in una ‘cornice musicale’ da me stabilita. Tutto ciò permette, a chiunque interagisca con l’installazione, di essere l’esecutore non di un suono qualunque ma di una sorta di scrittura aleatoria che ho composto. Un po’ come in Cage, io inserisco una determinata sequenza che prevede una serie di possibili ricomposizioni. Il risultato sarà il capovolgimento della posizione delle varie parti. Io sono il compositore, la macchina è il violinista e la persona coinvolta è il violino – questo perché non è il soggetto a scegliere quale nota produrrà, ma diventa l’oggetto senza il quale quella nota non potrà essere prodotta. L’esito è un’opera d’arte che si offre come strumento – e non semplicemente un software. Al di sopra di questo primo livello di interazione, vi è il proposito di non assecondare l’idea antropocentrista dell’essere umano quale perno, al centro di tutto – laddove, al contrario, spesso le installazioni interattive pongono il fruitore quale protagonista assoluto del fenomeno. Il mio intento è comunicare qualcosa di diverso: ossia che vi è in atto un fenomeno, indipendentemente dalla presenza umana, e che – se si vuole – si può parteciparvi. Ciò che sta a monte del mio lavoro di artista è il tentativo di far riflettere su temi politici o di ecologia senza parlarne direttamente nelle opere ma ideando situazioni/processi che vi rimandino obliquamente. Io miro al dialogo e non voglio che nessuno sia un Deus-ex-Machina che tutto controlla».
(Per chi voglia conoscere meglio il mondo di Lino Strangis, rimandiamo al suo sito: https://www.linostrangis.net/)
Venerdì, 28 maggio 2021
In copertina: Lino Strangis.
Nella gallery: immagini gentilmente concesse dall’artista (tutti i diritti riservati).