La parola ad Ariel David da Tel Aviv e Fida Touma da Ramallah
di Simona Maria Frigerio
Guerra, morti, sangue, sfollati e paura: lo scenario si ripete. Nel marzo 2009 intervistai Vittorio Arrigoni, attivista dell’International Solidarity Movement in quel momento a Gaza, durante l’attacco israeliano. Dopo oltre dieci anni (e la morte dello stesso Arrigoni) mi ritrovo a contattare nuovamente chi, in Israele e in Palestina, sta vivendo la tragedia della guerra. Come sempre le parole paiono poca cosa di fronte alla realtà della morte e giornali e televisioni si accaniscono sulle crudeltà dei conflitti (che certamente vendono più copie e alzano l’audience), eppure solamente se le persone dialogano possono comprendersi e possono superare i conflitti. Due Stati, due popoli e una capitale comune, Gerusalemme: forse questo dovrebbe essere l’obiettivo – perché cessate il fuoco equivalga a pace.
È significativo che se Ariel David, giornalista di Haaretz che vive e lavora a Tel Aviv, dice: «La sovranità su Gerusalemme Est potrà essere risolta solo da negoziati diretti con i palestinesi» e più oltre: «c’è l’insoddisfazione dei palestinesi per lo stallo di qualunque passo avanti nel processo di pace», gli faccia eco l’architetto Fida Touma, che abita a Ramallah e lavora per un’organizzazione no profit che si occupa di cultura, la A.M. Qattan Foundation: «Finché il mondo considererà i territori occupati nel ‘67 come fossero di diritto parte dello Stato di Israele, le cose non miglioreranno».
Far tacere le armi per far parlare le persone?
La parola ad Ariel David
Dopo il periodo pandemico che molti speravano fosse anche un monito a risolvere le situazioni di conflitto per creare un mondo migliore, come si vive a Tel Aviv questo nuovo periodo di terrore?
Ariel David: «Appena uscito dalla crisi del coronavirus Israele è precipitato in questo nuovo dramma. Da un clima di euforia per il successo della campagna vaccinale e l’approssimarsi di una possibile soluzione allo stallo politico che dura ormai da due anni, si è passati a un senso di choc e quasi di disperazione. Queste reazioni sono provocate dall’intensità degli attacchi provenienti dalla Striscia di Gaza, che hanno colpito Tel Aviv e il cuore di Israele con un numero di razzi e una potenza di fuoco senza precedenti, ma soprattutto dall’esplosione di disordini e violenze da parte degli arabi israeliani e, a stretto giro, degli estremisti di destra israeliani, che stanno mettendo a ferro e fuoco molte città del Paese».
La società israeliana come vede Gerusalemme interamente capitale dello Stato di Israele e quanto è presente nella società civile la consapevolezza che esistono risoluzioni dell’ONU che non vanno in tal senso?
A. D.: «In generale gli israeliani non hanno particolare considerazione dell’ONU, e molti, a destra ma anche a sinistra, ritengono che sulla questione mediorientale le Nazioni Unite siano poco più che un palcoscenico per dittature e governi pregiudizialmente anti-israeliani. Si pensi alle numerose risoluzioni dell’UNESCO (proposte dai Paesi arabi) che negano ogni legame storico e culturale tra l’ebraismo e Gerusalemme, oppure alle continue condanne di Israele pronunciate dal Consiglio ONU per i diritti umani, un organo spesso guidato da Paesi come la Siria, Cuba, L’Arabia Saudita o la Cina, che hanno ben poco da insegnare in termini di diritti umani. Queste politiche hanno fatto perdere molta legittimità all’ONU agli occhi degli israeliani, e lo stesso vale nello specifico sulla questione della sovranità su Gerusalemme est, che potrà essere risolta solo da negoziati diretti con i palestinesi, e non a colpi di risoluzioni ONU (o di missili da Gaza)».
L’accordo di Netanyahu con l’ex Presidente Trump su Gerusalemme incide su questa situazione o forse incide di più il peso della destra più oltranzista sul Governo?
A. D.: «A più di tre anni dalla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele mi sembra difficile trovare un collegamento diretto con le attuali tensioni nella città santa. L’esplosione di violenza ha una serie di cause sia più immediate, sia più profonde. Nell’immediato, come ha ricordato, le provocazioni della destra oltranzista – che ha marciato nella Città Vecchia per commemorare la riunificazione di Gerusalemme nella Guerra dei Sei giorni e che cerca di installare piccole colonie ebraiche nei quartieri arabi di Gerusalemme est come Sheikh Jarrah – hanno certamente contribuito ad accendere la miccia. Più sullo sfondo c’è l’insoddisfazione dei palestinesi per lo stallo di qualunque passo avanti nel processo di pace e la frustrazione anche nei confronti dei propri leader per l’ennesima cancellazione delle elezioni legislative palestinesi. Per i cittadini arabi di Israele c’è invece la rabbia di una minoranza che ritiene di essere spesso oggetto di discriminazione da parte della maggioranza ebraica. E infine, un ultimo fattore importante è stata l’incertezza della situazione politica israeliana e la debolezza della sua leadership: il primo Primo Ministro, Benjamin Netanyahu, sotto processo per corruzione, è principalmente focalizzato sui propri tentavi di formare una maggioranza e sfuggire ai problemi giudiziari. Netanyahu ha lasciato gestire l’inizio della crisi ai suoi sottoposti, meno esperti e più estremisti, e questo vuoto di leadership ha molto probabilmente contribuito a far precipitare la situazione».
Com’è la situazione tra arabi israeliani ed ebrei israeliani a Tel Aviv e, in generale, in Israele?
A. D.: «La violenza e l’odio inter-etnico hanno raggiunto livelli senza precedenti, toccando soprattutto le città e i quartieri con popolazione mista, araba ed ebraica. Nella cittadina di Lod, che si trova vicino all’aeroporto di Tel Aviv, si è scatenata una vera e propria caccia all’ebreo: tentativi di linciaggi, sinagoghe date alle fiamme, cimiteri profanati, al punto che il Presidente israeliano Reuven Rivlin ha parlato di un vero e proprio ‘pogrom’. Disordini simili si sono verificati anche qui a Tel Aviv, soprattutto a Jaffa, e poi ad Akko (l’antica San Giovanni D’Acri) e in Galilea. Alla reazione dura della polizia si è aggiunta quella violenta e razzista degli estremisti di destra ebrei che rispondono per le rime aggredendo cittadini arabi israeliani e attaccando negozi di loro proprietà, moschee, eccetera. Lo scivolamento d’Israele, nel giro di pochi giorni, in un clima che è quasi da guerra civile ha colto quasi tutti di sorpresa, soprattutto perché negli ultimi anni e mesi si aveva la sensazione di un crescente desiderio da parte degli arabi israeliani di integrarsi maggiormente nella società israeliana. Si è registrata una crescente partecipazione degli arabi alle elezioni politiche e proprio nelle ultime settimane erano in corso contatti (ora interrotti) per formare un governo di unità nazionale senza Netanyahu che avrebbe incluso, per la prima volta, uno dei partiti arabi. Questa sarebbe stata una svolta storica per Israele, ma è una svolta, che purtroppo, al momento, pare sia destinata ad essere rimandata sine die».
La parola a Fida Touma
Quali sono le ultime notizie, soprattutto dopo l’attacco israeliano al grattacielo sede di Al-Jazeera e Associated Press?
Fida Touma: «Seguiamo le notizie che provengono da Gaza da post di persone che conosciamo, sui social media, e dai network giornalistici come Al-Jazeera. Il grattacielo colpito ieri ospitava gli uffici di diverse agenzie stampa, compresa AP, e le stesse avevano chiesto di poter spostare i loro archivi prima dell’attacco ma non è stato loro dato il tempo per farlo. Di conseguenza, tutti i mobili, le apparecchiature e gli archivi sono andati persi. Durante la notte altri grattacieli e abitazioni sono stati colpiti, e ora le famiglie sono uccise sotto le macerie senza avvertimento. I nostri amici a Gaza dicono che nessuna strada è stata lasciata intatta. I soccorritori, i pompieri e le ambulanze non riescono a raggiungere le aree colpite. Anche l’acqua e i viveri sono interrotti».
Cosa pensano i palestinesi delle espulsioni dalle loro case a Gerusalemme Est a opera degli israeliani?
F. T.: «Non è solo questione delle espulsioni. Questa è la continuazione di una tragedia iniziata 73 anni fa. Chi abita a Gerusalemme Est ha subito ingiustizie e misure severe che mirano alla pulizia etnica, ossia all’allontanamento dei suoi legittimi abitanti per sostituirli con persone che non ne hanno diritto. Gerusalemme Est è una città sotto occupazione secondo le leggi internazionali. I palestinesi sono arrabbiati, si sentono vittime di un’ingiustizia e abbandonati dal resto del mondo dato che non solamente devono combattere contro i loro occupanti, ma devono continuamente giustificarsi di fronte al mondo – ribadendo di avere il diritto di farlo. Non è una situazione complicata, è semplice e chiara: siamo in presenza di un’occupazione coloniale. Gerusalemme Est non è l’unico luogo dove sta accadendo – succede nell’intera Palestina».
Com’è la situazione, dal suo punto di vista, tra arabi israeliani ed ebrei israeliani? Le cose sono cambiate dopo l’approvazione di The Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People – che specifica la natura dello Stato d’Israele come stato-nazione degli ebrei, designa l’intera Gerusalemme quale capitale e puntualizza l’importanza dello ‘sviluppo degli insediamenti ebraici come valore nazionale’?
F. T.: «Le chiederei di utilizzare il termine ‘palestinesi israeliani’ e non arabi israeliani. Sono palestinesi con passaporto israeliane, che vivono nei territori palestinesi occupati nel 1948. Sono stati oggetto di continue discriminazioni legali e misure di tipo civile fin da quella data. Sono stati sempre trattati come cittadini di second’ordine: la discriminazione sistematica è presente ovunque e, spesso, sono a rischio povertà e di finire nelle mani della criminalità. Ciò che sta accadendo, ora, è che i giovani sono più consapevoli e hanno maggiore accesso al sistema educativo e ai social media e non si vergognano di dire che sono palestinesi. Sono più preparati a dare voce alla loro frustrazione e non hanno più timori. Dall’altro lato, i gruppi estremisti armati israeliani agiscono alla luce del sole nelle città israeliane – sono altresì molto attivi e supportati dall’esercito in Cisgiordania, ma anche nelle città a etnia mista. Il Nation-State Bill è solo la punta di un sistema razzista».
Cosa pensa delle Nazioni Unite e del Piano di Partizione della Palestina ormai del lontano ‘47? Pensa che l’Onu o altre nazioni dovrebbero intervenire e in che modo?
F. T.: «Vista la situazione creata da Israele è impossibile immaginare la sua attuazione. Ma abbiamo bisogno di continuare a sperare, così da proseguire nella lotta e non arrenderci alla realtà imposta. Ci hanno lasciato con meno del 20% di ciò che era nostro. In ogni caso, ancora una volta sarebbe semplice. Questa è un’occupazione e l’intero mondo dovrebbe riconoscerlo e trattare il problema di conseguenza. Il diritto alla resistenza è garantito dalle leggi internazionali. È stancante continuare a spiegare al mondo che i palestinesi stanno mettendo in pratica il loro legittimo diritto di resistere all’occupazione».
Ha notizie dalla Cisgiordania?
F. T.: «Al momento circa 12 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania mentre facevano resistenza ai checkpoint. I coloni hanno attaccato auto palestinesi sulle strade, alcuni villaggi e incendiato campi – fatti che accadono spesso ma, in questo caso, parliamo di attacchi più concentrati».
Speciale – domenica, 16 maggio 2021
In copertina: Foto di Rodolfo Quevenco da Pixabay.
Nell’articolo: Foto di S. Hermann & F. Richter da Pixabay.