Un breve tour da viaggiatori per godersi alcuni tra gli ultimi angoli di paradiso – più o meno idilliaci
Simona Maria Frigerio (testo)
Luciano Uggè (fotografie)
Lucia Mazzilli (cura iconografica)
Correva l’anno 2007 quando Naomi Klein, in Shock Economy, scriveva: “nel giro di ventiquattr’ore dallo tsunami, gli imprenditori edili inviarono guardie armate (dipendenti di agenzie di sicurezza privata) per accaparrarsi la terra su cui volevano costruire villaggi turistici. In alcuni casi le guardie non permisero ai superstiti neppure di cercare tra le macerie i corpi dei loro figli. Il Gruppo dei sostenitori e sopravvissuti allo tsunami in Thailandia fu convocato in gran fretta per occuparsi delle appropriazioni di terra. Una delle sue prime dichiarazioni pubbliche affermava che, per «i politici-imprenditori, lo tsunami è stato la risposta alle loro preghiere, dato che ha letteralmente spazzato via da queste aree costiere le comunità che un tempo avevano ostacolato i loro piani per la costruzione di villaggi turistici, alberghi, casinò e bacini per l’allevamento di gamberetti. Per loro tutte queste aree costiere adesso sono terra di nessuno!»”.
La Thailandia, quindi, è ormai preda del turismo di massa – che, però, ha dato a milioni di persone la possibilità di un reddito fisso in strutture alberghiere più o meno di lusso e nel suo vasto indotto. Ossia in ristoranti e chioschi di street food (molto gradito anche dagli stranieri), in fabbriche di abiti estivi e nell’organizzazione di tour organizzati, nel noleggio di autovetture e boat-taxi, fino ai massaggi in spiaggia e nei centri sparsi un po’ ovunque. Nel trasporto pubblico e in quello privato, nell’affitto di appartamenti e ville fino all’impiego nei mega-store, nei negozi di parrucchiere, manicure e nei go go bar che, oltre alla birra locale, offrono l’accompagnamento del turista con escort generalmente belle, istruite e poliglotte.
Ma allontanandoci di qualche centinaio di chilometri dalle notti di Pattaya e dai resort di Phuket, si possono trovare ancora luoghi da scoprire per viaggiatori che abbiano il tempo e il desiderio di fare altro: esplorare barriere coralline, parchi naturali o semplicemente abbandonarsi alla quiete del lasciarsi vivere.
Prima meta Hua Hin: il tranquillo gerontocomio dei nord europei
La prima volta che abbiamo messopiede sui circa 10 km di spiaggia bianca e farinosa di Hua Hin, vedendo le migliaia di anziani norvegesi, svedesi e tedeschi che si crogiolavano al sole su lettini appiccicati gli uni agli altri come carta moschicida, abbiamo pensato di trovarci a Rimini fuori stagione.
Con gli anni, però, la vita si è un po’ animata grazie al fatto che hanno cominciato ad affluire giovani russi con bimbi biondi e allegri, alcuni italiani di mezza età benedetti dalla quota 100 o da scivoli vari per un prepensionamento che concede loro qualche anno di divertimento prima della casa di riposo, e coppie anche più giovani – soprattutto cinesi – che usano Hua Hin come meta intermedia verso le isole affacciate sul Golfo del Siam (la più famosa, umida e da turismo di massa Samui; l’isola del Full Moon Party, Pha Ngan; e quella della tartaruga, Tao, di cui vi diremo).
A Hua Hin si fa davvero poco: essenzialmente, a ogni ora del giorno e della notte, si passeggia sulla spiaggia.
Il pomeriggio, da fine febbraio a marzo inoltrato, quando inizia a spirare un vento teso, ci sono le evoluzioni dei campioni di kitesurfing – di cui si organizzano anche meeting internazionali. Al tramonto, invece, ben irrorati con spray anti-zanzare (visto che nel Paese la dengue è tuttora endemica), con pantaloni e camicie a maniche lunghe preferibilmente chiari, si possono ammirare i riflessi delle pozze d’acqua nella sabbia: utilizzati perfino dai pubblicitari delle multinazionali per immortalare bellezze asiatiche accanto a improbabili letti a baldacchino o al galoppo – come in una vecchia pubblicità del ‘Pino Silvestre’.
Sempre via spiaggia, la sera, si può raggiungere uno dei due centri commerciali presenti in città – agghindati e sbrilluccicanti, tra dicembre e fine febbraio, per festeggiare ininterrottamente il Capodanno occidentale, poi quello cinese e infine San Valentino che è, forse, la festa laica più sentita dai thailandesi. E sempre via spiaggia, sebbene il percorso così facendo si allunghi (ma, del resto, qui c’è davvero poco da fare), si può giungere fino al Wat (che significa tempio) Khao Krailas. Costruzione collinare da cui si domina l’intera Hua Hin, che offre panchine su cui ci si può riposare, a livello fisico e mentale, ammirando il digradare lento e armonioso delle vasche di pesci (nutriti soprattutto dagli orientali, ma anche dai turisti occidentali, che amano comprare dai monaci sacchettini con palline puzzolenti che, però, visto lo scompiglio che crea il buttarle nelle vasche devono essere manicaretti deliziosi per questi voraci animaletti).
E la notte, infine, sempre camminando sulla spiaggia – da giovedì a domenica – si può recarsi fino al Cicada Market (lontano dalla frenesia del centro e del Night Market), per bersi una birra ascoltando hit occidentali reinterpretate in maniera melensa dai cantanti thai, acquistare paccottiglia pseudo-artigianale o mangiare pesce al sale, cotto al bbq; un Pad Thai (piatto nazionale che, però, non essendo piccante non piace ai locali); o alcune specialità per palati e stomaci forti – dato che molti piatti thailandesi sono più hot dell’inferno e altri a base di pesce rancido – immergendosi in un’atmosfera ancor più rilassata da figli dei fiori. Al ritorno, però, attenzione a dove mettete i piedi: la spiaggia di Hua Hin è famosa anche per le sue meduse giganti che, spesso, spiaggiano durante le ore notturne per essiccarsi al sole del giorno dopo.
Seconda meta: Tao 10 anni dopo
Koh (isola) Tao (della Tartaruga) è una tra le isoli maggiori del Golfo del Siam. Quando vi giungemmo la prima volta il pontile era di legno e si doveva percorrere una lunga lingua di sabbia bianca prima di arrivare (con le valigie in testa) all’unico rotolo di strada asfaltata che percorreva l’intera costa abitata. Altri tempi…
Il viaggio da Hua Hin a qui può essere organizzato dalla stessa Compagnia che vi porterà fino al porto di Chumpon via pullman (con aria condizionata) e poi con i traghetti che partono puntualmente seguendo l’alta marea. Tao, fino a qualche anno fa era la meta turistica preferita degli snorkeler e dei sub – soprattutto giovani statunitensi abbronzati e aitanti, tutti rigorosamente biondi e, a parte quando in acqua, sempre con una bottiglia di birra in mano (i vuoti in effetti giacevano, spesso, abbandonati sulla sabbia).
Col tempo, però, i cosiddetti resort – che allora erano bungalow di legno a palafitta, con doccia fredda, stile campeggio anni 70, e per coinquilini i gekko gecko dai colori sgargianti – sono stati sostituiti da costruzioni in muratura sempre più imponenti e a più piani, che hanno cementificato la costa, distruggendo in parte anche la barriera corallina in mare e le spiagge di corallo che delimitavano acque via via sempre più limacciose. La vicina isola di Nang Yuan, celebre per la lingua di sabbia che affiora con la bassa marea, è diventata preda delle orde dei turisti cinesi e giapponesi assetati di gite mordi e fuggi, che la devastano dall’alba al tramonto. Mentre la spiaggia più famosa di Tao, Sairee Beach, immortalata da tutti per la palma che è cresciuta in orizzontale (e che finora nessun turista è riuscito a spezzare anche se, vista la bellicosità di alcuni, è stato recentemente aggiunto un cartello con il divieto di arrampicarvisi), è ormai disseminata di ombrelloni e sdraio, dove i turisti si crogiolano al sole mangiando mais o ananas – arrostito e venduto direttamente in spiaggia dagli ambulanti locali.
In mare, nemmeno un corallo o un pesce si è salvato dalla colata di cemento e dagli scarichi dei taxi-boat che impazzano lungo la costa spargendo nafta e puntando alla testa dei malcapitati nuotatori. Mentre la sera, su quella stessa sabbia, si disseminano tavolini di bar e ristoranti e l’atmosfera si fa improvvisamente più rilassata, mentre la musica di sottofondo tende a diventare cacofonica solamente se si passa troppo velocemente da un lounge bar al vicino fire show. Quest’ultimo, usanza importata recentemente (prima era un must soprattutto a Phi Phi Don, di cui diremo), è più una prova di autocontrollo da parte del pubblico che non di maestria da parte degli esecutori (visto il numero di bastoni che finiscono in mezzo agli spettatori o i tentativi di coinvolgere i turisti in prove di destrezza che possono lasciare letteralmente ‘scottati’).
La più minuscola e bella spiaggia di Tao, lontana da Sairee, fino a una decina di anni fa era simile a un’ostrica e racchiudeva, invece di una sola perla, una sabbia corallina affacciata su alcuni scogli neri che si ergevano, solidi, in mezzo a un mare turchino. Tra le palme i turisti legavano nastri a cui appendevano conchiglie e pezzi di corallo imbiancato dal sole, mentre tra le onde e tra i banchi di corallo nuotavano sinuosamente pesci multicolori. Oggi questa spiaggia non esiste più: è stata devastata da un impianto per aspirare l’acqua. Ne resta uno scatto al tramonto.
Per fortuna – forse non per i Thai che campano sul turismo, ma sicuramente per i viaggiatori e chi ami la natura – nel biennio precedente la pandemia si è registrato un calo nelle affluenze turistiche del Paese e alcuni resort hanno chiuso. Così, accanto alla devastazione delle coste operata da hotel di lusso con piscine private e ville a picco sul mare, altri angoli sono stati abbandonati a se stessi e la natura vi ha preso il sopravvento riportando alla luce la sabbia corallina e quell’azzurro intenso di un mare che riempie gli occhi e rasserena la mente.
Pak Meng: la quiete dopo la tempesta
Nella provincia di Trang (una delle località più squallide dell’intera Thailandia), affacciata sul Mar delle Andamane, giace Pak Meng – cittadina semi-addormentata che si risveglia solamente grazie ai turisti di passaggio per il parco marino nazionale di Hat Chao Mai e i matrimoni sott’acqua organizzati, ogni anno, in occasione di San Valentino.
Hat Chao Mai è composto da due isole maggiori, Koh Mook (più chic) e Koh Kradan – meno cool ma con una zona corallina splendida e la possibilità di fare snorkeling e kayak in un luogo ancora incontaminato – almeno dalla parte turistica dell’isola perché l’altra è la sua discarica. Intorno, vi sono alcuni scogli raggiungibili solamente con i tour organizzati, molto frequentati sia dagli occidentali che dai cinesi o dagli stessi thai che, quando entrano in acqua, non sapendo generalmente nuotare, si muniscono di giubbotto salvagente e si legano gli uni agli altri, condotti dalle guide.
Ma cosa c’è da fare a Pak Meng? Meno che a Hua Hin. La cosa più incredibile di questo villaggio di pescatori, è la piattezza del Mar delle Andamane – come sia potuto essere lo scenario dello tsunami non si sa! Qui, quando la marea è bassa, si può camminare per chilometri in mare fino a raggiungere gli isolotti al largo senza bagnarsi al di sopra della vita. La costa, piatta, di una sabbia farinosa talmente bianca da apparire perlacea, è interrotta a tratti (o almeno lo era una decina d’anni fa) da alberi d’alto fusto sradicati dallo tsunami che giacevano a terra come Polifemo accecati da Ulisse, e rivoli di fiumi dalle acque quiete che paiono entrare in mare chiedendo scusa per il disturbo. Il silenzio impera ovunque. A parte qualche scimmia che si appropria delle vettovaglie che i thai lasciano in spiaggia quando vengono qui, da Trang, nel weekend, per fare un picnic e animare l’atmosfera.
L’aria e la terra appaiono immobili – come il tempo. Se mai trascorrerete una settimana in questa waste land, vi sembrerà che non passi mai. A parte le gite in barca, non c’è davvero altro da fare che camminare, per chilometri, sotto un sole bianco, circondati da una perenne nuvola di umidità, con la luce che abbacina riflettendo sulla sabbia e, solo raramente, il rumore borbottante della barca di un pescatore in sottofondo che, a sera, rientra da una giornata esattamente uguale alla precedente e alla successiva.
Sulle isole al largo nidificano colonie di pipistrelli di dimensioni giganti che paiono non temere la luce del sole e qui si mangia – più o meno a colazione, pranzo e cena – riso coi gamberetti, servito nell’ananas cotto e tagliato a metà. Il migliore del Paese.
Phi Phi Don: aldilà del mito di The Island
Non ci provate nemmeno ad andare a Phi Phi Li, l’isola dove approdò DiCaprio nel celebre film: vi ritrovereste di fronte a una baia dove taxi-boat, yacht e traghetti sgomitano per avvicinarsi a riva – sbarrandovi l’orizzonte – e con la salvietta a un centimetro da quella dei vostri vicini, mentre una guida controlla se sono passati i venti minuti di cui avete diritto prima di ricaricarvi a bordo! Peggio che a La Pelosa, in Sardegna.
Accanto al mito, c’è quel che rimane di una tra le isole più belle della Thailandia, la vicina Phi Phi Don. Ex paradiso hippie di cui conserva il rituale del tatuaggio fatto a mano libera, i fire show sulla spiaggia e una certa atmosfera rilassata che si può cogliere allontanandosi dalle spiagge più cool ed evitando le discoteche a cielo aperto. In effetti Phi Phi Don – se vista dall’alto – appare come una lunga lingua di terra tra due golfi profondi. Da una parte troverete bassa marea ma vita notturna, dall’altra i sentieri per raggiungere alcune spiagge ancora incontaminate e con una barriera corallina viva e sgargiante, e notti silenziose sotto un cielo stellato. Su entrambi i lati, parecchie zanzare tigre e la dengue, purtroppo, sempre in agguato.
Anche qui le colate di cemento sono arrivate e devastano ormai persino le colline. Le baie ancora libere dai resort diminuiscono ogni anno di numero. Ban Thap Pai, ad esempio, è un curioso esempio dello sfruttamento eccessivamente intensivo, da parte dei thailandesi, delle loro coste. A causa dei fondali più o meno rocciosi, sedendosi nel centro della baia e guardando a destra, si vedrà una spiaggia ancora intatta e selvaggia; a sinistra, invece, dove è possibile navigare, la fila di yacht e taxi-boat vi impedirà perfino di mettere piede in acqua, figuriamoci nuotare.
Le baie, a Phi Phi Don, sarebbero tutte più o meno raggiungibili anche a piedi – alcune dopo tratti nella foresta, altre dopo aver superato alture o scollinato. Quindi, la maggior parte dei turisti – che qui resta spesso pochi giorni o addirittura una manciata di ore con i day-tour organizzati da Phuket – si muove tra le baie con i taxi-boat che, spesso, sono vecchi, hanno perdite di carburante, e sono guidati in maniera approssimativa. Come a Tao, si rischia di essere presi dentro mentre si sta facendo snorkeling e, in ogni caso, gli scarichi e le manovre poco attente distruggono la barriera corallina e l’ecosistema che ne dipende. ‘Vedere meno ma vederlo meglio’: questo dovrebbe essere il motto dello slow tourism. La smania di tornare a casa e dire a parenti e amici che si è visitata l’intera Cina in 12 giorni, o si è percorsa l’intera Thailandia in 14, è la causa di devastazioni che, come il debito del PNRR, pagherà per intero la next generation! E queste considerazioni non dovrebbero farle solamente i turisti ma gli stessi thailandesi, anch’essi rosi da una frenesia che porta a danni paragonabili agli scempi degli abusi edilizi italiani degli anni 60. Perché, davvero, ‘tutto il mondo è paese’.
Ma non vogliamo lasciarvi così perché Phi Phi Don, nonostante tutto, è davvero un piccolo gioiello, dove è ancora possibile scoprire spiaggette in cui l’unico ombrellone è una palma e l’unico divertimento raccogliere coralli sbiancati dal sole. E la sera, con la pelle abbrustolita e grinzosa come la cartapesta, e la stanchezza delle arrampicate per raggiungere quell’unico puntino sulla mappa che vi sembrava davvero sperduto, potrete gustare dell’ottimo pesce cotto al sale sul bbq, guardando dei giovani thai che si improvvisano maestri del fuoco: a volte la loro approssimazione è pari solo al loro coraggio e al sorriso di gratitudine che regalano quando il numero funziona e la platea applaude.
Venerdì, 14 maggio 2021
In copertina: Isolotti al largo di Pak Meng (Foto di Luciano Uggè, tutti i diritti riservati, come per ogni foto del presente articolo).