Sfatiamo alcuni miti sul welfare state made in Germany con l’intervista all’intellettuale e artista, Sandra Sarala
di Simona Maria Frigerio
Gli italiani sono molto bravi a lamentarsi, altrettanto a invidiare l’erba del vicino ma non abbastanza da verificare, informandosi in prima persona, se le cose funzionino davvero meglio all’estero, dove e in quale misura. Aldilà della spocchia tutta occidentale di pensare che “we do it better”, ciò che notiamo è che – a livello vaccinale – nessuno Stato europeo sta brillando in quanto a efficienza e anche per quanto riguarda le garanzie dei diritti fondamentali, i tedeschi che, prima della caduta del Muro di Berlino, avevano uno stato sociale invidiabile, adesso arrancano nelle nostre stesse paludi liberiste.
Iniziamo da un raffronto a livello di diritto alla salute. Mentre in Italia, qualunque cittadino, indipendentemente dall’avere o meno un reddito, ha diritto – almeno sulla carta – alla medesima assistenza, in Germania vi è l’obbligo di assicurarsi. Le casse, private o pubbliche, offrono prestazioni base e una serie di ‘optional‘ a seconda di quanto si versi mensilmente – un po’ come nel sistema statunitense, dopo la Riforma Obama. Se si è dipendenti, l’esborso è suddiviso equamente tra dipendente e datore di lavoro, mentre i liberi professionisti devono farvi fronte in toto autonomamente. Anche se si è disoccupati si deve versare la propria quota e non crediate sia irrisoria! A ogni tedesco, mediamente, si chiede il 15% dello stipendio per l’assicurazione medica base, e se una persona guadagna meno di 1.000 euro deve comunque contribuire con circa 190 euro (mensili). In Italia, tra aliquota a favore della Regione (che, in gran parte, va al Servizio Sanitario) e tassazione generale, la Fedir ha calcolato che ciascun cittadino – in media – versa per l’assistenza medica circa 1.800 euro l’anno. Sebbene gli stipendi in Germania siano mediamente più alti, in rapporto non si può dire che noi si spenda più di loro.
E passiamo al sussidio di disoccupazione, sfatando un altro mito. In Germania se ne ha diritto solamente se si è lavorato per almeno 12 mesi nei precedenti 30 (anche in maniera non continuativa). Se però si è lavorato 24 mesi o oltre se ne avrà diritto per un anno, altrimenti solo per 6 mesi. Per quanto riguarda l’ammontare, si aggira intorno al 60% dello stipendio netto, ma la percentuale può aumentare nel caso si abbiano figli a carico. Oltre i 50 anni, si allunga il tempo di copertura del lavoratore. In Italia, dove il lavoro è molto meno continuativo e garantito, la Naspi (acronimo fantasioso per la nostra indennità di disoccupazione) si applica a chi abbia accumulato almeno 30 giornate lavorative nei 12 mesi – o 13 settimane di contributi nei quattro anni – precedenti il periodo di disoccupazione (che, visti i parametri e la discontinuità lavorativa di molti, scatterà appena si raggiungono i requisiti per richiederlo…). L’assegno erogato si basa “sul totale delle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali dei quattro anni precedenti la perdita di lavoro per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicando il quoziente così ottenuto per il numero fisso 4,33”. Per semplificare, chi abbia un lavoro dipendente con un normale contratto di assunzione riceverebbe il 75% della retribuzione mensile fino a un massimo di 1.195 euro (con una maggiorazione per gli stipendi più elevati), per un massimo di due anni – o per la metà delle settimane coperte da contribuzione nei quattro anni precedenti l’inizio della disoccupazione. Diciamo che, se per uno stipendio medio-alto la situazione italiana può essere considerata sfavorevole, vale il contrario nel caso di stipendi medio-bassi (quali, generalmente, quelli degli italiani).
Incontriamo Sandra Sarala
Berlino, 27 aprile. Sarala è giornalista e poetessa, scrive libri ma è altresì un’artista e lavora come attrice e cantante. Originariamente neozelandese, da quasi vent’anni vive a Berlino e dalla capitale tedesca ci racconta la situazione del mondo culturale nel quale si muove come freelance.
Sandra Sarala: «Se ben ricordo il 15 marzo 2020 è stato il giorno in cui i teatri hanno chiuso il sipario in Germania e, da allora, molti hanno scelto di trasmettere gli spettacoli o i concerti solamente online, in modo da continuare ad avere delle entrate grazie allo sbigliettamento – anche se altre strutture hanno preferito trasmetterli gratuitamente. Per quanto riguarda i lavoratori, ovviamente quelli assunti hanno mantenuto il proprio posto mentre molti freelance si sono ritrovati scoperti. Per questo motivo, lo Schaubühne – un teatro molto famoso e quotato qui a Berlino – ha deciso di mettere all’asta online la memorabilia teatrale di sua proprietà così da raccogliere fondi a favore di questi lavoratori».
I teatri, quindi, nell’ultimo anno non sono mai stati riaperti?
S. S.: «Sono stati riaperti per un breve periodo ma con entrate contingentate che finivano per essere appannaggio di chi poteva pagare i biglietti più costosi. Da novembre, in ogni caso, quando è stato dichiarato il secondo lockdown, tutto è stato chiuso nuovamente. C’è stato però un tentativo abbastanza recente di riaprire i teatri per le prove e, sottoponendo gli spettatori a test nella medesima giornata, di tentare le rappresentazioni di fronte al pubblico ma, a causa della variante inglese del Covid-19, il tentativo è fallito ancor prima di cominciare. Ormai, sostanzialmente, si fruisce della cultura solamente online. Ricordo di essere andata al cinema solo una volta nell’ultimo anno, forse ad agosto: eravamo in due all’interno della sala, essendo tardo pomeriggio, e rammento che questa donna – l’unica spettatrice in platea insieme a me – si è tolta la mascherina e io ho dovuto dirle di rimettersela! In Germania sono in molti quelli che contestano le misure antiepidemiche e le scelte del Governo. Ci sono persino attori che ridicolizzano le chiusure e il lockdown. Per me sono degli irresponsabili».
In Spagna, nonostante una situazione simile a quella della Germania o dell’Italia, si sono fatte altre scelte politiche – garantendo la cultura e le scuole fino ai 16 anni e i numeri, nel corso dei mesi, sembra abbiano dato ragione agli iberici. Cosa ne pensa?
S. S.: «Non so, io devo tenere in considerazione la mia condizione di salute. Ho contratto un virus su un treno, in Italia, nel 2014 e sono stata costretta a lavorare, nel vostro Paese, perché non hanno riconosciuto il mio stato. La conseguenza è stata che ho dovuto sopportare pesanti strascichi. Per esperienza diretta so cosa significhi avere difficoltà a recuperare, non essere in grado di uscire o lavorare per lunghi periodi. Ovviamente non si trattava di Covid-19 e non voglio paragonare le due forme virali. In ogni caso, è vero che vi sono persone che soffrono di depressione a causa dell’isolamento ma dipende dalle risorse psicologiche individuali. Secondo me, hanno fatto bene nel mio Paese d’origine, la Nuova Zelanda, dove hanno deciso di eliminare totalmente il virus. Hanno applicato un severo lockdown generale e le uniche sacche di contagio erano gli hotel adibiti alla quarantena, rigidamente controllati. Così hanno bloccato il virus ai confini e adesso sono tornati alla vita normale. Tutti i Paesi del mondo avrebbero dovuto fare altrettanto per eradicare il virus fin da subito ma siccome non è possibile perché troppe persone hanno bisogno di andare a lavorare, e di farlo uscendo di casa, questa è la situazione. Per non parlare di tutti quelli che, anche qui, lavorano in nero…»
Quali garanzie hanno i lavoratori freelance?
S. S.: «Innanzi tutto esistono differenze tra cittadini tedeschi e immigrati. Ovviamente per quelli illegali, non vi è alcuna copertura. Per chi è come me – che ho vissuto in Germania per oltre 19 anni, ho lavorato e sono un ‘permanent resident‘ – vi è la possibilità di chiedere il sussidio di disoccupazione. Coloro che percepivano normalmente uno stipendio alto, essendo lo stesso il 60% del netto, possono dirsi garantiti, ma per gli altri non è abbastanza. Vi sono parecchie critiche a proposito perché in molti casi non è sufficiente per vivere. I Verdi, ad esempio, e le opposizioni vorrebbero aumentarlo ma tutto ciò che vedrò, io, a maggio è un bonus una tantum di 150 Euro, che significa un aumento di 10 euro mensili per compensare i 15 mesi passati».
Ritiene che si stia portando avanti la campagna vaccinale in maniera efficiente?
S. S.: «Ovviamente ci sono parecchie critiche per i ritardi negli acquisti da parte dell’Unione Europea, e per il modo in cui è stata gestita l’intera campagna. In ogni caso i dati di Berlino, ieri, 26 aprile, dicono che il 22% della popolazione ha ricevuto la prima dose di vaccino, mentre le terapie intensive sono occupate per il 27% da pazienti con Covid-19. A Berlino da maggio, o al più tardi da giugno, chiunque vorrà vaccinarsi potrà iscrivere alle liste ma il problema è che mancano le dosi e, in ogni caso, la priorità è vaccinare gli anziani e coloro che hanno patologie croniche. Infine, anche i medici generici sembra abbiano finalmente accettato di vaccinare i propri pazienti – perché finora c’era stata una grossa opposizione da parte dei medici di famiglia nei confronti di questa possibilità. Va anche sottolineato che vi è un numero straordinariamente elevato di persone che lavorano in campo medico che rifiuta di essere vaccinato».
Come affronta la situazione a livello pratico e psicologico?
S. S.: «Lo scorso weekend un’amica mi ha invitata a una festa dove tutte le persone presenti avrebbero fatto il test quello stesso giorno, ma ho preferito rinunciare. Io seguo le regole. Non perché abbia paura ma, come altri miei amici, perché non voglio contrarre un virus che potrebbe avere conseguenze spiacevoli – perché nessuno sa come reagirà il suo corpo se contagiato. Potrei essere una di quelle persone che si ammalano gravemente. Faccio un altro esempio, l’altro giorno ero al mercato e indossavo la mascherina così come la maggior parte delle persone. Poi, però, ho fatto un giro al parco e ho visto quattro teen-ager che, evidentemente, non appartenevano al medesimo gruppo familiare ed erano lì che chiacchieravano senza mascherina: stavano infrangendo le regole! Sono giovani, non pensano e non si preoccupano dei loro genitori: magari poi tornano a casa e li contagiano! Tra le mie conoscenze, i più scettici sono quelli cresciuti nell’ex Unione Sovietica».
Nessuna preoccupazione a livello lavorativo ed economico?
S. S.: «Io sono abbastanza fortunata perché vivo nel mio appartamento e ho abbastanza per pagare le bollette e i conti. Alcuni miei amici hanno continuato a lavorare, altri fanno i part-time job e ricevono un minimo di compensazione, altri ancora il sussidio. Ciò che noto, camminando nel mio quartiere, è che stanno aumentando gli spazi vuoti, i negozi stanno chiudendo e nessuno li riapre. In compenso, le gelaterie italiane e le vostre panetterie sono aperte e io amo i vostri gelati!».
Venerdì, 7 maggio 2021
In copertina: Berlino, la Porta di Brandeburgo. Foto di Brigitte da Pixabay.