Come la fantascienza di Philip K. Dick illumina le ombre dell’Occidente
di Simona Maria Frigerio
Potendo fare poco e anche meno, in regime pandemico, e ammorbandomi assai con le offerte culturali via Internet, l’unico modo, per me, di evadere da questa prigione fisica e psicologica, è stato liberare il cervello – forse l’ultimo organo del mio corpo ancora sotto il mio pieno controllo e arbitrio, nonostante tutta la spazzatura mediatica che cerca di friggermi le sinapsi.
Detto questo, esistono alcuni autori ufficialmente di genere fantascientifico che, in realtà, hanno la capacità di indagare con conoscenza e maestria gli impulsi psicologici che ci governano (J. G. Ballard), i meccanismi del nostro ragionare (Isaac Asimov) o, ancora, le paure ataviche che riverberano in futuri distopici sempre più simili alla nostra realtà (Philip K. Dick).
E così, mentre l’Europa (ma con eccezioni importanti come Svezia o Spagna) crede che tutto il mondo si sia cristallizzato nell’attesa messianica di un presunto risolutore unico della pandemia – in fialetta; e mentre Russia, Cina ma anche molti altri Paesi, tra i quali la Nuova Zelanda, hanno ormai ripreso a marciare verso le ‘magnifiche sorti e progressive’, incuranti degli strali di chi ormai non si sente più al sicuro nemmeno con tre dosi di vaccino (perché, nel frattempo, i richiami sono progressivamente aumentati), ecco che leggere Ubik, libro pubblicato nel lontano ‘69, mi ha aperto gli occhi sulla situazione presente e sulle reazioni inconsulte di questa Europa gerontofila e terrorizzata.
In Ubik, una società incapace di accettare la morte, si è inventata il semivita, uno stato provocato col criocongelamento in cui corpi morti ma che mantengono una residua, minima attività elettrica cerebrale, vegetano nel buio e nel silenzio, incoscienti, persi tra pseudo-sogni e incubi, risvegliati a distanza magari di anni da parenti o amici. I quali pretendono di comunicare con loro, affinché possano dargli dritte sugli affari dell’al di qua per mezzo di una presunta (ma illusoria) capacità di discernere meglio, vagando nel loro aldilà. E quando sono arrivata a questo punto, nella mia lettura, mi è tornata in mente anche qualche riga de Il testamento di Fabrizio De Andrè: “Per quella candida vecchia contessa / Che non si muove più dal mio letto / Per estirparmi l’insana promessa / Di riservarle i miei numeri al lotto / Non vedo l’ora di andar fra i dannati / Per rivelarglieli tutti sbagliati”…
Tale stato inventato dalla fervida immaginazione di Dick – economicamente pesante da mantenere per le famiglie dei cari in semivita, come descrive l’autore – non è del resto molto diverso dal ben noto coma irreversibile, al quale pretendiamo di incatenare anche chi non voglia, come il caso di Eluana Englaro ci ha insegnato: quando i movimenti pro-life portarono in processione filoni di pane per un corpo che era alimentato solamente attraverso un sondino naso-gastrico. Quella fu davvero una grande vittoria dei movimenti più retrivi del Cattolicesimo ma anche di molti politici che cavalcarono l’onda emotiva, mentre la ragione taceva e la famiglia Englaro soffriva con riserbo, dignità ed evitando di far circolare immagini pietose. Anche allora si difendeva una cosiddetta idea di vita senza badare al diritto all’autodeterminazione dell’essere umano.
Gli anni sono trascorsi, una legge sul fine vita è ancora lontana dall’essere varata e chi decida di sottrarsi alle proprie sofferenze, a una esistenza che non è più possibile vivere con dignità – e ha la fortuna di avere qualche risparmio e almeno un buon amico – deve ricorrere a un viaggio della speranza: meta, non Lourdes, bensì una clinica svizzera dove pratichino l’eutanasia.
E in questo scenario di rifiuto della morte, e dell’autodeterminazione (il che, ricordiamoci, potrebbe portare a degenerazioni le quali, passando dall’obbligo di un vaccino, potrebbero puntare all’obbligo di sottoporsi a cure mediche o al divieto dell’interruzione volontaria di gravidanza), ecco giungere il Covid-19. Un virus influenzale che ci pone di fronte all’amara realtà, ossia che un ottantenne non è poi così giovane ed è nel corso delle cose che possa ammalarsi e morire. Persino un ventenne, con patologie che in altri Paesi lo avrebbero già portato alla tomba, può morire – anche in Italia. Tutto è relativo nella vita: per me che passo parte della mia esistenza nel cosiddetto sud del mondo sentire una cara amica quasi ottantenne dirmi: «Ma di Covid, muoiono anche i giovani!» e, di fronte al mio diniego (dati dell’Istituto Superiore della Sanità alla mano), sentirla precisare: «Muoiono i cinquantenni!». Ecco, pensare che un cinquantenne sia giovane, dimenticando che ‘in mezzo al cammin di nostra vita’ (citazione all’uopo visti i continui rimandi retorici ai 700 anni dalla morte di Dante) si era trentacinquenni, o che oggi l’età media della popolazione africana è 19,4 anni (mentre in Italia, nel 2017, era 44,4), è indice di quanto sia falsata la nostra idea della vita e del mondo.
Rinchiusi nella nostra semivita autistica di occidentali, ci credevamo al sicuro. La vecchiaia era diventata qualcosa da imbellettare con lifting ed esorcizzare con pillole, vitamine e pannoloni talmente sexy da permetterci la minigonna. Quel rancido puzzo di vecchiaia in putrefazione era coperto dall’odore del disinfettante delle Case di riposo per ‘anziani’ – la parola edulcorata di un mondo che credeva di poter restare ‘bellissimo e giovanissimo’ sempre (Marco Chenevier docet). E mentre i bambini africani potevano starsene ‘a casa loro’ perché i cancelli d’Europa si blindavano sempre più, noi ci illudevamo di aver trovato la nostra miracolosa bomboletta Ubik che ci avrebbe sbiancato i denti, profumato l’alito – ovviamente sotto la mascherina – lisciato i ricci, fatto dimagrire, tonificato i muscoli, riempito rughe e portafoglio e assicurato la tenuta della prostata fino all’ora di colazione.
Ubi omnis vita metus est, mors est optima / Quando la vita è una continua paura, la cosa migliore è morire (Publilio Siro).
Venerdì, 16 aprile 2021
In copertina: Foto di Marisa04 da Pixabay.