La libertà artistica come forma di resistenza
di Simona Maria Frigerio
L’ultima volta che ho incontrato Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola è stato a settembre 2020, durante Performazioni Festival, quando abbiamo presentato il libro The Global City – un processo più che un prodotto, ossia un lavoro costruito a più mani, che ripercorre sette anni di vita e lavoro della Compagnia, e che ha dato come esito un oggetto multimediale – ossia una serie di scritti, immagini fotografiche ma anche uno spettacolo visibile online gratuitamente per chi acquisti il libro. Vista la stretta collaborazione con Dorno e Pianzola, ho preferito prendere le distanze dalla compagine come giornalista per evitare conflitti d’interesse. In quest’ultimo anno pandemico, però, sono nati altri progetti – dei quali non mi sono attivamente occupata – e solamente per questo motivo ho chiesto loro, di passaggio alla Città del Teatro di Cascina per una residenza dal vivo, di incontrarci per un’intervista dedicata a due tematiche. La prima, la situazione delle Compagnie indipendenti dopo oltre un anno di chiusura dei teatri (che riportiamo su www.persinsalateatro.it), e una seconda parte dedicata ai loro progetti che, lontani dallo spettacolo dal vivo riproposto su mass media completamente diversi quale la televisione o le piattaforme Internet, si sono posti due obiettivi imprescindibili in questo momento: continuare il dialogo interrotto con Paesi, culture e artisti dai quali ci ha separati (e continua a farlo) la pandemia; e ideare nuove forme artistiche ad hoc per la fruizione video con i tempi, i limiti e le potenzialità di un mezzo ancora tutto da esplorare.
Per una Compagnia che fa del viaggio, della sperimentazione sul corpo e della conoscenza dell’altro da sé la propria matrice artistica e prassi pedagogica, come sono stati gli ultimi 12 mesi?
Anna Dora Dorno: «Decisamente diversi, sia per l’impossibilità di viaggiare, sia di lavorare direttamente a contatto con i corpi dei performer e con le persone in generale. Abbiamo dovuto trasferire interamente il nostro lavoro su altri media, iniziando a viaggiare nell’etere, collaborando comunque con artisti anche di altri Paesi – come nostra consuetudine – sebbene con una modalità differente: a distanza. Abbiamo utilizzato, quindi, diverse piattaforme, quali Zoom, per confrontarci con persone con le quali avevamo già lavorato e con le quali potevamo costruire un rapporto ‘ravvicinato’, nonostante la lontananza fisica, perché le avevamo conosciute in precedenza – professionalmente e umanamente. Col tempo, però, la sfida è diventata sempre più ardua, dato che dagli artisti che avevano già preso parte ai nostri progetti, abbiamo iniziato delle collaborazioni con altri che non avevamo mai incontrato. Questo secondo passaggio è stato più complesso, in quanto la nostra modalità di lavoro si è dovuta adattare ai nuovi strumenti».
Nicola Pianzola: «Per me è stato un anno di rinunce e di conquiste, allo stesso tempo. È stata una sfida ma, se tiro le somme, ammetto di avere imparato molto in questi dodici mesi. Ho sondato territori diversi ed è stata un’occasione di autoformazione – come abbiamo notato durante la recente residenza alla Città del Teatro di Cascina (dal 29 marzo al 2 aprile, n.d.g.), dove da soli, Anna Dora e io, nei quattro o cinque giorni in teatro abbiamo fatto tesoro di quanto appreso in un intero anno. Non solamente abbiamo sviluppato l’usuale lavoro artistico dal vivo, ma lo abbiamo fatto a stretto contatto col mezzo audiovisivo – con la presenza costante dell’obiettivo, che è ormai entrato nel nostro fare quasi fosse un terzo occhio, in grado non solamente di sfondare la quarta parete ma persino di superare questa quinta parete a cui dobbiamo abituarci, ossia lo schermo o la parete digitale. Un occhio che ci permette di metterci in contatto con il mondo, di condividere immediatamente ciò che abbiamo fatto, in una giornata di residenza, con altri artisti che vivono in Paesi anche molto lontani e che, su quell’input, a loro volta creano e ci rimandano le loro suggestioni. Sicuramente è stato molto arricchente da questo punto di vista. Inoltre, ci ha permesso di sviluppare delle conoscenza tecniche nell’editing video, nella manipolazione delle immagini, che ci restituiscono un feedback anche su quanto può funzionare in scena, su ciò che risulta forte a livello visivo e, quindi, ha un valore per noi nell’in progress, facendoci comprendere cosa vedrà lo spettatore in presenza – ma anche quello online».
Si parla molto di ristori. Le compagnie indipendenti come la vostra quanto sono state effettivamente supportate?
A. D. D.: «Siamo stati supportati ed è già qualcosa. Alcune misure hanno effettivamente contribuito a sostenere il nostro lavoro e parlo principalmente dell’extra Fus, sebbene abbia avuto dei limiti dato che non ha saputo discernere con appropriatezza le compagnie che lavorano come noi – che non hanno un numero elevatissimo di date ma che si dedicano alla ricerca in maniera costante. È stato un finanziamento a pioggia che, per quanto ci riguarda, ci è servito. Bisogna però aggiungere che non abbiamo mai smesso di lavorare perché ci siamo proiettati su altri progetti che non riguardano lo spettacolo dal vivo, bensì il video. Il sostegno non sarebbe stato sufficiente se non avessimo continuato a lavorare. Contemperando fondi e attività siamo riusciti a far fronte al periodo difficile. Inoltre, siamo stati lungimiranti nel senso che, a differenza di altri colleghi, abbiamo dei contratti difficili da sostenere economicamente come Compagnia – in quanto a tempo indeterminato – ma che ci hanno permesso di accedere anche alla cassa d’integrazione quando non abbiamo potuto proseguire nelle attività in nessun modo».
N. P.: «Aggiungo solo che mi piacerebbe che i sostegni andassero a una progettualità che va verso nuove direzioni, che rispondessero alla crisi causata dalla pandemia, supportando nuove strategie. Siamo contenti del risultato ottenuto con il Bando Incredibol, della Regione Emilia Romagna e del Comune di Bologna, che premia l’innovazione e che, nel 2020, si è focalizzato sul sapersi reinventare, ossia sul cercare nuove strategie. Il premio, per noi, è stato un riconoscimento e, nel contempo, un contributo che ci ha aiutati a sostenere la nostra nuova attività. Purtroppo, troppo spesso i ristori sono solo risarcimenti o compensazioni che consolidano situazioni che non funzionavano nemmeno prima della crisi. Occorrono, al contrario, sostegni per innovare, sperimentare, internazionalizzare i propri prodotti, in pratica per capire cosa ci può essere di positivo nella globalizzazione – che non deve ‘regalarci’ solo aspetti negativi quali la pandemia. Bensì la possibilità di arrivare col nostro lavoro in tutto il mondo se si rintracciano i canali giusti, investendo in nuove strategie».
A. D. D.: «Ciò che a me sembra assurdo, in questo momento, è indire un bando ministeriale (per l’assegnazione del Fondo Unico dello Spettacolo, n.d.g.), applicando dei parametri quantitativi, ossia chiedendo di indicare un certo numero di date quando ancora non si sa nemmeno quando riapriranno i teatri in Italia – ma neanche all’estero. Nessuno, se onesto, è in grado di dire se, dove e quando farà delle date. Avrebbe senso, al contrario, dare delle opportunità a chi abbia un buon progetto che, in questa specifica situazione, può essere davvero realizzato, snodandosi anche in ambiti diversi e trovando soluzioni differenti – digitali o di altro tipo. E invece si chiede alle Compagnie di rispondere a parametri che già non funzionavano in regime normale e, in fase pandemica, diventano semplicemente assurdi!».
Il 27 marzo il Ministro Franceschini aveva annunciato la riapertura dei teatri – solo nelle zone gialle e senza sapere con quali orari, visto il mantenersi del coprifuoco alle 22.00. Cosa ne pensate?
A. D. D.: «Sulle riaperture in generale, non ha senso riaprire se non si sa cosa fare. La riapertura deve andare di pari passo con la progettualità, dovrebbe prendere in considerazione lo stato di cose in cui ci troviamo. Non possiamo dipendere da un Decreto che ci permette di riaprire i teatri, senza avere regole certe. Un anno di pandemia dovrebbe portare a ragionare in modo diverso sul fare teatro, su tutti quei meccanismi che vanno rimessi in discussione, sulla funzione stessa del nostro agire».
N. P.: «Poteva o forse potrebbe essere un’occasione, il ragionare sulla riapertura, per riscoprire una nuova relazione col pubblico ma anche con gli spazi. Si sta seguendo molto poco la via di portare il teatro fuori dai teatri. Se il problema – più o meno apparente – è il chiudersi in uno spazio limitato, uno accanto all’altro, dove è più facile circoli il virus, già dall’estate scorsa si sarebbero potuti incentivare dei percorsi per portare l’evento al di fuori degli edifici preposti. Non solo all’aperto, ma anche in luoghi che abbiano caratteristiche meno rischiose per la diffusione della pandemia. Ripensare la relazione con lo spettatore è fondamentale. Noi stessi abbiamo sperimentato, l’estate scorsa, un progetto intitolato Follow the Angel, una performance itinerante nella natura, seguita da gruppi di venti persone, riscoprendo un rapporto diverso con il pubblico ma anche con l’ambiente».
A differenza di altre compagini non avete optato per il teatro online, bensì vi siete ripensati per un lavoro pedagogico e creativo attraverso un nuovo medium. Da dove è nata questa necessità artistica?
A. D. D.: «Soprattutto dalla volontà di rimanere in contatto con le persone con le quali, in passato, avevamo realizzato progetti e ci sarebbe piaciuto continuare a lavorare. Nell’impossibilità di vederci dal vivo e di andare nei loro Paesi, ci siamo chiesti: “Quale relazione possiamo costruire con gli artisti con i quali vogliamo restare in contatto?”. Anche per non sentirci soli in questo frangente e per ragionare sulla funzione del teatro, e dell’arte in generale, oggi. Se abbia ancora senso fare teatro, se abbia o meno un valore, e con quali modalità si può farlo. Ecco perché abbiamo, innanzi tutto, aperto una riflessione su queste tematiche condividendola con artisti da ogni parte del mondo, cercando altresì di capire cosa stava accadendo nei loro Paesi, sia da un punto vista politico sia artistico, in relazione alla pandemia ma anche rispetto alle situazioni preesistenti. Quello che ci interessava maggiormente, all’inizio del progetto Beyond Borders, era il confronto – non cosa produrre. Volevamo che quella chiusura, non solamente delle frontiere ma, a un certo punto, in casa, non limitasse anche il pensiero, il confronto, la relazione. Solo dopo abbiamo cercato di capire quali mezzi utilizzare per creare questo scambio. Dato che avevamo già usato il video anche all’interno degli spettacoli, sebbene in modo e con un valore diversi, lo abbiamo ripreso in questa nuova situazione. Credo sarebbe anche interessante tornare al videoteatro, medium scomparso completamente dal panorama italiano – a differenza della videodanza, che ha continuato a essere presente persino con Festival dedicati. Diciamo che, dopo Giacomo Verde e gli anni Settanta/Ottanta, il videoteatro è stato dimenticato. Ci interesserebbe capire il perché e come utilizzare nuovamente questa forma artistica, sebbene con altre modalità – visti i cambiamenti a livello di tecnologie. Le arti visive, digitali, il cinema fanno ormai parte di un panorama sempre più vasto e l’intreccio tra arti e mezzi può seguire nuove vie. E a questo proposito, credo sia importante chiedersi chi possa essere il pubblico del futuro: ad esempio, se lo spettatore teatrale via web utilizzava tale mezzo anche prima oppure se lo fa solo per necessità, in questo momento, e se domani si tornasse a teatro come reagirebbe. E ancora, se via web si possano o meno rendere fruibili anche contenuti importanti, se il medium sia in grado di sollecitare una riflessione nello spettatore, oppure se è adatto solamente per messaggi superficiali e veloci come molte piattaforme dimostrerebbero».
N. P.: «Non è un caso che ci stiamo attivando anche per strategie di comunicazione ad hoc, a livello di ufficio stampa. Perché contenuti nuovi hanno bisogno di nuovi veicoli. E ci stiamo interrogando a 360 gradi su come dare continuità a questo nuovo modo di creare affinché non sia solamente un palliativo per il periodo pandemico. Quando potremo tornare in teatro, continueremo a usare il video perché ci rendiamo conto che ci sta aprendo nuovi orizzonti. Dopodiché devo anche dire che siamo stati fortunati in quanto, a marzo, siamo potuti tornare dal vivo con Made in Ilva, in Spagna. La residenza a Cascina, poi, è stata utile dato che ci ha regalato uno spazio e un tempo per la ricerca senza bisogno di una restituzione finale. Ricordiamoci che, prima del Covid-19, c’era una bulimia produttiva (imposta dai parametri quantitativi del Fus di cui sopra, n.d.g.) che costringeva gli artisti, in residenza, a mostrare un esito anche dopo soli cinque giorni di prove. Alla Città del Teatro il lavoro non è stato condizionato dall’esito, ma è stato finalizzato totalmente alla sperimentazione».
I teatri nazionali e, in generale, quelli maggiori hanno continuato a ricevere i fondi statali come se fossero aperti, ma ben pochi hanno ospitato le Compagnie e gli artisti indipendenti in residenza o hanno aperto spazi reali e/o virtuali per un dialogo fra artisti. Solo una mia impressione?
N. P.: «Il dialogo è mancato completamente».
A. D. D.: «I teatri nazionali, secondo noi, sono presi solamente dalla smania di fare le loro produzioni in grande, dato che tutti i fondi sono stati investiti nelle stesse, e per proporle poi in streaming – ma non hanno minimamente redistribuito fondi o aperto spazi tra le varie realtà presenti sul territorio, che non dispongono di strutture proprie».
N. P.: «Nel prossimo futuro, a tutto ciò, si aggiungerà il fatto che, probabilmente, i teatri non faranno ospitalità per almeno uno o due anni in quanto avranno tutta una serie di produzioni proprie da presentare al pubblico. Così la mancanza di spazi dove provare e performare, che era già un problema prima, diventerà un macigno sul riavvio dell’attività teatrale».
A. D. D.: «Se si continua a ragionare in maniera egoistica, si creano vuoti difficilmente colmabili. La gran parte degli artisti e delle compagnie più innovative è rimasta senza spazi in cui provare, fare ricerca, confrontarsi con i colleghi ma anche con gli artisti di altre discipline. La verità è che noi non siamo un comparto coeso. Al nostro interno, il Direttore di un Nazionale e quello di una compagine indipendente non rivendicano gli stessi diritti».
N. P.: «C’è una frase in Lockdown Memory, ossia lo studio che nasce dal progetto Beyond Borders – che è ripresa dal Manifesto che gli artisti iraniani hanno firmato contro l’embargo degli Stati Uniti nel 2020 – particolarmente significativa: “Non possiamo salvarci, senza salvare l’altro”. Al contrario, nel teatro italiano, sembra valere esattamente il contrario. Si va verso una nuova competizione incentivata dal fatto che gli spazi saranno per pochi: per gli artisti ingaggiati delle Stagioni da recuperare, per le grandi produzioni, per chi dovrà fare nuovi spettacoli a tutti i costi a causa dei parametri quantitativi del Fus di cui si diceva…».
A. D. D.: «… e per chi potrà andare in tivù. O su piattaforma. Dove, sappiamo bene, occorrono mezzi economici e tecnici rilevanti».
Ma cosa hanno prodotto Instabili Vaganti in questi dodici mesi? Su www.persinsalateatro.it approfondiremo il discorso creativo della compagine bolognese.
Venerdì, 16 aprile 2021
In copertina: SIE7E, Instabili Vaganti, IV episodio: Scultura. Foto di Gloria Chillotti (gentilmente fornita dall’ufficio stampa della Compagni