Al ricatto finanziario dello Stato c’è chi ha il coraggio di dire no
di Simona Maria Frigerio
In occasione dell’arrivo a Santarcangelo Festival del nuovo Direttore artistico, riproponiamo l’intervista che gli facemmo qualche mese fa.
Spiace ripetersi e spiace ancora di più autocitarsi ma sono anni che scriviamo che idee e sinergie si creano solamente se, nel panorama artistico e culturale italiano, si comincia a guardare oltre ai nostri ristretti confini, aprendosi all’Europa (e oltre); e se le posizioni dei Direttori (uomini e donne) artistici, museali, teatrali, di festival o delle istituzioni le più diverse, si cominciano ad assegnare in base ai progetti, meriti, esperienze e idee e non per nomina politica o con il solito teatrino dello scambio delle poltrone.
Quindi, appena abbiamo saputo che Santarcangelo Festival, con una call internazionale, aveva scelto Tomasz Kireńczuk per dirigere la manifestazione – tra le più importanti in Italia – dal 2022 al 2024, abbiamo deciso immediatamente di conoscerlo e di sostenerlo non tanto per ciò che farà (e di cui scriveremo con onestà a tempo debito), ma per il coraggio che ha fin qui dimostrato con il suo lavoro in Polonia, prima come fondatore di Teatr Nowy a Cracovia e, poi, come curatore del Dialog – Wrocław International Theatre Festival di Breslavia. Soprattutto in un momento in cui il settore teatrale, in Italia, sembra essere finanziato per accettare di starsene alla finestra in silenzio – e fatica a imporre un’idea diversa alla politica perché ricattabile economicamente – scoprire che si può e si deve restare fermi sulle proprie posizioni è di capitale importanza.
E con l’occasione di una lunga telefonata in una brumosa giornata di febbraio, abbiamo anche chiesto a Tomasz cosa stia realmente accadendo in un Paese che – dopo la caduta del Muro di Berlino e l’apertura all’Europa e alle istanze della nostra democrazia capitalista – appare, ogni giorno di più, oppressivo e retrivo.
Le misure restrittive prese per fronteggiare il Covid-19 hanno dimostrato che la cultura e le arti sono considerate – a livello politico ma forse anche dalla società – settori di serie B, non solamente in Italia. E chi vi lavora anche. Come vede il futuro del teatro nel nostro Paese ma altresì in Europa?
Tomasz Kireńczuk: «Se consideriamo la cultura dal punto di vista della società, il Covid-19 e i conseguenti lockdown hanno inciso profondamente nella vita delle persone rendendo, al contrario, evidente l’importanza della cultura nella nostra realtà quotidiana. Quando siamo stati rinchiusi in casa, moltissimi tra di noi hanno goduto del lavoro degli artisti – leggendo libri, guardando il cinema in televisione, seguendo i festival in streaming. Pensiamo alle tante proposte artistiche rese liberamente accessibili su internet. In Polonia i Festival che sono stati trasmessi in rete hanno riscosso un grande successo e penso, ad esempio, a un’importante vetrina del teatro polacco, ossia il Boska Komedia Festiwal (Divina Commedia Festival, dal 5 al 13 dicembre 2020, n.d.g.), che ha toccato quota quarantamila spettatori circa – cifra notevole per il mondo del teatro. Si è visto, quindi, da parte delle persone che esiste una reale necessità di restare in contatto con il mondo della cultura. D’altro canto, dal punto di vista della politica e delle istituzioni, si è notato un disinteresse sia per il mondo culturale sia per i lavoratori del settore. Basta ascoltare i discorsi dei politici per rendersi conto di come si concentrino tutti sull’economia e sul suo rilancio, dimenticando che la cultura fa parte dell’economia e il lavoro artistico è, a tutti gli effetti, parte della produzione di un Paese. Credo sia importante che gli operatori del settore facciano capire ai politici che siamo anche noi parte del sistema economico. E infine va tenuto conto un terzo fattore, ossia che i lockdown hanno reso evidente come, in varie parti d’Europa, la situazione economica degli artisti sia tragica. Bisognerà porre grande attenzione verso tutti quei colleghi che, terminata la pandemia, non potranno tornare subito in attività e dei tanti che, durante questo periodo, non hanno avuto il supporto economico e strutturale necessario per continuare il loro lavoro. Dobbiamo capire, ognuno di noi, come intervenire perché stanno sparendo tante, troppe realtà».
In Italia le Compagnie si sono divise tra quelle che si sono chiuse in teatro a provare, in residenza, continuando il lavoro di ricerca in vista della riapertura. E quelle che si sono buttate, anche senza paracadute, nel teatro online o in streaming. Cosa pensa dell’idea di trasformare il teatro – arte dei corpi e della compresenza – in una forma espressiva diversa, fruibile su un computer o da cellulare?
T. K.: «Non credo ci sia una risposta univoca a questa domanda. Da un lato, è stato importante essere presenti online per mantenere il contatto con le persone, soprattutto per condividere il lavoro artistico che abbiamo porto avanti così da rendere gli spettatori consapevoli del nostro operato, di cosa significhi questo mestiere. Quindi, mettere in rete – sempre che sia possibile farlo – il progetto che stiamo seguendo va benissimo, se si vuole perseguire una forma di contatto. Ma il teatro resta dal vivo. E questo è ovvio. Se manca lo spettatore, che ci segue, che interagisce, che respira con noi, stiamo facendo un’altra cosa. Non credo che il teatro possa essere sostenuto totalmente in una versione online o in streaming. D’altro canto, l’essere stati costretti a spostare parte dei prodotti culturali in rete, ci ha resi coscienti delle potenzialità di questo medium. Penso soprattutto all’allargamento della platea, alle persone che altrimenti non potrebbero mai partecipare dal vivo al nostro lavoro – sia perché abitano troppo lontano, sia per ragioni economiche. La rete, quindi, potrà servire, anche in futuro, a incontrare le persone che non potrebbero mai essere presenti, quando riprenderemo a fare il nostro lavoro dal vivo. E, in questo senso, dovremo pensare a come utilizzare positivamente internet quando arriveranno i tempi post-pandemia e torneremo a lavorare in compresenza. D’altro canto, proprio ieri sono finalmente tornato a teatro dopo il lockdown, qui in Polonia, e devo ammettere che è un’esperienza totalmente diversa: condividere lo stesso spazio, lo stesso respiro, con gli attori, è vivere un’energia bellissima».
Lei ha lavorato in Polonia e in Italia. Quali differenze nota, nel mondo teatrale, tra i due Paesi?
T. K.: «I sistemi sono totalmente diversi. Qui in Polonia il teatro esiste quasi esclusivamente nelle istituzioni pubbliche, che sono tantissime. Ci sono teatro statali, regionali, cittadini e i fondi per gli artisti sono erogati tramite le istituzioni pubbliche. D’altro canto non esistono tante compagnie indipendenti quante ne ho viste in Italia. La ricerca, quindi, si fa dentro o ai margini delle istituzioni pubbliche. Questo sistema garantisce la sicurezza economica degli artisti, i quali possono lavorare con maggiore tranquillità. Non si deve combattere in cerca di fondi, di uno spazio dove lavorare, di tempi adeguati. D’altronde bisogna ammettere che, all’interno delle istituzioni, non si dà sufficiente valore alla ricerca. In tempi come questi, difficili a livello politico, si è sottoposti a continue pressioni – non si possono esprimere idee al di fuori delle logiche imperanti, non ci si può assumere rischi, non si possono ideare prodotti artistici con una valenza politica perché si è dipendenti dalla stessa. In Italia, per quanto a mia conoscenza, credo che le istanze artistiche più innovative siano prodotte al di fuori delle istituzioni, dai gruppi e dalle compagnie indipendenti, che sviluppano un linguaggio specifico, originale, frutto di un’autentica ricerca. Purtroppo, proprio questa indipendenza crea problemi economici perché senza l’apporto di un’istituzione e di fondi statali è molto difficile lavorare. Il mio interesse sarà anche quello di capire la differenza tra i due sistemi e cosa sia meglio accogliere di ciascuno. E vorrei aggiungere una nota. Occorre sottolineare che, in Polonia, i finanziamenti ci sono ma il problema è che sono assegnati in base a logiche politiche. Se penso a quante nuove istituzioni culturali sono state create negli ultimi sei anni, dal Ministero per i Beni Culturali, resto a bocca aperta – ma l’obiettivo è rafforzare una precisa visione ideologica e, di conseguenza, non si ottengono fondi per esprimersi liberamente».
Ci racconta cosa le è accaduto nel 2017 e quanto sia difficile per una realtà artistica mantenersi libera e indipendente, dalla Chiesa e dallo Stato, nell’odierna Polonia?
T. K.: «Nel 2017, a febbraio (se ricordo con precisione il mese), si tenne l’anteprima di uno spettacolo prodotto dal Teatr Powszechny di Varsavia, tra i più indipendenti del Paese e che porta avanti un lavoro politico, connesso con la situazione contingente, davvero interessante. Lo spettacolo era diretto da un regista croato, di nome Oliver Frljić (nato nel 1976 in Bosnia-Herzegovina, ha studiato e lavora in Croazia anche come autore e attore, n.d.g.); basato su un testo di Stanislaw Wyspiański (1869/1907, pittore, poeta e drammaturgo polacco, n.g.d.), intitolato Klątva / The Curse (la maledizione, t.d.g.). Partendo da questo dramma di stampo classico, tipico dell’inizio del Novecento, Frljić ha ideato uno spettacolo che tratta di pedofilia nella Chiesa polacca, e delle responsabilità della Chiesa cattolica nella situazione politica odierna, in Polonia. Ovviamente questo lavoro sollevò un grande polverone a livello politico e il Ministro per i Beni Culturali affermò che non voleva che fosse messo in scena e che non avrebbe finanziato alcun teatro o festival che ospitasse Frljić. Il suo fu un attacco personale a un artista. A quel punto, però, io avevo già visto lo spettacolo e lo avevo trovato interessante sia dal punto di vista artistico che politico, anche perché in un Paese così cattolico e carico di problemi come la Polonia, dove la Chiesa detiene un potere enorme, sembrava importante invitare un regista straniero in grado di parlare di noi e delle nostre problematiche – dato che nessun artista polacco osava affrontare tali argomenti. Perciò, ancora prima che scoppiasse lo scandalo, io avevo già deciso di ospitare lo spettacolo al Dialog – Wrocław International Theatre Festival (del quale è stato programmatore e curatore dal 2011 al 2019, n.d.g.) nell’edizione del 2017. Quando si alzò il polverone e cominciarono le manifestazioni dei nazionalisti polacchi contro lo spettacolo, impedendo persino al pubblico di entrare al Teatr Powszechny, la situazione si trasformò in un incubo. Eppure, nonostante tutto, decisi che non avrei cambiato idea: avevo assistito a Klątva, lo avevo trovato importante sotto ogni punto di vista, il suo regista stava portando avanti istanze artistiche ma anche sociali e politiche condivise da Dialog, in breve: avevo deciso di ospitarlo e non sarei tornato sui miei passi. A quel punto, nonostante avessimo già ottenuto un sostegno da parte del Ministero per i Beni Culturali, quando si seppe che lo avremmo inserito in programma, fummo informati che o lo cancellavamo o avrebbero ritirato il finanziamento già stanziato. Al che risposi che non si potevano subordinare le scelte del Festival alle decisioni del Ministro. Tre settimane prima dell’apertura della manifestazione, ricevemmo comunicazione che i fondi erano stati tagliati. A quel punto decidemmo di cancellare l’intero programma degli spettacoli prodotti in Polonia mantenendo però Frljić – che sarebbe stato coperto dallo sbigliettamento. La sorpresa arrivò quando presentammo pubblicamente il nuovo programma e la situazione che lo aveva determinato. A quel punto nacque un enorme movimento di solidarietà – in Polonia e anche a livello internazionale – e, grazie a un crowdfunding organizzato da alcuni colleghi, in due settimane riuscimmo a raccogliere i fondi che il Ministero aveva tagliato e a presentare l’intero Cartellone. Quello che vorrei sottolineare è l’importanza della solidarietà: ricevetti tante telefonate da colleghi che mi dicevano che non ero solo e gli stessi agirono di conseguenza cosicché non lo fossi. Riuscimmo a risolvere in tempi brevissimi, nonostante il Ministero avesse tergiversato fino all’ultimo, comunicandoci il taglio dei fondi solo tre settimane prima dell’inizio del Festival. Fu incredibile!».
Un Festival, oggi, è spesso solo una vetrina di nomi noti e televisivi. Lei come lo intende?
T. K.: «Sicuramente non come una vetrina. Non mi interessa. Un festival ha anche dei doveri, tra questi il supporto alle nuove tendenze delle arti performative, il mettersi in contatto con la situazione sociale e le istanze politiche, e la creazione di uno spazio aperto al dialogo. Non si tratta solamente di presentare delle opere quanto di mettersi in dialogo con gli spettatori e con gli artisti per capire cosa sta succedendo nel mondo, come sta cambiando e quale futuro possiamo, tutti insieme, immaginare. Non mi interessa, quindi, presentare una sfilza di spettacoli o vedere quali nomi di punta del teatro contemporaneo potrò inserire in Cartellone. Del resto, Santarcangelo ha una tradizione di avanguardia, di ricerca di nuovi linguaggi e sensibilità che va trattata con grande cura perché è unica e speciale».
Sempre dalle sue biografie emerge una pratica curatoriale che si concentra sul lavoro socio-artistico con le comunità locali. Come si muoverà in tal senso?
T. K.: «Il mio interesse finora è sempre stato quello di favorire il contatto tra gli artisti e le comunità locali per capire cosa si può creare insieme. Anche senza avere un progetto preciso – come uno spettacolo, una mostra o un evento culturale – per me conta incontrare le persone del territorio per comprendere cosa fare insieme: noi e loro. E questo partendo dall’idea che siamo tutti allo stesso livello: gli abitanti sono gli esperti della realtà quotidiana che ci mostrano cosa conti per loro e perché; e noi, gli artisti, che abbiamo i mezzi e i linguaggi per esprimere certe istanze, dobbiamo trovare le forme per raccontare questi bisogni e interessi. Ecco, questo incontro è stato sempre importante per me e, in prima persona, ho lavorato a lungo con gli anziani. Ovviamente cosa farò a Santarcangelo, non è una cosa che possa programmare dalla Polonia. Posso immaginare che mi interesserebbe continuare questo percorso ma solamente quando sarò là e avrò conosciuto la comunità locale, e capito i suoi interessi, le sue necessità, saprò come agire di conseguenza».
La situazione nel suo Paese, la Polonia, sembra sempre più esacerbata – si va dal movimento delle donne contro le restrizioni all’interruzione volontaria di gravidanza alla scelta di affidare l’Istituto per la Memoria Nazionale di Breslavia a Tomasz Greniuch, ex militante del movimento di estrema destra Onr. Dall’Italia, la Polonia sembra sempre più oppressiva, nera e retriva anche a livello religioso: solo una mia lettura, magari errata, o una realtà di fatto?
T. K.: «Vorrei dirle che la sua visione è lontana da ciò che sta accadendo qui in Polonia ma, purtroppo, è quanto vedo anch’io. L’unica speranza, nel mio Paese, proviene dal Movimento delle donne e, anche in altre parti, è sempre il mondo femminile che sta portando avanti grandi battaglie. Questo Movimento ci dà forza, speranza, e la possibilità di guardare con un minimo di ottimismo al futuro. Nonostante i lockdown e il Covid-19, le manifestazioni sono continuate e le persone sono comunque scese in piazza, dimostrando che c’è finalmente un risveglio della coscienza civile. Tante persone che per anni hanno disertato le strade, che non hanno mai protestato, che separavano la politica dalla vita quotidiana, adesso sono tornate a manifestare. Negli ultimi cinque anni, in Polonia, si sono sottratti frammenti importanti alla nostra indipendenza di pensiero, alla nostra libertà, partendo dalla riforma della Corte Costituzionale. Sommiamo la propaganda svolta dalla tivù pubblica: passo dopo passo si è cambiato il sistema di governo di questo Paese. Finalmente, con l’ultima legge contro l’interruzione volontaria di gravidanza, le persone si sono ribellate. E sono scese in piazza, non solamente a Cracovia, a Varsavia, a Breslavia, a Danzica, ma anche nelle piccole città, nei paesi, e questo non era mai successo dopo l’89. Protestare a Cracovia può essere facile in quanto nessuno ci conosce: si va tutti insieme, nell’anonimato di una folla solidale; ma in una cittadina, dove tutti si conoscono, dove il prete ha un potere enorme e se ci vede sa chi siamo, chi sono i nostri genitori, e ci sono comunque migliaia di persone che scendono in piazza, vuol dire che questa forza, questa energia esistono. È un discorso importante e mi dà speranza».
Venerdì, 26 febbraio 2021
In copertina: Tomasz Kireńczuk. Foto di Marcin Oliva Soto (gentilmente fornita dall’ufficio stampa del Santarcangelo Festival).