Pisa mette in mostra l’icona della Metafisica
di Simona Maria Frigerio
L’immersione nell’universo di Giorgio de Chirico inizia con una sfilza di autoritratti da godersi in un’unica boccata d’aria. Il primo, nello Studio di Parigi (1934/35), abbastanza di maniera con – elemento di spicco – la testa di statua, chiaro rimando ai temi cari alla Metafisica, precede una seconda testa, in questo caso una Minerva rotolante, che ritorna nel successivo Autoritratto del 1958, dove la teatralità del sipario (presente anche nell’autoritratto del ‘25, anch’esso in mostra, sebbene quest’ultimo con rimandi alla ritrattistica rinascimentale per l’apertura su scorci paesaggistici) e del costume paiono trasporre storicamente le ricerche di quel senso evanescente e sospeso – a livello temporale – della stagione metafisica. Dichiarata e meno interessante la suggestione storica nell’Autoritratto con costume del Seicento del ‘47; laddove, al contrario, Atelier del Maestro a Parigi (1934) si fa finalmente originale con l’utilizzo dell’escamotage della stampa (o della bozza di quadro: richiamo consapevole a Las Meninas di Velázquez?) appesa alla parete per riproporre, al centro della scena, l’immagine di de Chirico – che pare osservare dall’alto avvenimenti e personaggi col piglio del regista occulto di questo teatro-mondo.
Nell’universo propriamente metafisico si entra con tre disegni, realizzati tra il 1917 e il 1918, Consolazione Metafisica, La sposa fedele e La casa del poeta. Se nei primi due emergono molte tra le icone della ricerca espressiva del periodo, ivi compresi gli elementi geometrici e il manichino, l’asetticità, l’incongruenza del ‘ritrovamento’ archeologico e l’assenza dell’essere umano (sebbene le sue vestigia restino, come spoglie di un teatro dell’anima); nell’ultimo è il colore a prendere il sopravvento rimandando al passato ma preconizzando altresì i futuri interessi, più barocchi e opulenti, del de Chirico successivo.
La Sala dedicata al periodo Metafisico è decisamente il fulcro dell’esposizione. Si va dalla purezza delle forme di Arrivo del trasloco (opera posteriore, datata 1965, che meglio starebbe al primo piano come specificheremo più oltre) a Piazza d’Italia con fontana (1968, idem come sopra), ove ritorna il tema caro negli anni 10 del Novecento di spazi ritagliati con perfezione geometrica e prospettica in quelle che potremmo definire ‘cattedrali nel deserto’. Vi è il sapore di Piero della Francesca in questi dipinti, e di molti artisti rinascimentali, sublimato in un senso di trascendentale sospensione, come se il soffio vitale si fosse spento nel momento stesso in cui ha preso forma. Pregevole lo schizzo del 1916, Il filosofo e il poeta, in parte ripreso in Il poeta e il pittore, quadro del ‘75 che ne ripropone i manichini, gli elementi geometrici e persino le aperture verso l’esterno sebbene i corpi si rivestano di carne, i tessuti si modellino in drappi voluttuosi, gli ovali accennino a una ricerca di confronto visivo e il quadro astrale si trasformi in una finestra affacciata su una piazza, un cielo azzurro e, forse, un breve susseguirsi di onde marine. Vi è insieme un desiderio di umanizzazione e di catalogazione, come se – in questa tela degli anni 70 – de Chirico volesse raccogliere e condensare tutte le sue ossessioni poetico-pittoriche. In mostra anche Ettore e Andromaca del 1924 che, nell’umanizzazione dei manichini e nell’inserto vitale dei cavalli dalla resa realistica, già fa aleggiare opere posteriori sul sostrato metafisico – che, al contrario, si esprime compiutamente sullo stesso tema nella tela omonima del 1931 (poco oltre nel percorso); e nel disegno del 1917 intitolato L’apparizione, ove basta la rotazione dell’ovale inespressivo del manichino per dare senso a un dialogo muto – sospeso nello spazio e nel tempo. Sempre in mostra anche un altro tra i suoi capolavori, Le muse inquietanti (1925/47), dove i manichini si caricano di un’angosciosa attesa, di un senso della storia come azione compiuta irreversibile, di fronte alla quale le ‘donne’, spettatrici di eventi sui quali non esercitano alcun potere, possono opporre solo una stoica rassegnazione. Sarà il messaggero (sulla destra) a irrompere in questa quiete sospesa – ma è sull’orlo del baratro che si ferma la mano dell’artista, preveggente ma non voyeur del dolore futuro.
E a questo punto… pausa. Con un pizzico di irriverenza, le sproporzioni cosmiche di La meditazione di Mercurio (1973) e di Composizione Metafisica (1950/60) non possono che riportarci alla mente La pagina della sfinge, quasi che de Chirico ci sfidasse a risolvere il rebus della sua arte e del fascino che continua a esercitare su tutti noi.
Meno interessante il periodo del cosiddetto ‘ritorno all’ordine’ – che coinvolse sia Carrà che de Chirico. I richiami a un classicismo opulento e barocco, intriso di retorica, si respira in molti tra gli artisti che frequentarono il salotto di Margherita Sarfatti e affiancarono il gruppo di Novecento (composto dai pittori Mario Sironi, Achille Funi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci, Emilio Malerba, Pietro Marussig e Ubaldo Oppi). Di questi vaghi – e poi fascistoidi – richiami alla plastica romana, l’unico quadro che davvero convince – tra quelli in esposizione a Pisa – è Solitudine (1925/26) di Mario Sironi, che si mantenne sempre all’interno di una poetica delle forme statuaria e trascendente, resa ancora più perturbante dalle tonalità cupe, dalle architetture appena accennate eppure imponenti e opprimenti, dai volti statici ma non per questo incapaci di esprimere più che la contingenza la consapevolezza della storia. Di Sironi in mostra anche L’Atelier delle meraviglie del 1918/19 – a metà strada tra le istanze moderniste di matrice futurista e il gusto della natura morta o, perfino, del papier collé.
Curioso l’omaggio di Filippo De Pisis al Maestro in Natura morta con quadro di de Chirico, del 1928. Ivi ritroviamo l’amata pennellata veloce e la conchiglia, il taglio in orizzontale del presunto soggetto dell’opera e quello sfasamento prospettico caro al ferrarese. Eccessivamente geometrizzante il Savinio di La cité des promesses (1928), il meglio del fratello di De Chirico si intravvede in Ulysse et Poliphème (1929), ove si respira appieno la sua vena onirica, mentre si apprezza quella sua pennellata dai toni fiabeschi, quelle forme che paiono giochi da costruzione per giganti-bambini di un mondo inventato dall’estro dello scrittore/artista – anch’egli originale esponente della corrente metafisica. Prima di lasciare la Sala, si notino il tentativo di fregio alla greca di de Chirico, in Corsa di cavalli nella stanza (1928/29) e il molto più interessante Gli archeologi (1927 circa), che riesce con raro equilibrio ad adattare perfettamente la composizione ai margini della tela, che impone spazi ma imprime al tutto anche un senso di compressa eppure raccolta mise-en-espace efficacemente teatrale.
Del periodo barocco (di cui avevamo precedentemente accennato), tra gli altri, la Bagnante coricata (1934) che, non solamente rimanda a vari quadri anteriori di artisti famosi per il tema trattato, ma forse guarda anche ai capolavori di Manet, Le déjeuner sur l’herbe e l’Olympia, per l’incarnato e la mollezza della posizione senza, però, riuscire a evocare quella sfrontata bellezza che trasfuse il Maestro francese nei suoi nudi di una donna nuova, sfrontata e finalmente orgogliosa del proprio corpo nudo. Non a caso de Chirico pone il soggetto muliebre pudicamente di schiena, più vicino alle opulenti Pomone di Marino Marini. Un certo gusto à la Scipione nella trattazione degli animali e nelle tinte potenti si ravvisa in Natura morta con pesci, ancora di de Chirico (1925), come tanti i rimandi alle nature morte olandesi del Seicento e al Bue macellato di Rembrandt nell’Abbacchio macellato del 1948.
Nella stessa Sala è però il genio di Filippo De Pisis quello che emerge prepotentemente. L’autocitazionismo irriverente di Natura morta con melanzana del 1943 respira degli interni scabrosamente in bilico di Cézanne. Negli orizzonti che non sono mai centrali alla messa a fuoco dell’osservatore ma, come in Van Gogh, sempre più in basso o più in alto (si vedano, in mostra, Settembre a Venezia, 1930, e Natura morta con agli, coevo) riemerge quella ricerca di equilibrio che rimarrà sempre in sospesa attesa, nella composizione delle tele del ferrarese. Lo sgargiante e corposo uso del colore, materico eppure steso da una pennellata nervosa, rende ogni frutto un soggetto dotato di propria autonomia, padrone del quadro quasi fosse prepotentemente umano nel suo porsi in primo piano. A differenza di Morandi, in De Pisis vi è una vivacità di tagli e prospettive, coloristica e vitalistica (si vedano i gabbiani stagliarsi su un orizzonte presago di pioggia) da rendere ogni natura morta un universo a sé stante. E chiudiamo con La lepre (1933), ove l’occhio ancora vivo dell’animale, quel pelo soffice e arruffato, quella posizione quasi fetale e la macchia di sangue paiono restituirci un mondo di fragile bellezza che sporge sull’abisso del nulla. E ancora una volta, un gambo di sedano o un animale cacciato assumono la forza di una vita che si pone come grumo di senso in un mondo insensato (ricordiamo che quelli furono gli anni della presa del potere da parte del fascismo e del nazismo e che la guerra tornava a profilarsi all’orizzonte senza gli imbellettamenti futuristici da ‘igiene del mondo’).
Al primo piano di Palazzo Blu ecco le opere dell’ultimo de Chirico che torna, tra gli anni 60 e 70, alla Metafisica, la corrente che gli diede fama e grazie alla quale conserva un posto d’onore nella pittura italiana del Novecento.
Campeggia, teatrale, surreale eppure umanissimo, Orfeo trovatore stanco (1970). Il manichino cerca di farsi uomo, l’orizzonte si stempera in uno sfumato giallognolo, la proliferazione dei simboli si ricompone in quel gesto, centrale, di abbandono, in quella mano dalle pieghe sottolineate in nero per darle l’evidenza materica della carne sofferente. Colori e sfumature pastello, una finestra che si apre su architetture non più asettiche ma riconoscibili e ormai patrimonio dell’immaginario collettivo in Visione Metafisica di New York (1975); e il ritorno prepotente delle piazze in Presente e passato (1936) e Piazza d’Italia con statua (1937), entrambe pregevoli ma chiaramente di epoca anteriore (e qui forse si può rintracciare un errore nell’allestimento già rilevato precedentemente). Ironico e sagace il Ritorno di Ulisse (1968), che respira il vento del maggio francese, di una gioventù che pretende l’immaginazione al potere, ridisegnando l’iconografia dell’eroe omerico come un fanciullo che rema in mezzo a un tappeto/mare nella propria stanza da letto – un gusto fanciullesco vicino alle sollecitazioni di Savinio. Tornano anche, a più riprese, i cosiddetti ‘bagni misteriosi’, tema di un’infanzia perduta, forse, insieme al gusto del gioco, con quelle cabine su palafitte, quei palloni di plastica colorati, quei giovani ‘en fleur’ che rimandano alle atmosfere di uno tra i film culto di Luchino Visconti, Morte a Venezia.
L’umano e l’androide si incontrano in Pianto d’amore, del 1974, e in Il figliuol prodigo, del ‘75, opere ove serpeggia infine una riconciliazione tra le diverse anime artistiche di de Chirico.
La mostra continua:
BLU Palazzo d’arte e cultura
Lungarno Gambacorti, 9 – Pisa
Giorgio de Chirico e la pittura metafisica
fino a domenica 9 maggio 2021
orari: da lunedì a venerdì, dalle ore 10.00 alle 20.00
(al momento, causa misure anti-Covid: sabato, domenica e prefestivi chiuso)
Venerdì, 12 febbraio 2021
In copertina: Giorgio de Chirico, Ritorno di Ulisse (1968). Foto gentilmente fornita dall’ufficio stampa di Blu. Palazzo d’arte e cultura.