Il femminicidio come paradigma sociale
di Simona Maria Frigerio
Bandiamo i termini ‘avvenente’, ‘gelosia’, ‘raptus’, cosa resta nelle pagine dei giornali sull’uccisione premeditata di una donna in quanto tale? Poco, come poco resta nella consapevolezza comune sull’impatto sociale del fenomeno – che è presente al sud come al nord, trasversale per status e livello d’istruzione, storicamente radicato, tuttora endemico. Ma capire è difficile perché stereotipi e preconcetti abbondano, nelle aule giudiziarie così come nelle corsie di un supermercato: tutti parlano, tutti parliamo dell’ultima donna ammazzata, ma le donne non sono solamente le vittime sacrificali sull’altare di un patriarcato ridotto a monopolio del corpo di una specifica donna, bensì parte integrante della nostra società, e ricoprono ruoli anche importanti a livello economico e politico, inserite in ogni settore – dalla ricerca scientifica alla finanza etica – e impegnate a crescere, capirsi e maturare come individui e come comunità, esattamente come l’altra ‘metà del cielo’. Partendo da questo fatto e dal riproporsi di quei tre termini – che pensavamo superati – in altrettante recenti sentenze, abbiamo provato a capire cosa si nasconda dietro alla violenza di genere, parlandone con quattro donne professioniste. Monia Azzalini, che si occupa di analisi dei media, per comprendere i limiti della comunicazione mediatica sulla differenza di genere; l’avvocata Sara Wolfler, dello Studio legale Guzzoni di Milano, per analizzare i limiti ma anche le novità a livello giuridico nella difesa di chi è vittima di violenza di genere; una psicologa clinica milanese che, anche per il suo passato di attivista nei movimenti femministi e in politica, può darci un terzo sguardo, più introspettivo, sul fenomeno; e Grazia Biondi la quale, dopo aver subito violenze domestiche per anni si è ribellata, fondando l’Associazione di auto mutuo aiuto Manden e ricostruendosi una vita – che è insieme simbolo di riscatto e di libertà non solamente per lei ma per noi tutte. Perché capire è sempre il primo passo per avviarsi sulla strada della guarigione – non solo come individui, ma soprattutto come società.
Le sentenze dalle quali siamo partiti
Premessa. Non vogliamo giudicare i giudici. Le sentenze, se ritenute – da una parte o dall’altra – non soddisfacenti possono essere appellate, non è nostro compito farlo. Tre sono i dubbi che, però, ci hanno fatto accendere una spia d’allarme. Ossia il fatto che la ‘gelosia’, il ‘raptus’ e la presunta ‘avvenenza’ o meno della vittima, che non dovrebbero avere più alcun valore difensivo, siano tornati nuovamente alla ribalta. Nelle motivazioni della sentenza Gozzini (I Corte d’Assise di Brescia, Sezione I Penale), che ravvisa un caso di uxoricidio e non di femminicidio in quello a carico di Antonio Gozzini, si legge che lo stesso era incapace di intendere e di volere al momento del delitto, commesso a carico di Cristina Maioli, la moglie, in quanto affetto da “una patologia psichiatrica” da ravvisarsi nel sintomo della “gelosia delirante”, diversa dalla “gelosia come stato d’animo passionale”.
La seconda sentenza che ci ha lasciati basiti è del 2016 e la apprendiamo da https://roma.corriere.it/, dove si riferisce che la I Corte d’Assise d’Appello di Roma “ha ridotto da 30 a 16 anni la condanna per omicidio a carico” di Felix Haidau, il quale aveva dato fuoco alla compagna, deceduta in seguito per le gravi ustioni. “Secondo i giudici di secondo grado, non è contestabile all’assassino l’aggravante di aver agito per futili motivi” in quando la donna, Carmen Saran, avrebbe effettivamente ‘tradito’ il compagno – o almeno sembra che la difesa sia riuscita a dimostrare, come scriveva il collega Francesco Di Silvestre nel 2016: “che i sospetti dell’uomo erano giustificati”.
L’ultima sentenza, del 2019, è sempre di una Corte d’Appello (anche se annullata dalla Cassazione), per la precisione di Ancona, composta da tre giudici donne (della serie che stereotipi e pregiudizi appartengono alla società nel suo complesso). In questo caso i due ragazzi erano imputati dello stupro di una coetanea a Senigallia, giudicati colpevoli in primo grado e assolti in appello perché, come racconta www.repubblica.it, essendo la donna poco ‘avvenente’ si sarebbe inventata tutto – a riprova la foto presente nel fascicolo processuale che “appare confermare”. E, con tutto il rispetto per la magistratura, che lavora nel suo complesso ottimamente e, spesso, in situazioni difficili e precarie, in questo caso pare quasi di vedere le giudici (al femminile solo l’articolo perché in Parlamento non sono ancora riuscite a inventarsi il femminile per i neutri) osservare la foto col piglio di un concorso per Miss.
Dove nascono gli stereotipi?
Dietro ai termini ‘gelosia’ o ‘avvenenza’ ma anche a quelli dicotomici come ‘amore/possesso’, ‘preda/predatore’, ‘vittima/carnefice’, esistono la storia e la società, che li hanno coniati e, soprattutto, che con quei termini definiscono particolari comportamenti – questo perché la lingua non è mai neutra (a differenza dei sostantivi). Come scriveva Antonio Gramsci: “Il vocabolario è un museo di cadaveri imbalsamati, il linguaggio è l’intuizione vitale che a questi cadaveri dà nuova forma, nuova vita in quanto crea nuovi rapporti, nuovi periodi nei quali le singole parole riacquistano un significato proprio e attuale”.
Per comprendere, quindi, come si costruiscono o decostruiscono gli stereotipi, siamo ricorsi a Monia Azzalini (Università Ca’ Foscari di Venezia e Osservatorio di Pavia), dal 2005 coordinatrice nazionale del Global Media Monitoring Project per l’Italia (con Claudia Padovani, Università di Padova). Proprio indagando le finalità di quest’ultimo progetto iniziamo la nostra conversazione.
M.A.: «Il progetto nasce durante i lavori di preparazione della IV Conferenza Mondiale delle Donne di Pechino, nel ‘95. L’anno prima, a Bangkok, diverse organizzazioni internazionali si erano riunite per preparare del materiale da portare a Pechino, così da mettere a disposizione dell’Onu, e degli Stati membri che avrebbero partecipato, dati sulla condizione delle donne in diversi settori – ivi compresi i media. Mentre in altri Paesi, fin dagli anni 60 e 70, si erano effettuate ricerche in questo campo, in Italia, solamente dalla seconda metà degli anni 80, ci si era interessati alla rappresentazione delle donne nei contenuti della stampa, della televisione o della radio. Nel ‘94, in ogni caso, esistevano diverse ricerche dalle quali risultava che le donne erano sottorappresentate rispetto agli uomini e, oltretutto, in maniera stereotipata – ossia, in ruoli fissi e molto tradizionali, quali la casalinga, la madre o l’amante. Sulla base di questi risultati e della convinzione che i media avessero un ruolo importante nel divulgare l’immagine delle donne si è deciso di avviare un progetto di ricerca per raccogliere, nel corso del tempo, i dati circa la presenza delle stesse sui media da utilizzarsi per un processo di advocacy, ossia di promozione delle pari opportunità. Sia a Pechino nel ‘95, e sia, da allora, per supportare l’Onu nel perseguire il miglioramento della condizione femminile. Preciso però che il GMMP monitora solamente i media dell’informazione».
Non analizza, quindi, l’immagine delle donne nelle pubblicità, nei programmi di intrattenimento o nel cinema. Perché tale scelta?
M.A.: «Ci sono altre ricerche che indagano il settore pubblicitario, le serie televisive o i social media ma questo progetto si focalizza sull’informazione e, in particolare, su quella quotidiana. Questo perché si è partite dal presupposto che l’informazione – non essendo fiction – restituisca l’immagine del mondo reale. Di conseguenza, dato che nel mondo ci sono tante donne quanti uomini, anche lo spazio dedicato dall’informazione – che ne è il riflesso – ai due generi dovrebbe essere suddiviso al 50%. Il paradosso è che ci sono più donne nella pubblicità e meno nei contenuti d’informazione. Questo perché chi ha bisogno di vendere prodotti e servizi, o persino le serie televisive, ha un interesse maggiore a raggiungere il pubblico e quest’ultimo, se non sente rappresentati i propri valori e se stesso, non segue il programma messo in onda né acquista un bene di consumo. Il potere dei media, non a caso, è anche quello di proporre valori e modelli di riferimento e, purtroppo, sono anni che alle donne si propongono solo creme antirughe e profumi. Si tratta della costruzione della cosiddetta ‘mistica della femminilità’ (titolo del famoso saggio di Betty Friedan, pubblicato nel ‘63, n.d.g.), ossia un ideale di donna che la pubblicità e, a seguire, tutti i contenuti dei media alimentano».
L’informazione, dovendo essere mediata da professionisti con un proprio codice deontologico, quali i giornalisti, non dovrebbe essere più attenta?
M.A.: «L’informazione è stata scelta dal GMMP in quanto presenta dei formati standard abbastanza condivisi in tutto il mondo. Ogni giornale è un collettore di articoli, ossia di testi che informano su eventi che hanno un orizzonte di tempo limitato e interessano la politica, l’economia, la cultura e così via. Lo stesso dicasi per l’informazione televisiva e radiofonica. È quindi più facile comparare i dati nei vari Paesi tra loro o, in uno stesso Paese, nel corso del tempo. Inoltre, come lei stessa diceva, in questo settore esiste una categoria di riferimento. Nei social media non sappiamo chi siano i responsabili della produzione del materiale, in quanto sono gli stessi utenti, mentre per quanto riguarda l’informazione si tratta di redazioni composte da una serie di figure professionali che devono rispettare un codice deontologico e un’etica almeno teoricamente condivisa a livello globale».
Nella comunicazione di genere si sono fatti passi avanti e quali gap, eventualmente, ci separano ancora da altri Paesi?
M.A.: «Qualche passo in avanti è stato fatto in termini di visibilità delle donne nei contenuti dei media. Si è passati da un 17% di presenza femminile nelle news di radio, stampa e televisione a un 24% nel 2015 – che, però, era la stessa percentuale registrata cinque anni prima. Se ci concentriamo sull’Italia, c’è stato un aumento dell’attenzione sulle tematiche di genere, soprattutto in Rai, e tra queste anche relativamente alla violenza contro le donne. Il problema, però, è che quest’ultimo tema è complesso e delicato e andrebbe affrontato con tempi, modi e persone adeguati all’argomento – non può essere discusso in pochi minuti in un programma contenitore. D’altro canto, è un tema trattato spesso a seguito di eventi di cronaca, che sono i più critici. Questo perché la narrazione della violenza contro le donne nei vari mezzi stampa ricalca spesso degli stereotipi. A volte in maniera inconsapevole. Faccio una considerazione. Perché le vittime di violenza sono designate solamente con il nome, mentre gli autori o non sono nominati – se non per la relazione che avevano con la vittima – oppure sono nominati anche con il cognome e la professione che svolgevano? Ci vogliono corsi professionali per far comprendere a chi scrive che anche scegliere di usare solo il nome, magari pensando di ‘proteggere’ la donna, sta in realtà svilendo la stessa – perché per nome si chiama un’amica non il soggetto di un articolo».
Una comunicazione migliore può influire anche su una diversa percezione della violenza di genere?
M.A.: «Da una parte, c’è un problema di come narrare la cronaca e, dall’altra, si sta esagerando con le notizie che riguardano la violenza di genere. Sebbene parlare di femminicidio o di violenza contro le donne, all’inizio, sia stato come infrangere un tabù, secondo me, sovraesporre la questione della violenza contro le donne, soprattutto con fatti di cronaca – che non approfondiscono e che non ricordano la matrice culturale da cui deriva questo fenomeno – significa rinforzare nell’immaginario collettivo l’idea della donna come rappresentante del sesso debole. Questo perché, a fare da contrappeso, non abbiamo un’adeguata e realistica esposizione delle donne professioniste, competenti in tanti settori. Dirò di più, nel report del 2015 del GMMP Italia segnalavamo che un quarto delle donne presenti nei media erano visibili in quanto vittime, contro le donne visibili in quanto esperte fermo al 18%. Ovviamente le donne sono entrate nelle professioni più recentemente e, in alcune, sono minoritarie o non sono ai vertici; però – faccio ancora un esempio – perché quando un giornalista parla della realtà ospedaliera si rivolge sempre e solo ai primari che, nella maggioranza dei casi, sono maschi? Se si deve fare un articolo sulle malattie pediatriche, perché non intervistare una pediatra che lavora sul territorio invece di un primario indaffarato soprattutto con questioni burocratiche? Bisognerebbe cambiare i criteri del news making – ossia quei criteri che stabiliscono cosa fa e cosa non fa notizia, ma soprattutto chi».
Spesso la stampa indaga solo gli aspetti più morbosi o scabrosi dei fatti di cronaca. Non pensa che cambiare la narrazione possa essere utile per modificare la nostra percezione del fatto violento in sé ma anche perché la società si assuma le proprie responsabilità?
M.A.: «Non è un caso che l’articolo 17 della Convenzione di Istanbul per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne preveda anche l’impegno del settore dei media e del settore privato – ossia delle produzioni mediatiche e dell’industria culturale – nella prevenzione alla violenza di genere. L’impegno è quello di offrire una rappresentazione delle identità, dei ruoli e delle relazioni di genere non stereotipata. Ovvero complessa e articolata e che rifletta l’articolazione e la complessità del mondo. Se siamo metà uomini e metà donne – come dicevo poc’anzi – anche le informazioni dovranno riguardare entrambi i sessi in maniera paritaria e senza pensare che le donne siano tutte buone, simpatiche o figure positive. Del resto, anche la narrazione dell’universo maschile non è meno stereotipata, dato che si è concentrata per anni su una élite – composta di maschi bianchi, cristiani, di mezza età, realizzati nel mondo della politica o degli affari. Penso che un nuovo universo mediatico in termini di rappresentazione, che valorizzi la diversità in quanto valore, stia muovendo i primi passi grazie soprattutto alle serie televisive che si stanno affrancando da questo modello offrendo storie di bianchi, neri, gay, lesbiche, abili o diversamente abili, e così via. Se siamo tutti parimenti diversi e abbiamo tutti parimenti valore, possiamo finalmente sentirci tutti quanti inclusi. La diversità come differenza crea, al contrario, l’esclusione».
La legge è uguale per tutti?
Si pensa spesso che la giustizia sia un qualcosa di puro, perfetto, tranchant come la lama di un bisturi che separa reo e vittima con una precisione chirurgica. E invece la giustizia si amministra attraverso le leggi e le leggi sono scritte e interpretate da uomini e donne che, come ognuno di noi, possono avere pregiudizi, preconcetti e stereotipi comportamentali ai quali rifarsi. Ecco perché abbiamo pensato di chiedere un parere sulla violenza di genere e sui metodi per contrastarla all’avvocata Sara Wolfler – che spesso se ne occupa per lo Studio legale da lei co-fondato, a Milano, con la collega Benedetta Guzzoni.
Come sono cambiate le leggi inerenti la violenza di genere negli ultimi anni e quali sono gli attuali orientamenti della giurisprudenza in materia?
S.W.: «Nel corso del tempo ci sono state numerose modifiche volte a tutelare la vittima, spesso donna, di determinate condotte di violenza e abuso. La prima riforma è del 2009, quando è stato introdotto il reato di stalking; poi ci sono state alcune modifiche nel 2012 quando si sono avuti i primi aggravamenti di pena per i maltrattamenti; fino ad arrivare al 2013 quando si è attuata una profonda revisione di alcune norme sia procedurali che sostanziali a seguito dell’adozione della Convenzione di Istanbul del 2011 (La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, n.d.g.), che l’Italia ha recepito con il Decreto Legge 93 del 2013 e che, nella concretezza, ha portato ad aggravamenti di pena per maltrattamenti e stalking -diventati reati ostativi. Questo cosa significa? Che quando una persona è condannata a una pena superiore a due anni e all’interno di una certa soglia si emette un ordine di carcerazione già sospeso così che il condannato, entro 30 giorni, possa chiedere un affidamento in prova. Al contrario, per determinati tipi di reati – ostativi, appunto – tra i quali i maltrattamenti in famiglia, questo non è possibile. L’attualizzazione del Codice Penale ha preso altresì in esame il maggiore utilizzo dei mezzi informatici e, ad agosto 2019, è entrata in vigore la Legge 69, meglio nota come Codice Rosso, che ha introdotto ulteriori modifiche nei Codici penale e di procedura penale quali, ad esempio, l’articolo 583 quinquies che riguarda ‘la deformazione o lo sfregio permanente del viso’; il 612 ter che si concentra sul revenge porn (ossia la Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, n.d.g.) e il 387 bis che si occupa della violazione dei provvedimenti cautelari. Formalmente abbiamo constatato una maggiore attenzione verso la problematica e, anche dal punto di vista procedurale, grazie al Codice Rosso, si sono fatti notevoli passi in avanti. Si è disposto, ad esempio, che la persona offesa debba essere sentita entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, ed è stata introdotta una misura precautelare come il 384 bis, che prevede l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare».
L’allontanamento del reo dalla casa familiare, però, non impedisce effettivamente che lo stesso possa tornare per reiterare la violenza.
S.W.: «Teoricamente, se il reo non rispetta questa misura, si ha una nuova violazione. Bisogna anche notare che si impone altresì il divieto di avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. È evidente che non si arriva subito, a meno che non si tratti di un episodio estremamente grave, alla messa in campo di strumenti di tutela così forti. Però se si riscontra una certa reiterazione di detti comportamenti, il provvedimento dovrebbe diventare automatico. Dal momento stesso in cui una persona è stata convocata più volte dalle forze dell’ordine o le stesse siano dovute intervenire a più riprese, questo fatto dovrebbe fornire la previsione – ossia il fondato motivo – di una reiterazione della condotta violenta. Del resto esistono dei circoli viziosi patologici a causa dei quali se si rimane in casa con il proprio carnefice, o con la propria vittima, si ricade sovente nelle medesime dinamiche».
A livello legale, esistono ulteriori strumenti per evitare che le situazioni degenerino?
S.W.: «Credo sia molto importante la recente sentenza della Corte Costituzionale in merito al gratuito patrocinio per questo tipo di reato. A noi è capitato, come Studio, di trattare il caso di una ragazza straniera vittima di violenza sessuale, per la quale avevamo chiesto al Giudice di applicare la norma che prevede che lo Stato, per alcuni reati, garantisca le spese legali; allora, però, il Giudice non ci ammise al gratuito patrocinio dato che, alla richiesta di vedere le dichiarazioni dei redditi dei genitori della vittima, trattandosi di persone benestanti, gli stessi si rifiutarono di fornire tale documentazione. Grazie alla sentenza della Corte Costituzionale, al contrario, si afferma un principio importante perché le finalità del gratuito patrocinio, per questo genere di reati, sono diverse. Non è una questione di essere o meno in grado di sostenere le spese legali; bensì una di presa di posizione dello Stato nei confronti di certi reati. Un altro concetto importante è quello di persona offesa ‘vulnerabile’, articolo 90 quater del Codice di procedura penale, grazie al quale si possono chiedere, in fase di dibattimento, modalità di audizione diverse per la persona offesa. Le stesse si estendono finalmente dalle vittime, ad esempio, di mafia ad altre considerate ugualmente ‘vulnerabili’, come accade spesso nelle situazioni di violenza in ambito familiare, ossia ove vi sia un rapporto, sentimentale o economico, di subordinazione nei confronti del proprio ‘carnefice’. Riassumendo, esistono molti strumenti già in atto. Il problema è che non sempre sono attivati in maniera tempestiva o coordinata. L’impressione che si ha è che la mano destra non sappia ciò che fa la sinistra. Banalizzando – ma per far capire quale potrebbe essere il problema – possono esistere diverse denunce di maltrattamenti alla stazione di polizia ma se, nell’ultimo caso di violenza domestica, intervengono i carabinieri, questi ultimi potrebbero non venire a sapere dei precedenti».
Leggendo le motivazioni della sentenza Gozzini pare che la voce assente sia quella della vittima. Ha un peso la costituzione di parte civile dell’Unione donne in Italia (Udi) o di associazioni che si occupano di violenza di genere?
S.W.: «È importante laddove si porti avanti una difesa coerente e strutturata. Mi spiego meglio. Ha senso che un’associazione si costituisca parte civile se la donna fatica, anche psicologicamente, a portare avanti una causa e, quindi, l’intero procedimento. Bisogna tenere presente che la fase processuale relativa a tali reati è molto complessa, in quanto mette a nudo aspetti anche intimi della vita di un individuo; vi si contestano inezie e la difesa tenta, a volte, di far passare la vittima per ‘pazza’ o per una manipolatrice. Trattando il mio Studio molto penale in ambito familiare accade, però, di vedere anche l’altra faccia della medaglia, ossia la strumentalizzazione di tali reati per ragioni economiche. Capita di difendere, a volte, uomini che hanno in corso separazioni conflittuali dove le ex mogli utilizzano lo strumento del maltrattamento verso se stesse, o i figli, per ottenere banalmente più soldi. E qui chiudo la parentesi. Al contrario, nei casi in cui la violenza familiare è una realtà, la donna – che è spesso messa alla berlina dalla difesa del reo – può trovare un appoggio in associazioni che svolgano un ruolo concreto di sostegno».
Quando si deve parlare di uxoricidio e quando, a livello legale, di femminicidio? Pongo la questione dato che nella sentenza Gozzini è proprio il Giudice a fare tale distinguo: “Uxoricidio e femminicidio non sono termini equivalenti e fungibili, perché il primo contrassegna la mera [sic!] uccisione di una donna, mentre il secondo avente contenuto criminologico, si riferisce all’uccisione di una donna in quanto tale per motivi legati al genere, e ciò a causa di situazioni di patologie relazionali dovute a matrici ideologiche misogine e sessiste e/o ad arretratezze culturali di stampo patriarcale”.
S.W.: «Penso che nelle motivazioni di questa sentenza ci siano dei pezzi che suonano come delle excusatio non petita (scusa non richiesta, t.d.g.), ossia un ‘mettere le mani avanti’ per non essere eccessivamente criticati. Si è voluto battere molto sul concetto che in questo caso la gelosia doveva intendersi come una gelosia patologica, la cosiddetta ‘sindrome di Otello’, che trascende nella psicopatia, compromettendo la capacità di intendere e di volere del soggetto. Io non sono del tutto d’accordo con questi distinguo, a parte il fatto che la scelta del termine ‘mera’ è sicuramente infelice. Però, per spiegare in breve la differenza a livello legale, si può dire che l’uxoricidio, a livello etimologico, è l’uccisione della moglie – significato che poi è stato allargato a ricomprendere entrambi i coniugi, il partner, e qualsiasi persona alla quale si è legati da una relazione affettiva. Non soltanto il convivente e persino se la relazione si è conclusa. A livello legale è stato, quindi, codificato tale termine e si ritrova come circostanza aggravante. Il femminicidio ha più una connotazione di stampo giornalistico – o criminologica – ed è stato utilizzato, a livello legale, in contesti in cui l’uccisione della donna era motivata dal fatto che la stessa era considerata una proprietà del maschio. Mi viene in mente il caso della giovane uccisa dal fratello (Maria Paola Gaglione e Michele Antonio Gaglione, n.d.g.) in quanto quest’ultimo non accettava che lei avesse una relazione omosessuale. In questo caso rientriamo perfettamente nel concetto di femminicidio, anche se nel Codice Penale esiste solo l’omicidio – che può essere aggravato se si uccide una persona con la quale si ha o si è avuta una relazione, nel qual caso si travalica nell’uxoricidio».
La gelosia (citerei anche altri casi oltre al Gozzini) se immotivata fa presumere il ‘delirio’ e, quindi, l’incapacità di intendere e volere; altrove, in quanto ‘motivata’, ha fatto propendere per sconti di pena (come nel caso Felix Haidau/Carmen Saran). Com’è possibile, ai nostri giorni, che abbia ancora un peso giuridico favorevole all’accusato la cosiddetta ‘gelosia’?
S.W.: «Il diritto in generale – e la giurisprudenza – è qualcosa di vivo e imperfetto; fatto da uomini che, a volte, emettono sentenze nelle quali si ritrovano i retaggi dei giudici che le scrivono. Oltre al fatto che mi ha citato, mi viene in mente quello di un sessantatreenne condannato dal Tribunale di Monza a cinque anni per lo stupro della convivente e che poi ha ottenuto uno sconto di pena in appello perché la stessa aveva avuto una ‘condotta troppo disinvolta’ e, quindi, lui era stato esasperato da tale comportamento. Queste, secondo me, sono storture del sistema perché, effettivamente, o la gelosia si prova così invalidante da offuscare la mente di un soggetto; altrimenti – se è manifestazione di un istinto – non può che essere considerata futile motivo. E questo perché è l’intento punitivo quello che prevale nei confronti della vittima, ritenuta ‘colpevole’ di avere avuto una condotta non accettabile dal punto di vista del reo».
L’ultima domanda nasce da una sua sollecitazione a discutere del delitto ‘culturalmente orientato’. La Cassazione, a proposito, ha deciso che il sistema penale non possa mai abdicare “in ragione del rispetto di altre tradizioni culturali, religiose o sociali alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza tutelati dal nostro ordinamento”.
S.W.: «L’interesse della giurisprudenza per il delitto culturalmente orientato è quello di sancire che nessuna forma di rispetto possa comportare l’accettazione di condotte aggressive e la rinuncia ai diritti fondamentali – intesi come diritti inviolabili. Ogni caso, poi, va considerato a sé. Rammento un processo che ho seguito di un minore imputato di abuso su due fratellini, di madre diversa, minori. Il processo fu davvero complesso anche perché emerse che la seconda moglie stava separandosi e forse l’abuso era stato indotto dalla madre per fare pressione sul marito, andando a colpire il figlio maggiore. Ascoltando però quest’ultimo si era constatato che era stato, a sua volta, vittima di abusi da parte degli zii. Questo per spiegare che occorre leggere bene le carte dei procedimenti e le motivazioni delle sentenze perché tali casi sono davvero complessi e ricchi di sfumature difficilmente sintetizzabili. In ogni modo, le aule di giustizia devono essere uno sbarramento invalicabile di fronte a qualsiasi forma di ingerenza culturale, religiosa o sociale che possa o voglia diventare causa di giustificazione delle violenze. In parole povere, se un uomo si sente nel giusto a massacrare la figlia perché questa è la tradizione del suo Paese d’origine o fa parte dei suoi dettami religiosi, ciò non può e non deve essere accettato».
Pausa. Bevete un caffè, un thè o coccolatevi con una cioccolata. La seconda parte dell’inchiesta
vi attende con la testimonianza di una psicologa clinica e di una donna che ha vinto la sua, ma anche la nostra battaglia – non solo di donne ma di esseri umani.
Venerdì, 29 gennaio 2021
In copertina: Quanta strada abbiamo fatto… Foto di Free-Photos da Pixabay.