Con Rai Cinque, RaiPlay e RaiCultura.it perché copiare Netflix?
di Simona Maria Frigerio
L’universo distopico di Matrix ci sembra rappresenti bene un mondo che ormai stentiamo a comprendere e, giusto per specificare che non stiamo cominciando oggi, a gennaio 2021, a criticare l’idea della piattaforma della cultura voluta dal Ministro Franceschini (così da non essere accusati di voler affossare anche noi questo Governo), ricordiamo che ben nove mesi fa pubblicavamo questo pezzo https://www.theblackcoffee.eu/superare-la-paura-mantenendo-le-precauzioni/.
Ora che ItsArt è diventata, però, realtà e dobbiamo affidare, secondo IlSole24Ore, un finanziamento da 10 milioni di euro (come da Decreto Rilancio) – mentre Cassa Depositi e Prestiti avrebbe già “versato 6,2 milioni, di cui 5,7 come sovrapprezzo e 510 mila a titolo di capitale fondi pubblici” – a una neo impresa pubblico-privato costituita dalla succitata CDP e da una società denominata Chili Spa, le perplessità, se possibile, aumentano.
Da un interessante e approfondito articolo del collega Angelo Zaccone Teodosi (al quale rimandiamo per completezza https://www.key4biz.it/si-chiamera-itsart-svelato-il-nome-della-netflix-italiana-della-cultura/338417/?fbclid=IwAR3G2L6clFQnq8S3oNCxBxUwfjQyyqEnbsniJPFrxlGidtGNUyjB2Pu_COE), apprendiamo che non siamo i soli a chiederci come sia nata questa partnership. Soprattutto visto che ci risulta che nel settore pubblico si potrebbero fare affidamenti diretti, motivandoli, solo entro i 50 mila euro. Altrimenti, per trasparenza, equità e per rispetto delle regole della libera concorrenza, si dovrebbe ricorrere a un bando o una gara d’appalto.
Sul sito di Cassa Depositi e Prestiti leggiamo al riguardo: “Per la realizzazione e la gestione della piattaforma il MiBACT e CDP hanno avviato un’interlocuzione con la Rai e i principali operatori presenti nel mercato italiano, all’esito della quale è stata indetta una procedura competitiva aperta per l’individuazione del partner industriale” (questo, il 3 dicembre 2020). Ora, non ci sembra di aver letto alcunché, antecedentemente, sui principali mezzi d’informazione riguardo a tale procedura. Ossia, quando è stata indetta, si è data la dovuta risonanza affinché imprese diverse manifestassero interesse? Da una seppur limitata ricerca Internet (utilizzando le parole: ‘avvio procedura competitiva piattaforma cultura arte’) troviamo solamente notizie a ‘giochi fatti’ (ossia dopo il 3 dicembre), riportate da www.Ansa.it, www.Primaonline.it e www.editorialedomani.it (in un pezzo in cui si sollevano altresì alcune perplessità).
Non sappiamo nemmeno come mai la Rai – che ha già il canale Rai5 dedicato, la piattaforma RaiPlay e addirittura RaiCultura.it, “il portale con approfondimenti culturali su arte, letteratura, storia, filosofia, musica, cinema, teatro, danza e scienza” – abbia declinato la partnership e se lo abbia fatto, o quali altre realtà siano state consultate e in quali termini.
Di certo, solamente dopo la stesura dell’atto notarile per costituire la nuova società (come da articolo di Teodosi), “Agcm ha pubblicato…, sul proprio sito web, un «avviso di operazione sottoposta a valutazione dell’Autorità ai sensi dell’art. 16 della legge 287/1990»”, al quale le eventuali altre aziende interessate all’istituzione della società ad hoc dovevano opporsi entro il 30 dicembre – ossia, come specificato sul sito www.Agcm.it: “entro cinque giorni lavorativi dalla data dell’avviso”. La terza domanda che sorge spontanea è, quindi, se siano sufficienti solo 5 giorni e, per di più, durante le vacanze natalizie, per un’eventuale presa di posizione dei competitor e, ancora una volta, sulla pubblicità data all’operazione.
Mettiamo i piedi nel piatto
Aldilà delle spiegazioni alquanto pindariche sull’efficacia del logo ItsArt, con richiami all’italianità dei colori o a quella IT che dovrebbe evocare il nostro Paese – e che invece fa pensare alla povertà della nostra lingua incapace di partorire qualcosa in italiano comprensibile nel mondo (beati i tempi in cui esportavamo ‘melodramma’, ma anche ‘pizza’ e ‘pasta’) – qual è quel quid in più che questa piattaforma dovrebbe offrire al mondo della cultura e al turismo italiani ormai agonizzanti?
La premessa è che anche se la piattaforma fosse finanziata con tutti e 10 i milioni promessi col Decreto Rilancio, e altrettanti che paiono (da diverse fonti) dover essere conferiti dal MiBACT, i conti non tornano. Anche perché il succitato Teodosi puntualizza che Chili Spa non sarebbe una società in attivo e, infatti, leggiamo su www.Bebeez.it del 21 gennaio 2020 (testata giornalistica online “che fornisce informazioni aggiornate sulle aziende italiane partecipate da fondi di private equity, venture capital e da business angel” e a cui rimandiamo per l’articolo completo: https://bebeez.it/2020/01/21/aumento-capitale-64-mln-euro-la-piattaforma-distribuzione-film-chili-exit-dei-fondi-prevista-entro-2023-almeno-40-mln/) che “La piattaforma italiana di distribuzione di film Chili, ha chiuso un aumento di capitale da 6,4 milioni di euro,che è stato sottoscritto dai soci” (questo al 2020). E più oltre: “Che ci fosse bisogno di una ricapitalizzazione era evidente dai numeri di bilancio […]. Nell’anno, infatti, Chili aveva registrato una perdita netta di 19,1 milioni di euro, in peggioramento dopo la perdita di 7,7 milioni del 2017, sebbene il valore della produzione fosse salito a 30,3 milioni da 14,8 milioni nel 2017 e i ricavi netti a 28,5 milioni da 12,7 milioni, con un ebitda negativo per 15,8 milioni (da un ebitda negativo di 4,8 milioni), a fronte di una liquidità netta di 6,1 milioni, in netta riduzione dai 21,4 milioni del 2017 (fonte Leanus)”. Specifichiamo che l’ebitda è un acronimo in lingua inglese che designa il profitto dell’impresa prima di conteggiare interessi, tasse, svalutazioni e ammortamenti. Diciamo che Chili Spa non è un’azienda che navighi in acque troppo tranquille anche se non si può più considerare una startup visto che nasceva nel 2012 e che, attualmente, il settore delle piattaforme on demand offre un ampio bouquet di imprese e una altrettanto ampia offerta di prodotti.
Ma con 10 o 20 milioni si arriva lontano?
Partiamo da due dati inequivocabili.
I contributi del Fondo Unico per lo Spettacolo per danza, teatro, circhi e musica per il 2018 – come da documento ufficiale di Agcult.it dell’8 agosto 2018 – sono stati pari a 330.429.203 euro (di cui oltre la metà, 178.854.000 euro, elargiti alle Fondazioni lirico-sinfoniche). Nello stesso documento apprendiamo che al “Teatro vengono assegnati contributi per 68.300.129 euro. La flessione, in questo caso, è di circa il 4% in meno rispetto allo stanziamento previsto” e che “ai Teatri nazionali spetta un contributo totale di 11.980.012 euro”. E, quindi, se 2+2 fa 4, a tutti i teatri nazionali spettano la metà dei fondi che CDP e MiBACT destineranno a ItsArt. Ma non solo. L’Ex direttore del Teatro Nazionale di Genova, Angelo Pastore, in un’intervista del 2019 specificava che da solo, un teatro medio tedesco, percepisce circa 35 milioni di euro di fondi pubblici all’anno. In un momento di gravissima crisi del settore (già provato dal non adeguamento dei fondi al caro vita, se non da tagli) si vanno a finanziare soggetti altri, per rivitalizzare il settore in agonia?
Il secondo punto da tener presente è che i supposti 20 milioni di euro sono comunque briciole nel sistema televisivo e/o delle piattaforme on demand. Teniamo presente che al 30 giugno 2020 la Rai si è trovata con un debito totale di 275,9 milioni di euro (a fronte dei 239,1 milioni di euro del 2019). Nel bilancio semestrale si legge altresì che le previsioni non sono buone: la “prevedibile evoluzione della gestione, per quanto riguarda l’indebitamento finanziario di gruppo, registrerà, per effetto della contrazione delle entrate da canone e dalla pubblicità, una significativa crescita”. Proprio a causa di ciò, l’amministratore delegato, Fabrizio Salini, aveva proposto di accorpare Rai Storia e Rai Cinque. Anche perché, sempre da bilancio ufficiale (reperibile sul sito della Rai per intero) si nota che lo share giornaliero di Rai Cinque nel primo semestre 2020 (quando gli italiani erano chiusi in casa a causa del lockdown) era solo dello 0,38% – mentre nel 2019 raggiungeva lo 0,40%. In prima serata, nel 2020, si attestava sempre sullo 0,38%, mentre nel 2019 toccava lo 0,45%. A quanto pare agli italiani, teatro, arte e cultura in formato televisivo non paiono interessare granché nemmeno se non hanno alternative, oltre al fatto che esistono diversi canali anche sulla PayTv o su piattaforme digitali che offrono i medesimi contenuti. Proprio riguardo a ciò, un ultimo dato che si evince sempre dal bilancio semestrale della Rai, è che la digital audience in marzo toccava i 17.769 contatti unici, ma a giugno (appena è stato possibile uscire di casa e fruire in carne e ossa di cinema e teatri) si tornava sulla media pre-Covid di 12.062 contatti unici. Anche mobile e personal computer non paiono, al momento, poter competere con le varie forme di socializzazione e con la vita reale. In ogni caso, a fronte del bilancio in rosso, il Ministro Franceschini chiedeva di non depotenziare gli investimenti della tivù di Stato nel settore cultura (sebbene non si capisca perché un accorpamento debba per forza significare un depotenziamento) ma, nel frattempo, invece di aumentare i fondi per Rai Cinque progettava la futura Netflix in salsa italiana.
E aggiungiamo un’ultima considerazione: forse i bassi ascolti di Rai Cinque non dipendono solamente da un’offerta abbastanza vetusta e borghese bensì dal fatto che molti programmi culturali di maggior appeal, come i documentari da musei e siti archeologici di Alberto Angela, sono inseriti sui canali generalisti e sulla rete ammiraglia – lasciando ai canali tematici le briciole e materiali d’archivio. La Rai, forse, dovrebbe decidere se continuare a puntare sulle reti generaliste o fare finalmente una scelta tematica convinta.
E adesso guardiamo ai numeri di questa Netflix, tanto citata dal Ministro Franceschini. Secondo la pagina economica di www.repubblica.it, il bilancio del 2019 del colosso statunitense vantava numeri da capogiro: un fatturato di 5,47 miliardi di dollari, quasi 160 milioni di abbonati in 190 Paesi al mondo. Ma cosa offre? Serial, innanzi tutto, in esclusiva, calibrati con il bilancino per ogni fascia di pubblico (gay lesbiche trans ed etero, under o over, di ogni etnia, diversamente abili o normodotati, più anti che eroi, più contro che al servizio della legge, e così via. Con l’acceleratore sempre più spinto su contenuti violenti, situazioni borderline, horror & fantasy; sesso (molto) droga (anche) e rock’n’roll – come si diceva una volta. Non mancano i blockbuster, oltre a qualche film di qualità ma di sicuro appeal, in quanto vincitore degli Oscar o che abbia fatto davvero scalpore. Un coacervo patinato di stereotipi made in Us in cui ormai si è passati dal professore spacciatore di Breaking Bad a un Pablo Escobar anti-eroe tragico in Narcos. Aldilà della qualità tecnica soprattutto a livello di foto/scenografia, delle regie spesso affidate a chi sa il fatto suo e della furbizia degli sceneggiatori, diremmo che vincere la partita degli ascolti, soprattutto in una certa fascia d’età (20/40), con questi contenuti pare abbastanza scontato.
I contenuti di ItsArt supereranno lo share dello 0,38% di Rai Cinque?
I nostri dubbi aumentano quando leggiamo questo annuncio sul sito di ItsArt: “Per inviare proposte di contenuti, eventi e manifestazioni culturali scrivere a content@itsart.tv” – un annuncio che rimanda più agli spot per i telespettatori di Italia Uno che a una tivù con contenuti culturali che voglia creare un palinsesto talmente appetibile da raccogliere milioni di abbonati in tutto il mondo.
Cosa si vuole fare? Partire da una linea editoriale precisa e forte? Oppure dal materiale di repertorio (che però a Chili Spa mancherebbe e, a tal proposito, ci chiediamo se sia stato consultato L’Istituto Luce in tutta questa operazione). Al contrario, sembrerebbe che si rischi di essere sommersi da materiali amatoriali che chiunque può inviare, magari di pessima qualità, a metà strada tra la pubblicità delle emittenti locali e la festa di paese, ma che daranno di che lavorare a coloro che saranno preposti al vaglio e poi alla programmazione. Materiali che, messa così, non si capirebbe chi vorrebbe vedere a pagamento.
Ora, fare riprese di qualità, con squadre di tecnici competenti su tutto il territorio nazionale, di spettacoli teatrali, di musica o danza, dedicati ad artisti, eventi e musei, oltre che al nostro patrimonio archeologico e alle bellezze paesaggistiche; sottotitolare e doppiare; ideare e produrre programmi validi e innovativi con presentatori e critici; inventarsi format anche diversi, più accattivanti, per la fascia 20/40, che è usa ai nuovi mezzi tecnologici, come cartoon (pensiamo all’esperienza in questo senso del Museo Archeologico di Napoli), documentari in esclusiva, e persino serie televisive e – visti gli indici di ascolto – quiz culturali con contorno di premi, e tanto altro, abbisogna di competenze non solamente in campi molto diversi ma anche di maestranze, tecnici, professionisti e fondi a diversi zeri.
Certo non si potrà pensare di far funzionare la piattaforma con materiali forniti direttamente dai produttori dei contenuti – anche perché pochissimi tra di loro avrebbero le risorse necessarie (e le esperienze online degli ultimi mesi hanno dimostrato come il teatro, nel suo complesso, sia assolutamente impreparato di fronte a tale format). Ma se l’idea fosse questa, non si creerebbe una linea editoriale solida e si dovrebbero comunque ricompensare economicamente teatri, case cinematografiche, enti lirici, musei e tutti gli altri produttori di contenuti – indipendentemente dalla qualità (a quel punto alquanto aleatoria).
E qui il gatto si morde la coda: per ottenere uno share in grado, magari, di attirare pubblicità (in un momento in cui persino la Rai paventa drastiche diminuzioni delle entrate) e un numero di abbonati sufficiente a gestire una tale macchina, i contenuti devono essere all’altezza, o addirittura migliori, di quelli dei competitor (e abbiamo visto che Rai Cinque, pur con tutti i suoi limiti, non tocca nemmeno lo 0,40% di share) e, quindi, gli investimenti dovrebbero essere ingenti. Ma può lo Stato decidere di investire su un nuovo soggetto per lanciare dei settori che avrebbero bisogno loro, in primis, di avere maggiori fondi? Sono stati consultati i direttori dei musei, gli esercenti cinematografici, le case di produzione, i direttori dei teatri, i presidenti delle fondazioni, i registi e gli attori, le associazioni di categoria, insomma i lavoratori del mondo del turismo e dello spettacolo?
Se lo vedi dal divano, perché alzarti?
Tutto questo dispendio di risorse (che, in ogni caso, sarebbero limitate) a cosa dovrebbe servire? A far capire al mondo che l’Italia è bella e va visitata? Visti i numeri del nostro turismo pre-Covid, credo sia abbastanza palese che il mondo lo sappia già. I nostri musei sono stati per anni un fiore all’occhiello – ben prima che l’assessore alla cultura di Firenze, Tommaso Sacchi, pensasse di trasformarli in infermerie per le vaccinazioni (come da articolo di www.lanazione.it). I nostri siti archeologici non hanno bisogno di presentazioni (magari di maggiore cura, ma non certo di orde di turisti ancora più opprimenti di quelle che si vedono, ad esempio, in coda agli Uffizi o a Pompei nella calura agostana). I nostri teatri avrebbero bisogno di fondi e di nuove idee, soprattutto di un serio ricambio generazionale ai vertici – a mezzo bando pubblico europeo. La musica necessiterebbe di essere valorizzata in toto, e non solamente la classica con contorno di melodramma ormai un po’ stantio. E il cinema dovrebbe tornare un’industria, in un Paese che ne ha fatto la storia fin dai tempi dell’Ambrosio Film e dove oggi è quasi impossibile distribuire una pellicola che non sia un blockbuster a stelle e strisce. E così via.
C’è bisogno di coraggio, soprattutto a teatro: di assumere i tecnici a tempo indeterminato; ospitare e finanziare anche artisti e compagnie indipendenti; offrire vere residenze e contratti onesti; puntare sulla contemporaneità e uscire da logiche meramente di botteghino; creare progetti per il territorio e partnership internazionali; fornire piattaforme di servizi (dagli uffici stampa alla contabilità passando per la distribuzione) a chi non può assumere il singolo professionista; creare delle aree virtuose in cui lavorino insieme musicisti e ingegneri, drammaturghi e scenografi, filmmaker e fotografi, danzatori e intellettuali, coreografi e artisti intermediali (come in alcuni Paesi Nordeuropei); e, soprattutto, di riconoscere il lavoro creativo quale lavoro tout-court con garanzie di reddito anche nei periodi di non occupazione o studio e ricerca.
Ma se offriremo un polpettone dei soliti noti – gli unici che potranno fornire riprese di qualità a ItsArt – a chi gioveremo? Quale sarà il ritorno anche per lo stesso Teatro Nazionale se il suo debutto si polverizzerà in una messa in onda on demand? E se i turisti, alla fine, si accontentassero di vedere le nostre coste e i nostri siti archeologici seduti in poltrona? Se avere tutto a portata di clic causasse un tracollo totale del sistema culturale e del turismo italiano? È notizia di questi giorni che Tui Italia, con sede a Fidenza, cesserà di operare dal prossimo 15 marzo. Il tour operator tedesco cancella il brand italiano. Un pessimo segnale.
Invece di preoccuparsi degli abbonati a una piattaforma digitale che arricchirà solamente chi vi parteciperà – e non il comparto, a meno che CDP e MiBACT assegnino poi eventuali ricavi ai settori turismo e cultura – dovremmo forse occuparci di un riavvio in tempi strettissimi di tutte le attività economiche. Può essere che non se ne siano accorti nei palazzi del potere – e nemmeno nei mass media dove si guarda alla stabilità invece che ai contenuti del Governo – ma siamo ormai à bout de souffle.
Venerdì, 15 gennaio 2021
In copertina: Matrix. Foto di Gerd Altmann da Pixabay.