Un Natale senza i Cupiello ma con Il sindaco del Rione Sanità
di Simona Maria Frigerio
Quando il film di Mario Martone uscì nelle sale cinematografiche mi fu impossibile vederlo: i limiti della distribuzione nelle multisale ne fecero una delle tante, troppe pellicole che difficilmente vanno oltre i tappeti rossi e le sfilate di vip e pseudo tali che scandiscono i festival – ormai più vetrine autopromozionali che parterre di dialogo culturale e, soprattutto in questi tempi, confronto sui limiti e la crisi evidente del cinema di qualità.
Per fortuna ‘mamma Rai’, per una volta, ha svolto il ruolo di servizio pubblico ripescandolo dal dimenticatoio e presentandolo in prima serata il 17 dicembre sui Rai3, sì da proporre un’opera di De Filippo meno nota al grande pubblico e, grazie a una serie di scelte registiche e interpretative, per nulla oleografica e scevra da qualsiasi ‘eduardismo’ (non altrettanto si potrà dire per Natale in Casa Cupiello del 22 dicembre con Sergio Castellitto nel ruolo di Lucariello, fuori parte quanto Francesco Manetti nella trasposizione teatrale targata Latella: https://teatro.persinsala.it/antonio-latella-quando-less-is-more/35244/amp/).
Eduardo prima di diventare l’icona di sé
Eduardo era un autore scabroso e non riconciliato, demistificatore della sacralità della famiglia, anche senza usare gli artifici e orpelli di un Latella nel succitato Natale in Casa Cupiello. Già nel 1931 aveva il coraggio di accusare, ad esempio, Lucariello e Concetta di essersi venduti la figlia perché la sicurezza economica vale più di un affetto sincero. Ma De Filippo era altresì il fine ragionatore (di un’epica à la Brecht) e il filosofo del corpo, quello fatto di carne e sangue e non di dietrologie da intellettuali – come dimostra, più della celebre battuta finale di Gennaro Iovine alla moglie Amalia in Napoli Milionaria: “Ha da passa’ ‘a nuttata”, l’icastica: “Si ‘a guerra se perde l’ha perduta ‘o popolo; e si se vence, l’hanno vinciuta ‘e prufessure”. Eduardo era lo scomodo demistificatore della miseria di un sistema socio-economico che atterrisce anche le migliori intenzioni e gli affetti più autentici, come in Questi fantasmi: “Cu’ ‘a panza vacante, Mari’, ‘e sense se perdeno… Giulietta e Romeo dovevano essere ricchissimi, se no dopo tre giorni se pigliàveno a capille”.
Mario Martone e Francesco Di Leva (nel ruolo di Antonio Barracano) lo sanno bene che Eduardo è quella cosa lì: la coscienza civile di Napoli, di una città/mondo che, come il palcoscenico, parafrasando il celebre aforisma sul teatro di Eduardo, permette di “vivere sul serio quello che gli altri recitano male nella vita”. E allora non occorre inventare niente perché le parole di Eduardo contengono in se stesse verità che, come quelle di Shakespeare, Pirandello, Molière o Euripide, attraversano il tempo e lo spazio attingendo all’autentica natura umana (con buona pace di tutti quei benpensanti che non hanno mai considerato De Filippo più di un commediografo neorealista o post-verista o che, leggasi sempre Latella, per far risaltare la parola devono appiccicarci le didascalie).
Al contrario, ogni frase in Il sindaco del Rione Sanità, come in quasi tutti i suoi testi, distilla un universo antropologico che è ferocemente ancorato non a Napoli, bensì a quella città/teatro che, come racconta Claudio Ascoli in Napule ‘70 (intervista e libro di Matteo Brighenti), “è il luogo delle rivoluzioni mancate, perché è una città che ha difficoltà a progettare”.
Napoli palcoscenico d’Italia, di un Paese che ha perso la bussola negli anni 60 inseguendo sogni abortiti dal boom economico per finire con il fallimento della giustizia, le pastoie della burocrazia, l’evasione fiscale eletta a tricolore, la collusione e il familismo che inquinano ogni rapporto. E non è un caso che Martone non indugi sulla città partenopea (tra l’altro, lontana dalla solarità da cartolina turistica, piovosa e grigia come una Milano ottobrina), perché non si indugia sulle assi o sul sipario – simili in qualunque teatro e in ogni piazza – ci si focalizza sui protagonisti dell’azione.
Eduardo si chiedeva allora, nel 1960, come raddrizzare la bilancia della giustizia. E rifiutava l’idea che un solo uomo potesse essere la risposta – anche se, dopo aver subito un torto ed essersi vendicato, aveva imparato come sia facile manipolare quella stessa giustizia non come una lezione da ripetere bensì da contestare. La risposta, per De Filippo, doveva e deve essere collettiva. La risposta era – ed è – denunciare e pretendere giustizia, dalla legge degli uomini (al plurale). Non è un caso che Martone faccia morire Don Antonio Barracano a scena aperta, protagonista della tragedia andata in scena – come Amleto o Bruto – eppure scegliendo di non concentrare l’attenzione degli spettatori né di accendere i riflettori su di lui. Il protagonista si spegne nell’ombra – è la società che deve raccogliere il testimone per agire collettivamente: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”, insegnava Brecht ed Eduardo/Martone con il: “Speriamo che col tempo non ci sia più bisogno di un Antonio Barracano” introiettano la lezione marxiana rifiutando l’uomo che si erge a giudice giuria e boia, e – stilisticamente – rifiutando i canoni della tragedia classica per aprire a una drammaticità moderna ben più corrosiva.
Il mondo che ci consegna Eduardo è lo stesso che ripercorrono Martone e Di Leva, senza scadere nel neorealismo, ancora una volta di maniera e con l’aggravante di un certo kitsch patinato, come nelle serie Gomorra e Romanzo Criminale. E non è nemmeno il caso di citare la vera e propria camorra per il personaggio di Barracano (che, al contrario, è protagonista sottintesa di Hamlet Travestie firmato da Punta Corsara), dato che i legami e i pesi indagati sono, da una parte, atavici ma, dall’altra, trasversali a tutte le epoche storiche – quali il bisogno di sicurezza o, al contrario, di vendetta; la fedeltà a un uomo o a un’idea; la possibilità di una rivoluzione solo nel momento in cui entra in crisi il potere costituito e il sistema sociale che su quel potere pone le basi e si regge.
A ritmare questo palco/mondo, il rap partenopeo, che ci ha regalato tanti gruppi che hanno raccontato un’intera generazione di sognatori, dai 99 Posse a oggi. E anche in questo si nota come l’attualizzazione di Martone e Di Leva sia precisa, mai forzata. Cosa si cantava in un basso 60 anni fa? Cosa si ascolta oggi? Basta questo semplice raffronto per restituire il significato attraverso un significante altrettanto potente e pregnante.
In queste feste natalizie blindate, dove l’essere umano, animale sociale per antonomasia, ha sacrificato la vita sull’altare di una falsa sicurezza, Il sindaco del Rione Sanità sembra ricordarci che nessuno si salva da solo: “Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile”.
Venerdì, 25 dicembre 2020
In copertina: la locandina del film, Il sindaco del Rione Sanità.