Canto di Natale
di Simona Maria Frigerio
A me atea materialista il presepe mi piace. Mi piace perché ci sei dentro tu. Il mio nonno. Con quel possessivo che significa proprio mio, in esclusiva, tu e io nella nostra palla di vetro trasparente, che ci escludeva dal mondo, ci preservava dagli urti della vita, ci teneva accoccolati al caldo quando i vecchi caloriferi che avevamo ridipinto per l’ennesima volta, durante l’estate, sbuffavano e si spegnevano e gli infissi di legno scorticati dagli anni lasciavano filtrare il gelo umido e tagliente del Giambellino.
A me piace ‘o presepe anche se per farlo dovevi lottare contro la nonna, e la mia mamma, e la zia, e tutte quelle donne-galline che infestavano il nostro pollaio con le loro strilla perché tu mettevi tutto a soqquadro; perché andavi per settimane al mercato del giovedì a raccattare casse di legno da spaccare per ricavarne le assi che ti servivano a montare l’incastellatura del presepe. E poi per giorni segavi e i trucioli riempivano l’aria saturandola di polveri dorate al sole freddo e opaco dell’inverno – una nuvola alla quale contribuivo io pure con quei batuffoli di ovatta che, per aiutarti, spargevo come neve candida sul vecchio albero di natale, rinsecchito e polveroso, di una plastica misera, sul quale il grigio del solaio aveva intessuto ragnatele untuose a copertura del verde consunto.
L’emozione, ogni anno, era andare in cerca di carte nuove, che risuonavano fruscianti tra le mani. Quella blu di Prussia con le stelle dorate per il cielo, quella crespa di un verde intenso per i prati e poi la carta da pacco, pesante, di un nocciola striato che per ore plasmavi fino a darle la forma di quei monti dai quali – chissà perché – dovevano scendere a valle i pastori; che i magi, il 6 gennaio, avevano da attraversare sui cammelli per portare al bambino oro, incenso e mirra. Mirra: parola magica che mi evocava profumi sconosciuti, mentre l’incenso, quello del turibolo in chiesa, sapevo come puzzava, come mi saliva agli occhi pungente – e come tu me ne preservavi tenendomi a casa, la sera della vigilia, a giocare coi pastori e il bambinello.
Ricordo com’era bello quando mi mettevi le statuine in mano. Tante vecchie, un po’ sbeccate, rincollate, qualcuna con ritocchi a pennarello (i miei Giotto, talmente consumati che puzzavano di alcol lontano un miglio); e qualcuna nuova, che avevamo scelto con cura all’Upim tra tante: tutte bellissime, con la loro storia unica, quel personaggio psicopompo che ci traghettava verso la Palestina, le dune con la sabbia, le palme e il sole rovente – tutto quel mondo sconosciuto che tu non avevi mai visto, che io avrei inseguito, errante (s)radicata (d)al Giambellino, tutta la vita.
Che goduria quando mi incoronavi regina del presepe: mi mettevi lì, proprio in mezzo alla valle, io col mio kilt che mi aveva regalato la zia ‘piede lungo’, a decidere dove stava la lavandaia e dove tu avresti fatto scendere l’acqua dal monte; dove avremmo sistemato il pollaio cosparso delle piume rubate a qualche gallina spennata dalla nonna per il brodo; e dove la stalla con quella lucina che ti piaceva sempre illuminasse le grotte. E poi c’erano il falegname (che, forse, faceva concorrenza a Giuseppe), la filatrice e gli zampognari – il massimo dell’incongruenza, ma allora tutto mi sembrava avesse un senso perché c’eri tu. Io distribuivo, come una dea, una primadonna, una regista dispotica i personaggi su quella scena che tu avevi creato per me, per noi, e a noi non ci importava delle rampogne, dei «papà, ma ti devi riguardare, il tuo cuore…». Il tuo cuore batteva accanto al mio: erano loro quelle che non lo sentivano.
E il gran finale erano le lucine. Ce n’era sempre qualcuna fulminata. Le campanelline colorate che tu riparavi con quelle mani grosse e sgraziate, una per una, e poi andavi di nastro isolante per rammendare i fili elettrici rosi dal tempo e dai topi. Perché al Giambellino i topi c’erano. Su in solaio e, di più, giù in cantina e una volta anche a casa nostra con gran scompiglio delle donne – munite di scopa, ramazza e ciabatte – che urlavano a un topolino più spaventato di loro. E io ridevo. E tu ridevi con me.
A me piace ‘o presepe, come a Proust piaceva la sua aristocratica Madeleine. Quanta strada da quel presepe; dalla nonna che passava la giornata a preparare il cenone della Vigilia; dal capitone che una notte scappò sotto la poltrona del soggiorno, come in Natale in Casa Cupiello; dalle mutande stese sui caloriferi insieme alle bucce di mandarino; dalla tazza di caffelatte col pane del giorno prima che m’imboccavi a cucchiaiate, con una favola sempre uguale eppure sempre diversa; dalla confusione dei figli e dei nipoti che si intrufolavano nella nostra intimità; dal fuori nebbioso e umido che premeva da ogni lato ma al quale ci opponevamo strenuamente col nostro amore.
“Tutto quel tempo così lungo non solo era stato, senza una sola interruzione, vissuto, pensato, secreto da me; non solo era la mia vita, non solo era me stesso; ma… dovevo tenerlo ogni minuto attaccato a me, ché mi faceva da sostegno; a me che, appollaiato sulla sua sommità vertiginosa, non potevo muovermi senza spostarlo” (liberamente tratto da Le temps retrouvé, Marcel Proust, t.d.g.).
Venerdì, 25 dicembre 2020
In copertina: Autofinzione. Chi è quella bambina?