La tivù non va mai in lockdown?
di Simona Maria Frigerio
Più o meno tutte le categorie, in questi mesi, sono state gravemente messe in crisi dal Covid. La sanità (a causa della mancanza di investimenti sia nel passato sia nel presente) e la cultura (data la scarsa rilevanza secondo una classe politica che rasenta l’ignoranza), in primis, ma poi turismo, beni di lusso, arredamento, made in Italy, agroalimentare, ristorazione, cura del corpo, sport, cinema e così via. Quasi ogni settore è in stato di crisi (mentre i politici e i giornalisti si preoccupano di quella politica invece che di quella economica) tranne uno. La tivù. Imperterriti, i talk show di propaganda, i reality degli pseudo-talenti e i giochi a premi per un’Italietta sull’orlo di una crisi di nervi sono andati avanti incuranti della realtà che ci circonda e della pochezza di arricchimento umano e culturale elargito ai cittadini/utenti dai loro prodotti.
A contorno, invece di qualche film magari da cineclub o firmati da giovani registi che non riescono a evadere dai festival per essere distribuiti, il trash all’italiana, i film di arti marziali in serie, i blockbuster targati anni 90 o primi 2000, i cosiddetti film d’azione a stelle e strisce, i western da cinemascope e quelli catastrofici – con predilezione per le epidemie, guarda caso. Ciliegina sulla torta i vari Law and Order con contorno di spin-off su più reti contemporaneamente – in concorrenza con il Premier in versione ‘a reti unificate’. Oltre al sempreverde Colombo.
Premessa. Peter Falk è stato un eccellente attore, interprete di alcuni capolavori della cinematografia, quali Mariti, e Una moglie, entrambi con la regia di John Cassavetes (con il quale tornò anche a collaborare) oltre a Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders – e magari la tivù riproponesse i suoi film, viene da pensare. Purtroppo la scelta ricade sempre sul serial che fu indubbiamente un successo per l’epoca e che regalò al piccolo schermo una figura di detective sui generis, ma che ormai mostra le corde.
Quel qualcosa insopportabile
La zecca Colombo è sempre stata abbastanza urticante con la sua insistenza ma, rivedendolo dopo anni, sono altre le incongruenze, le cadute di stile o le pecche che ne dimostrano ormai gli inguaribili limiti. In effetti, se è vero che il comico ha bisogno di ritmi e agganci precisi con quanto ci circonda, altrettanto vero è che ogni genere – ma il giallo in particolare (che si radica sempre nella realtà) – ha la necessità di stare al passo con i tempi. Una tra le incoerenze più vistose è la presenza in più puntate dello stesso interprete nei panni di un diverso assassino. Repetita iuvant ma non in questo caso. Da quanto abbiamo potuto verificare Patrick McGoohan guida la lista con ben quattro presenze, Robert Culp e Jack Cassidy tre, mentre George Hamilton e William Shatner si sarebbero accontentati di due. Ricordiamo anche Robert Vaughn che, pur partecipando a due episodi con ruolo diverso, solamente in uno ha vestito i panni dell’assassino – così come Ray Milland, colui che fu il protagonista de Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock. Ma potrebbero esserci sfuggiti altri nomi.
A livello linguistico, una tra le parole più fastidiose e che ‘il nostro’ ripete quasi ossessivamente è ‘signorina’ – con quell’ina dei tempi in cui una donna sembrava acquisire l’adultità solamente con il matrimonio. Ma le battute maschiliste si sprecano. Una, in particolare, Colombo la fa all’assistente di un’avvocatessa interpretata da Lee Grant (che si rivelerà colpevole di uxoricidio), quando gli chiede come possa – in quanto maschio – avere una donna per capo e se questo non lo infastidisca (l’episodio è Riscatto per un uomo morto).
Anche la figura della signora Colombo sarebbe da sottoporre all’esame di un sociologo – o meglio, di uno psichiatra dato che, a differenza della signora Maigret, qui ci si trova di fronte a un chiaro esempio di mitomania. Colombo, a seconda degli episodi, ha o non ha figli, la moglie è un’ottima o una pessima cuoca, che coltiva diversi interessi fuori casa o è sempre presa con i succitati bimbi fantasmatici, e così via. Mentre il cane – di nome ‘cane’ – è il prototipo in chiave comica di quella serie ammorbante di cani che accompagneranno vari detective e dei quali, forse, il rappresentante più famoso in Italia è Rex.
Comunque, ciò che convince di meno è la prova, ossia la scoperta illuminante alla quale giunge Colombo dopo un estenuante numero di domande e che dovrebbe essere talmente incontrovertibile da mettere sempre l’accusato con le spalle al muro. E ancor meno accettabili sono le tecniche di elusione che mettono in atto i criminali. Pensiamo all’uso del telefono, in tempi in cui non si poteva rintracciare da dove provenisse la chiamata. O le scoperte di Colombo in fatto di doppie linee telefoniche in casa dei sospetti – grazie a una spia luminosa fulminata su un apparecchio di plastica in stile Sip – o dei nastri per i prototipi delle segreterie telefoniche, il cui funzionamento è spesso mostrato al nostro detective dagli stessi colpevoli con un’ingenuità naïf – o con la zelante sollecitudine di un venditore porta a porta degli anni del boom economico. Ancora meglio, in Doppio shock non si comprende come facciano a ereditare dalla morte dello zio i due nipoti, dopo che è stato reso pubblico un testamento nel quale il defunto lasciava tutto alla fidanzata. Morendo anche questa, come fanno a intascare il maltolto i succitati nipoti assassini? Dovrebbero essere gli eredi (genitori, fratelli/sorelle o parenti) della fidanzata a pretendere quanto da lei ereditato. Le pecche nelle sceneggiature di Colombo, qui come in altri episodi, si allargano fino a diventare crepe.
Ma in tempi pandemici, in cui siamo ridotti a numeri, da rimpinzare di cibo o intossicare di ansiolitici e vitamine, è meglio assopirci la mente con telefilm tanto innocui quanto vetusti e, intanto, un anno della nostra vita – che nessuno potrà mai restituirci – se ne va.
Venerdì, 18 dicembre 2020
In copertina: Foto di P. Tate da Pixabay.