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di Simona Maria Frigerio
In questi giorni ha fatto discutere il messaggio social di Laura Pausini, diretto contro Armando Maradona: “In Italia fa più notizia l’addio di un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone, ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l’addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate”.
La ‘colpa’ del campione argentino, amato a Napoli come a Cuba, sarebbe stata l’aver ‘osato’ morire il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – il che, al contrario, visto l’alto numero di ricorrenze annuali indette dalle Nazioni Unite, indicherebbe solo quanto sia difficile trovare una data libera per spirare, senza controversie sulle priorità. Siccome, però, non si vuole far pubblicità alla cantante italiana e persino chi non apprezzi il calcio (come me), non potrà che inchinarsi di fronte alla maestria tecnica e alla fantasia artistica del pibe de oro – oltre che alla sua sincera presa di posizione contro i poteri forti di un mondo quanto mai opaco come quello del pallone – ci piacerebbe spostare la discussione su un altro piano.
Quanti divi o artisti, scrittori o sportivi, personaggi famosi di ieri e di oggi, scesi da palchi e tribune, spenti i riflettori, posata la penna o abbandonato il pennello, e rivestiti i panni umani, sono all’altezza del loro genio? Ed è corretto chiedere a chi, in ogni caso, ci regala già tanto, di essere migliori di noi – “vivi o morti x”, come canta Ligabue – che, in fondo, senza nemmeno scrivere un capolavoro o girare un film culto o incantare le platee con la nostra voce, cadiamo e ci rialziamo, sbagliamo, feriamo e restiamo feriti – come i nostri idoli – ma lontani dallo sguardo di estranei (a meno di non voler esibirci in qualche reality), che pretenderebbero, da noi, una perfezione che nemmeno loro possiedono?
L’Ottocento e la pruderie piccolo borghese
Chi non ha riso sotto i baffi di fronte alla logica infantile eppure inoppugnabile di dialoghi come: «Allora dovresti dire quello a cui credi», riprese la Lepre Marzolina.
«È quello che faccio», rispose subito Alice; «almeno credo a quello che dico, che poi è la stessa cosa».
«Non è affatto la stessa cosa!» disse il Cappellaio. «Scusa, è come se tu dicessi che vedo quello che mangio è la stessa cosa di mangio quello che vedo!».
Charles Lutwidge Dodson, meglio noto come Lewis Carroll, l’autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, fine conoscitore della psicologia infantile e fantasioso autore di libri per bambini (che, forse non a caso, hanno ispirato film per adulti, come l’allucinogeno Alice in Wonderland della Walt Disney), al pari di Wilhelm von Gloeden – autore di un’Arcadia iconografica di giovani fauni post-puberali (ma non maggiorenni) – fotografò e collezionò immagini di deliziose Alici che egli ‘amava solo esteticamente’. Altri tempi e altri costumi ma ciò che forse fa specie, oggi, non è l’attenzione di Carroll per il suo personale gineceo, bensì che la società vittoriana che era, sì, condiscendente con tali preferenze, condannò l’omosessuale Oscar Wilde a due anni di lavori forzati. A noi, resta il caleidoscopico Paese delle Meraviglie.
Nella stessa epoca, in una Londra fumosa dove l’industrializzazione e il capitalismo stavano mietendo polmoni e sogni, Charles Dickens raccontò le contraddizioni di un sistema socio-politico che sfruttava il lavoro minorile – e costringeva tanti, troppi a trasformarsi in tagliaborse per sopravvivere – nelle avventure di Oliver Twist o di David Copperfield, denunciando nel contempo l’ipocrisia della cultura vittoriana e l’intrinseca ingiustizia del nuovo sistema di produzione. Eppure, quello stesso, magnifico autore che univa humour nero a critica sociale, allontanò – pare senza molti riguardi – la moglie Catherine, dopo 22 anni di matrimonio e ben 10 figli. Nei successivi dodici anni si dice che abbia comunicato con lei solamente tre volte, per iscritto.
Il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, i cui insegnamenti per decenni hanno pesato sulla vita delle donne – internate, costrette, e sottoposte a un’analisi che avrebbe dovuto ‘curarle’ dalla cosiddetta isteria – ma che scrisse anche passaggi illuminanti in Al di là del principio di piacere, nella vita probabilmente aveva pulsioni alquanto contrastanti. Alcuni anni fa, in effetti, il New York Times produsse i documenti relativi alla permanenza di Freud e Minna, la sorella della moglie (ossia la cognata, convivente con i coniugi), in un hotel svizzero. E così il cosiddetto ‘pettegolezzo junghiano’ divenne improvvisamente realtà – ‘al di là del bene e del male’.
E chiudiamo il breve giro di danze nel secolo lungo (Eric Hobsbawm docet) in Francia, là dove Marcel Proust vergò le pagine del suo capolavoro, quella Recherche che, tuttora, è sinonimo di memoria involontaria per una Madeleine. E se per alcuni, grazie soprattutto all’interpretazione dell’affascinante Jeremy Irons nel film di Volker Schlöndorff, sarà Swann il personaggio emblematico di quei sette libri, per chi abbia letto il romanzo fiume, è Albertine a colpire l’immaginazione, l’amata dal Narratore (alter ego dello stesso Proust), colei che fugge dall’amante, geloso fino all’ossessione, per mantenere la propria integrità, scomparendo nella morte, e facendo sprofondare l’uomo in una melanconia nostalgica che lo condurrà all’oblio (vinto, nel magnifico finale, da una Madeleine). Ma chi era Albertine? Secondo esegeti e storici, molti suoi tratti e la sua stessa fuga con conseguente morte rimandano ad Alfred Agostinelli, autista e pseudo-segretario di Proust, che fu oggetto di un’autentica ossessione da parte dello scrittore (tra i massimi di tutti i tempi), tanto da dover fuggire e del quale si libererà definitivamente solo grazie alla morte – causata da un incidente aereo. Ma noi non resteremo mai soli, in quanto avremo per sempre la compagnia di Saint-Loup e Odette, Charlus e Madame Verdurin.
Le voci e i corpi indimenticabili
“Strange fruit hanging from the poplar trees” (https://www.youtube.com/watch?v=Web007rzSOI), strani frutti appesi ai pioppi – ossia i giovani neri linciati e impiccati dal Ku Klux Klan, corpi a penzoloni nel Sud degli States arso dai roghi e dall’odio razziale. Erano gli anni 30 del Novecento: un nero poteva cantare di fronte ai bianchi nei jazz club di Harlem, ma doveva entrare dall’ingresso posteriore e doveva esibirsi – mai godere delle esibizioni. La voce rotta e dolorosa, che avvolgeva il pubblico, che recitava il dramma della vita – la sua e quella di tutti gli afroamericani – irradiata dai tizzoni ardenti dei suoi occhi e da una gardenia candida, era quella di Lady Day. La coscienza politica di un potere nero ancora di là da venire, crisalide artistica di vibrazioni che assurgeranno a consapevolezza anni dopo, con Jimi Hendrix o Fela Kuti. Billie Holliday morirà ammanettata a un letto d’ospedale. Piantonata. Eroinomane. Alcolizzata. Perseguitata da un’America puritana che non avrebbe accettato il matrimonio interetnico (interrazziale) fino al 1967.
Keith Richards è tra le poche star che non si sono mai dipinte meglio dell’originale. In Life (autobiografia scritta a quattro mani con James Fox, pubblicata in Italia da Feltrinelli) è suo figlio Marlon a raccontare: “A volte restavo alzato fino alle 5 del mattino, e poi dormivo fino alle 3 del pomeriggio. Era tutto modellato sulle abitudini di Keith”. Richards, nel ‘76, era sempre ‘strafatto’ e l’unico autorizzato a svegliarlo era il figlio – anche perché persino gli uomini della sicurezza lo temevano sapendo che teneva “una pistola sotto il cuscino”. Di conseguenza, il bambino/‘badante’ (come lo appella lo stesso padre) a soli sette anni dovette seguirlo nel tour europeo. Era Marlon a occuparsi del compositore che scrisse (con Mick Jagger) brani indimenticabili, come Angie (https://youtu.be/aVLBF-UKevY) e Sympathy for the Devil (https://youtu.be/Jwtyn-L-2gQ).
Il volto dell’America anti-maccartista – e poi progressista – fu sicuramente Spencer Tracy, che incarnò quegli ideali in film come Indovina chi viene a cena? (il suo ultimo, terminato pochi giorni prima della morte, incentrato sul tema delle coppie interetniche e datato 1967, ossia nello stesso anno in cui una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti definì, finalmente, incostituzionali le leggi anti-meticciato); ma altresì in Prigioniera di un segreto (pellicola anti-fascista e contro il suprematismo bianco) e in Lo stato dell’Unione (una denuncia sull’uso dei mass media per ottenere il consenso di pancia dell’elettorato, per la regia di Frank Capra). In ognuna di queste pellicole (e in altre sei), accanto a lui c’era la compagna di una vita, Katharine Hepburn – che però non fu mai ufficialmente tale. Hollywood e la morale cattolica di Tracy, sposato e padre di due bambini, lo impedivano. La Hepburn, donna volitiva e femminista ante litteram, che imponeva alle costumiste di disegnarle completi a pantalone anche per il set e fu di ampie vedute sulle relazioni personali ma altresì all’avanguardia in fatto di diritti civili, non se la sentì nemmeno di partecipare al funerale dell’uomo al quale dedicò 26 anni, e sebbene lo avesse accudito negli ultimi due, quando Tracy – a causa dell’alcool e dell’abuso di psicofarmaci – si ritrovò, come sempre, depresso ma con in più il diabete e problemi renali.
Altro che Brangelina…, la coppia hollywoodiana per antonomasia, per sempre immortalata nell’immaginario collettivo, resterà Bogie & Bacall in Il grande sonno, il noir di Howard Hawks tratto dal capolavoro di Raymond Chandler. Eppure Humphrey Bogart, nonostante il riuscito matrimonio con la sua Baby (con la quale girò anche altri film, quali Acque del Sud, La fuga – il cult noir per la regia di Delmer Daves – e L’isola di corallo), per gli storici del cinema e gli amanti del gossip non fu un marito ineccepibile. La sua passione per Bacall si accese mentre era ancora coniugato con Mayo Methot – e sull’altare arrivò con un totale di tre divorzi alle spalle e una relazione stabile con la propria segretaria, che continuerà anche dopo (così come avrebbe rivelato quest’ultima, Verita Bouvaire Thompson, nella sua autobiografia, intitolata significativamente Bogie and me: a love story). Al contrario, Bogie ebbe una sola relazione davvero stabile – ma con la bottiglia. Pettegolezzi o meno, tradimenti o meno, i cultori della settima arte non potranno mai dimenticare The Look, quello sguardo dal basso verso l’alto che nacque per caso sul set di Acque del sud. A pochi centimetri da un mito della celluloide come Bogart (25 anni più grande di lei), la diciannovenne Lauren (all’anagrafe Betty Joan Perske, figlia di migranti di religione ebraica), più o meno al suo esordio cinematografico, cominciò a tremare e, per impedire che si vedesse, abbassò il mento appoggiandolo alla spalla e alzando lo sguardo verso la cinepresa: entrerà nel mito insieme all’uomo al quale resterà accanto fino alla (di lui) morte.
Il pennello e la penna
L’impegno politico di Pablo Picasso solitamente inizia e finisce, per la storia dell’arte, con Guernica. Ben pochi sanno che fu l’uomo che salvò Pablo Neruda, come ricorda il Premio Nobel per la letteratura nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto. Fuggito dal Cile e giunto rocambolescamente – attraverso l’Argentina – in Francia sotto mentite spoglie, così rammenta: “Allora comparve Picasso, grande di genio come di cuore. Era felice come un bambino perché aveva pronunciato il primo discorso della sua vita. Un discorso sulla mia poesia, la mia persecuzione, la mia assenza. Ora, con tenerezza fraterna, il geniale minotauro della pittura moderna, si preoccupava della mia situazione nei minimi particolari. Parlava con le autorità; telefonava a mezzo mondo. Non so quanti quadri portentosi smise di dipingere per colpa mia” (ed. Varia Club). Il genio cubista; il ‘compagno’ generoso – quando questo termine aveva ancora un significato; l’artista talmente modesto e innamorato del proprio mestiere da rimettersi in gioco, a 65 anni, per imparare l’arte della ceramica; non era altrettanto sensibile quando si trattava di donne e, sebbene la sequela di nomi femminili sia ormai nota a tutti, forse suscita qualche perplessità la doppia vita che condusse (per ben otto anni), diviso tra Marie-Thérèse Walter e la moglie Olga Koklova, con la quale rimarrà sposato fino al 1957 solo per non concederle la metà dei suoi beni (come da legislazione francese sul divorzio). Però a noi restano le poesie dell’altro Pablo – Neruda – che si salvò soprattutto grazie a lui.
Genio e sregolatezza per antonomasia sono incarnati, nella storia dell’arte (quella che abbisognerebbe di maiuscole), da Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. L’artista che trasformò i santi in popolani, con quei tratti rozzi e comuni che contraddistinguono l’intera specie – con o senza l’aureola; che regalò alle ombre il ruolo di protagoniste; che scompigliò le regole e sbeffeggiò i gusti di quelli che avrebbero potuto pur essere i suoi mecenati; non aveva un carattere conciliante. Sebbene trascorse la vita a immortalare scene religiose (e, del resto, all’epoca la Chiesa era il miglior cliente per gli artisti), il 28 maggio 1606 ferì mortalmente, durante una rissa, Ranuccio Tommasoni. La rissa era nata, probabilmente, a causa di un fallo durante una partita di pallacorda (in tempi in cui non ci si fermava all’insulto all’arbitro o agli allenatori), a cui si aggiungeva una certa ruggine tra i due uomini che gli storici fanno risalire a debiti di gioco non onorati (sempre dal Merisi) e alla rivalità per una donna, Fillide Melandroni. Quest’ultima, come l’altrettanto inconsapevole Briseide – la quale, considerata né più né meno di una libbra di carne al mercato, causò indirettamente l’uccisione di Patroclo e l’ira funesta di Achille – fu tra le ragioni che misero in moto l’intero ingranaggio, che portò all’esilio di uno tra i massimi pittori di tutti i tempi e alle successive traversie che lo condussero alla tomba. E ‘traversie’ andrebbe forse tradotto con ‘quel caratteraccio’ che gli procurò litigi e dispute ovunque posò piede. Ma era quando impugnava il pennello – e non il coltello – che Caravaggio s’involava, alto, sopra noi tutti.
Nel 1936, il sudista William Faulkner aveva il coraggio di scrivere queste parole: “Io penso che col tempo i Jim Bond finiranno per conquistare l’emisfero occidentale. Certo non sarà nella nostra epoca e certo mentre si diffonderanno verso i poli sbiancheranno daccapo alla maniera dei conigli e degli uccelli, di modo che non spiccheranno tanto nettamente sulla neve. Ma saranno sempre Jim Bond; e così in poche migliaia d’anni, io che ti guardo sarò disceso anch’io dai lombi dei re africani” (traduzione di Glauco Cambon per Garzanti). Per chi non avesse letto Assalonne, Assalonne!, specificheremo che i Jim Bond sono gli afroamericani. Faulkner, però, non fu solamente uno tra gli autori che rivoluzionò l’arte del romanzo del Novecento in lingua inglese – insieme ai modernisti britannici – ma altresì uno sceneggiatore raffinato, come dimostrò in The Big Sleep (tratto da un romanzo di Raymond Chandler). Nel ‘49, dopo aver ottenuto il Nobel per la letteratura, fu spacciato come moneta propagandistica dall’America dei blocchi contrapposti, quale simbolo di un Paese che poteva pavoneggiarsi per i suoi scrittori e non solamente per il chewing gum e le bombe atomiche. Faulkner, però, rimase fedele a se stesso se è vero quanto leggiamo in un gustoso articolo di Camilla Baresani per Io Donna: “Il Dipartimento di Stato emise un dispaccio con norme-guida per i suoi viaggi, recapitato nelle varie ambasciate. «Non gli sia permesso di avventurarsi da solo senza scorta», «Affiancargli un responsabile dei liquori che li contingenti», «Far sedere diverse belle ragazze nelle prime due file durante gli incontri pubblici, per tenere desta la sua attenzione»”.
E chiudiamo con una penna che non ci si stancherà mai di leggere per quella sua icastica stringatezza – quella di Raymond Chandler, il raffinato maestro di atmosfere hard boiled, che creò il personaggio di Philip Marlow – il detective dall’animo romantico e dallo sguardo triste, quasi fosse consapevole dell’immondizia che ammorba il mondo, appena aldilà della cenere del suo mozzicone. Nonostante il suo talento (rivelatosi oltre la boa dei quarant’anni), e il successo dei suoi romanzi (spesso trasposti in film che rimarranno nella storia del noir, ultimo tra i quali The long Goodbye, completamente stravolto dal regista, Robert Altman, con un Elliott Gould più cinico e meno romantico del Marlow di Bogart, ma altrettanto melanconico e solitario, consumata la vendetta finale), Chandler non ebbe mai grande fiducia nelle proprie capacità e, soprattutto, non apprezzò mai il genere nel quale era maestro. Considerava le detective story al pari dei romanzi rosa – infarciti di luoghi comuni o astrusi rimandi esotici. Dopo la morte della moglie, la depressione e l’alcolismo lo condussero a tentare il suicidio. Non fu, quindi, un uomo felice, eppure ci ha lasciato il suo humour graffiante per consolarci dell’immane miseria della vita: “Dosava le forze con la cura di una ballerina disoccupata, alle prese con l’ultimo paio di calze senza smagliature”.
Non chiediamo a nessuno di essere campione di morale o esempio di rettitudine. In fondo, “si dorme il grande sonno senza preoccuparsi di essere morti male, di essere caduti nel letame” (R. Chandler).
Venerdì, 4 dicembre 2020
In copertina: Children, Thailand. Foto di Sasin Tipchai da Pixabay.