A Livorno in mostra le collezioni di Alberto Della Ragione e di Giuseppe Iannaccone
di Simona Maria Frigerio
In clima di lockdown light (con profusione di termini inglesi forse per ammorbidire la dura realtà), a Livorno si inaugura un’ampia retrospettiva sulla pittura italiana tra gli anni 20 e 40 – lontana dal convenzionalismo greve del ‘ritorno all’ordine’ – grazie alle raccolte nate per la lungimiranza di due mecenati.
Si inizia il percorso con un artista forse poco noto, dato che morì giovanissimo, Gino Bonichi, ossia Scipione. Minato dalla tubercolosi, in continuo precario equilibrio tra la vita e la morte, di lui restano quei rossi sanguigni (in mostra, Profeta in vista di Gerusalemme, 1930, olio su tavola) che rimandano inevitabilmente al Bue macellato di Rembrandt, e quelle fragili composizioni in perenne e simbolica instabilità (si veda Natura morta con piuma, 1929, olio su tavola) che si rifanno indubitabilmente alle nature morte cezanniane. In esposizione anche uno studio per Gli uomini che si voltano, che intitolerà un capitolo del Diario Sentimentale di Vasco Pratolini – anche lui ricoverato, alcuni anni dopo, per tubercolosi. Di Mario Mafai, poco oltre, spiccano i liquidi riflessi e le tonalità terrose e plumbee che riverberano, però, la luce con mano delicatamente post-impressionista in Tramonto sul Lungotevere (1929, olio su compensato). Anche qui, soprattutto nel taglio cubico dei paesi ritratti – con un appiattimento voluto della prospettiva – si ravvisa la lezione di Cézanne; mentre in Natura morta con la faraona e il candeliere (1940/41, olio su tela), l’esplosione coloristica ha la dirompenza fauve.
La cosiddetta Scuola romana è presente con Fausto Pirandello – figlio del celebre drammaturgo, del quale raccolse le volontà per il finale de I giganti della montagna. Densamente materico, quasi scultoreo, il suo La lettera (1929, olio su cartone), dove è il colore bruno e acceso a colpire l’occhio con la forza di un corpo vibrante che va aldilà dell’oggetto ritratto e che sembra sprigionarsi per riflesso rispetto alla compressione prospettica e alla determinante angusta dell’angolo domestico ritratto. Accanto, le sinuosità rubensiane e la pienezza à la Renoir traboccano nei colori pre-Botero e nelle forme di Siesta rustica (2924/26, olio su tela). Di Carlo Carrà, in mostra il periodo post-metafisico anche se ancora impregnato di quella dimensione surreale e astratta, sospesa nello spazio e intrinsecamente atemporale. Da notare le geometrie morandiane dell’opera Capanni al mare (1941, olio su tela), felicemente dotate di una sensibilità coloristica più vivace e solare. Influenze nabis, al contrario (e i rimandi non sono vezzi spuri), per La vecchia di Ottone Rosai (1919, olio su tela) dove la linea sinuosa restituisce la forma aldilà del soggetto, la massa e il suo delinearsi come dimensione nello spazio. Sul côté paesaggistico, ammirabile la stilizzazione di Via San Leonardo di notte (1948, olio su tela), così come la scelta di sfumature coloristiche che si amalgamo e avvolgono lo spettatore in una morbidezza candida e trasognata. I suoi ‘omini’ tornano, invece, in I fidanzati (1934, olio su tavola), dove la lunga strada che si distende di fronte a loro, sebbene diritta, non sembra presaga di un happy ending. Celebre rivisitazione cezanniana, per tema e trattazione, un’altra opera sempre in mostra, All’osteria (1938, olio su tavola).
Un’intera sala è dedicata a Renato Guttuso con un intenso Ritratto di Antonino Sant’Angelo (1942, olio su tela), ove il realismo dell’immagine – non ancora sclerotizzato dai diktat artistici della Guerra Fredda – si sposa con un tratto deciso che sottolinea i colori pastosi, mentre sfumature verdognole – di matrice espressionista – accentuano lo sguardo dolente di una figura che pare aver perso ogni speranza nella regione umana. Un quadro che trova molte, forse troppe risonanze nell’attualità, e si riflette nell’occhio di chi vede un mondo sempre più allo sbando di valori, ideali e rispetto per la vita umana. Solari miscellanee pastose di vita, al contrario, le opere Cestino con fiaschi e La finestra blu (entrambe del 1941/42, olio su tela); quest’ultima con un blu matissiano che ritroviamo nella tardiva Omaggio a Morandi (1966, olio su tela) – del quale, in mostra, si apprezza una tipica Natura morta (1937/38, olio su tela) dalle tonalità sabbiose, vetrose, rarefatte. Negli altri ritratti esposti, si nota nel Guttuso del periodo una scelta voluttuosa per il colore sfarzoso e brillante, sanguigna più che espressionista.
Bella e poetica la sala dedicata a Filippo de Pisis, alla sua mano leggera, musicale, che afferra per frammenti e restituisce per armonie spesso dissonanti. Come Luigi Tenco, de Pisis ha una nota cerebrale che non ammette la melodia orecchiabile e, quando vi si concede, è per somma autoironia. Un artista che, come il cantautore, non ottenne il giusto riconoscimento in vita (si ricorda che, a causa della sua omosessualità, non gli si conferì il Gran Premio alla XXV Biennale di Venezia, nel ‘48; e che gli si preferì il fascista Giorgio Morandi, del quale troppo spesso si dimentica che, nel 1928, faceva pubblicare dalla rivista – ovviamente fascista – L’Assalto una sua dichiarazione di poetica, nella quale rendeva omaggio proprio al fascismo “come rinnovatore dell’atmosfera artistica italiana” – Treccani docet). Ma torniamo a De Pisis, un artista talmente libero pensatore da trattare l’oggetto come il soggetto, senza soluzione di continuità e che, nel tratto nervoso, accomuna il corpo e il fiore, il palazzo e la via. Di lui, in mostra, Vaso Bleu (1937, olio su tela) e Viole del pensiero (1932, olio su tela); ma anche Il suonatore di flauto (1940, olio su tela), Il Foro Bonaparte a Milano (1941, olio su tela) e l’iperrealista Natura morta sulla spiaggia (1931, olio su tela) – dove la divisione del quadro e il primissimo piano degli oggetti respirano gli echi degli Ossi di seppia, mentre l’arbitrio degli orizzonti la folle visione di un Van Gogh.
Il gusto arcaicheggiante di Massimo Campigli è emanato da Due ballerine (1938, olio su tela) e da Dames aux colombiers (1937, olio su tela). In entrambe le opere l’abbigliamento e il piglio espressivo contemporaneo si scontrano con la ieraticità delle (com)posizioni, la scelta dei colori quasi monocroma (soprattutto in Figura di donna, 1938, olio su tela) e l’esacerbata limitatezza prospettica e compressione dei rapporti, data dalle ridotte dimensioni del quadro – che fanno anelare al murale. Eppure la sua figurazione geometrizzante e primitiva riesce a contenersi senza autoimplodere, come in certe opere del Braque post-cubista.
Delizioso Donne al caffè di Aligi Sassu (1942, olio su tela), ove l’elemento coloristico di matrice espressionista e la pennellata à la Boccioni/simbolista trovano, in una composizione deganiana, vita propria e originale. In questo percorso espositivo, il tratto che da Sassu sembra portare a Vedova è tracciato da Renato Birolli e dal suo Saltimbanchi (1938, olio su tela) che, sebbene antecedente rispetto a Donne al caffè trasmuta già le forme in colore puro, mentre la pennellata, sebbene libera, si piega ancora al diktat del chiaroscuro per restituire il tratto fisiognomico e l’espressione individuale. In chiusura di percorso ecco, quindi, un ciclo di Emilio Vedova ancora figurativista, che riprende il Tintoretto per temi e masse, prospettiche e costruzione dell’insieme e che, però, reinterpreta in quella pennellata materica e sfrontata, in quei colori fauve più che espressionisti, in quegli accostamenti di tratti ritmici che restituiscono ancora forme precise, senza bisogno di disegnare psicologismi e fisionomie individuali. Emblematico in questo senso Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia (1942, olio su tela). Ma non meno espressivi, sebbene più plumbei, come i tempi che le generarono, Maschere (1942, olio su cartone) e Il caffeuccio veneziano (1942, olio su tela), ove si respirano, rispettivamente, Grosz e il Picasso dei saltimbanchi ma anche e soprattutto, nella seconda, Die Brücke.
Una mostra ovviamente pregna delle passioni dei due collezionisti ma altresì espressione del gusto di un’epoca, la prima metà del Novecento, fervida di contrappunti e di un dialogo fitto e intenso sia col passato sia col lavoro di artisti contemporanei di altri Paesi. Un dialogo, questo, ancor più stimabile in tempi di guerre mondiali e blocchi contrapposti, di rigorismi imposti da dittature politico-militari, che mostra come l’artista non possa, per quanto talentuoso, prescindere dal confronto con la realtà che lo circonda e con l’altro da sé (come si sarà notato dai rimandi), con la cultura nella quale affonda le proprie radici e con le stelle verso cui aspirerà sempre.
La mostra continua:
Museo della Città Bottini dell’Olio
piazza del Luogo Pio (quartiere La Venezia) – Livorno
fino a domenica 31 gennaio 2021
orario: dal martedì alla domenica, dalle ore 9.00 alle 19.00 (chiusa il lunedì)
Vissi d’arte
le collezioni di Alberto Della Ragione e di Giuseppe Iannaccone
Venerdì, 6 novembre 2020
In copertina: Il Manifesto di Vissi d’Arte (immagine gentilmente fornita dall’ufficio stampa)